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L’intervista al consigliere togato del Csm su La7. Ospiti anche i magistrati Gianfranco Donadio, Luca Tescaroli e il giornalista Saverio Lodato


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Matteo Messina Denaro
, l’ultimo grande capo mafia di Cosa Nostra, condannato per le stragi del 1992 e del 1993 e per una serie infinita di delitti, è stato finalmente catturato. A quattro giorni di distanza dal suo arresto, avvenuto nel cuore di Palermo, lontano dalla sua Castelvetrano, nella clinica dove si curava, sono tantissime le domande che gli italiani, e non solo loro in realtà, si stanno ponendo: il boss collaborerà? O resterà in silenzio facendosi consumare dalla malattia? Dov’era in questi decenni? Di quali segreti è in possesso? Chi lo ha protetto? E’ stato veramente arrestato o si è fatto catturare?

Tanti interrogativi, tutti legittimi, ai quali hanno cercato di rispondere magistrati e giornalisti, da lunghissimi anni impegnati nella lotta alla mafia, durante lo speciale di Atlantide dal titolo “I segreti dell’ultimo padrino”, andato in onda ieri sera su La7. Tra gli ospiti chiamati a commentare lo storico arresto di “Diabolik” c’era Nino Di Matteo, invitato in studio, che rispondendo alle domande del conduttore Andrea Purgatori, ha cercato di chiarire, per quanto possibile, alcuni aspetti sull’impresa e manifestare anche le proprie impressioni sulla vicenda, a partire dalle incongruenze sollevate da molti in queste ore rispetto a quanto emerso dell’ultimo anno di latitanza del boss.


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Vale a dire gli atteggiamenti insoliti, per un capo mafia di quella portata, a partire dalle sedute di cura in una clinica così affollata come quella della Maddalena, il possedimento di due telefonini, i messaggi scambiati con le pazienti alle quali aveva dato il proprio numero di telefono o il selfie fatto con un infermiere della clinica, ora finito nei guai. Tanti atteggiamenti che avrebbero potuto facilmente compromettere la sua copertura e che hanno colpito anche il magistrato Di Matteo che sul punto è stato molto netto. “Di fronte a comportamenti così incauti, credo che l’alternativa sia abbastanza chiara: o si sentiva talmente protetto, a livelli alti, da adottarli - certo del fatto che non lo avrebbero mai arrestato - o si è fatto arrestare, o ha accettato nell’ultimo periodo di essere arrestato senza fare nulla per nascondersi”. Ipotesi amare che però non devono togliere nulla all’enorme successo investigativo, come ha voluto sottolineare lo stesso Di Matteo, della procura di Palermo, dei carabinieri e delle forze di polizia giudiziaria che hanno lavorato in tutti questi anni alla ricerca del latitante. “Lunedì 16 gennaio è stato un giorno in cui si è segnata una tappa importante nella lotta alla mafia”, ha puntualizzato il consigliere togato del Csm. “Finalmente è stato assicurato alla giustizia un soggetto condannato definitivamente per numerosissimi omicidi e per le stragi del ’92 e del ’93”.


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Ad ogni modo, secondo Di Matteo, è comunque “oggettivamente scandaloso che oggi, all’epoca delle tecnologie più avanzate, della preparazione riconosciuta da tutti delle nostre forze polizia, un soggetto resti latitante per 30 anni”. In questi 30 anni “si è detto di tutto sulla latitanza di Matteo Messina Denaro”, ha ricordato il magistrato. “Molti hanno detto che era morto, altri che si era rifatto i connotati e che abitasse stabilmente all’estero. Le cronache di questi giorni dimostrano il contrario”. Dimostrano infatti, che l’ex “primula rossa” vagava indisturbato da Campobello di Mazara, dove si è scoperto vivesse grazie all’identità prestatagli dal geometra Andrea Bonafede, a Palermo dove veniva a fare le terapie. Avanti e indietro da almeno un anno, dicono gli inquirenti. Ora gli investigatori stanno cercando di capire come sia stato possibile e hanno già iniziato a indagare alcuni presunti (ancora) fiancheggiatori.

Chi è Matteo Messina Denaro?
Di Matteo ha ricordato al pubblico da casa chi è Matteo Messina Denaro, facendo una disamina del personaggio. “Messina Denaro è un uomo che ha conoscenza di tante vicende ancora coperte dal mistero. E’ cresciuto a pane e mafia”. “Diabolik”, infatti, come lo chiamavano i suoi sodali, è “figlio di Ciccio Messina Denaro, capomafia storico nel trapanese, ha conosciuto da giovane Riina il quale ha puntato molto su di lui”. Messina Denaro si è formato nel territorio di Trapani che è una realtà territoriale sui generis in Sicilia, del resto “Giovanni Falcone la chiamava la Svizzera della mafia”, ha ricordato il giornalista Saverio Lodato anche lui ospite della serata. Era una delle sedi del centro occulto “Gladio”, del “Centro Scorpione”. Messina Denaro “da capomafia di Trapani immagino che certe vicende le conosca”, ha detto Di Matteo.


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Come potrà conoscere bene le vere cause del tentato omicidio al commissario Rino Germanà. Messina Denaro - ha continuato Di Matteo - era un soggetto che nei primi mesi del ’92 venne mandato a Roma per pedinare e uccidere Giovanni Falcone. E lo avrebbero potuto fare facilmente, ma venne richiamato da Riina a Palermo per fare un attentato che ebbe difficoltà superiori di un omicidio normale”. Il riferimento è all"attentatuni” del 23 maggio 1992. Infatti il boss “dovrebbe sapere il perché del cambiamento improvviso di programma dell’attentato contro il giudice. Dovrebbe sapere i motivi dell’accelerazione della strage di via d’Amelio contro Paolo Borsellino e deve sapere qualcosa sulla sparizione della sua agenda rossa e su cosa volevano controllare coloro i quali hanno sottratto quell’agenda, cosa temevano che Paolo Borsellino avesse capito e annotato in quel periodo”. Messina Denaro non è solo mandante delle stragi del ’92 - per le quali è stato condannato a Caltanissetta (oggi doveva apparire a processo ma ha deciso di rinunciare) - ma anche “uno degli esecutori delle stragi del ’93”. E nello specifico, “come dice anche il pentito Gaspare Spatuzza, è colui che diede le indicazioni agli altri uomini d’onore sui bersagli e i beni monumentali da colpire che non erano nell’immaginario di Riina che era già detenuto e forse nemmeno in quello suo”. Sul punto, infatti, “bisogna capire se anche lui le ricevette da qualcuno di esterno” a Cosa Nostra. Messina Denaro, dunque, “è sicuramente conoscitore di queste situazioni”.


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Il boss parlerà?
Alla domanda se il boss stragista ora collaborerà con la giustizia, Nino Di Matteo, ha riposto: “Sul punto non considero molto serio fare previsioni, anche perché la storia di Cosa Nostra ha mostrato che sono scelte imprevedibili e personali. Ma ovviamente è quello che si può auspicare. So che se ci fosse una collaborazione seria ed effettiva segnerebbe un salto di qualità nella lotta al sistema mafioso. Deve dire tutto quello che sa. E lo Stato deve dimostrare di volerla cercare quella collaborazione, mostrando di non avere paura, eventualmente, di affrontare certi argomenti e fare certe domande e di indagare su certe questioni che possono essere scomode”.

Le parole di Baiardo e il brutto ricordo della vicenda Provenzano
Cercando di chiarire, passo dopo passo, e nel limite del possibile, i dubbi dell’opinione pubblica rappresentati nelle domande di Andrea Purgatori, Nino Di Matteo ha risposto a una domanda sulle dichiarazioni rilasciate a novembre da Salvatore Baiardo, favoreggiatore dei fratelli Graviano, a proposito della latitanza di Messina Denaro e di una sua possibile cattura. Nello specifico, Baiardo aveva detto al giornalista Massimo Giletti, che il capo mafia stava molto male aggiungendo, tra le righe, che presto si sarebbe potuto assistere a una sua cattura. Parole che oggi a molti suonano come una profezia.


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Quando ho ascoltato l’intervista di Giletti a Baiardo rimasi colpito dalla nettezza delle sue dichiarazioni”, ha detto Di Matteo. “Intanto perché non era scontato che Messina Denaro fosse così gravemente malato. Ma la cosa che mi colpì maggiormente fu il riferimento temporale che fu puntuale. Baiardo disse che sarebbe stato arrestato in pochi mesi”. Secondo il magistrato palermitano “questa situazione andrebbe approfondita e non trascurata. Soprattutto se si considera che Baiardo è stato uomo particolarmente vicino a Giuseppe e Filippo Graviano. Non è mafioso d’hoc ma è uomo vicino ai Graviano. È stato condannato definitivamente per favoreggiamento in relazione all’attività di ausilio alla latitanza dei Graviano nel periodo caldo del ’92 e del ’93. Diventa difficile che tali dichiarazioni così nette, precise e insinuanti, le abbia fatte senza avvertire o senza il consenso o senza essere mandato dai Graviano”. In quel colloquio che lo stesso Baiardo definiva "un pour-parler tra me e Giletti e qualche milione di telespettatori”, il gelataio di Omega addirittura faceva riferimento ad una possibile trattativa ("Potrebbe succedere come una vecchia trattativa che già era stata fatta nel 1993”) e poi aggiungeva: "Quando lo Stato deciderà di volerlo prendere lo prenderà. (…) Presumo che sia una resa sua (…) tutti cambiamo in 30 anni”. Di Matteo, sul punto, non si è sbilanciato ma nel corso della trasmissione, rispondendo alle osservazioni di Purgatori, ha ricordato quanto accadde con Bernardo Provenzano, che ha goduto anche lui di alte coperture ed è stato catturato dopo oltre 40 anni di latitanza, record assoluto.


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Non dobbiamo dimenticare quanto è accaduto in passato. Non dobbiamo dimenticare quanto è accaduto a proposito della latitanza di Provenzano. Non parlo io ma i giudici di Appello del processo trattativa Stato mafia, cioè quelli che hanno assolto gli imputati istituzionali, condannando i mafiosi. Quindi giudici, non apertamente schierati con le tesi dei pm. I giudici hanno scritto che ad un certo punto quegli alti ufficiali del Ros che avevano intrapreso un dialogo con la mafia per tramite di Vito Ciancimino, hanno ritenuto, per alcuni anni, di favorire la latitanza di Provenzano per ‘indicibili ragioni di interesse nazionale’. Cioè perché in quel momento si riteneva che lasciare libero Provenzano fosse funzionale a garantirne la forza e la potenza, rispetto all’altro schieramento, quello stragista di Messina Denaro e dei fratelli Graviano. Si dice in quella sentenza che lo Stato si alleò con un nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”, ha ricordato Di Matteo. E fu lo stesso Ros a non perquisire per venti giorni il covo di Riina in via Bernini dopo il suo arresto, permettendo che venisse ripulito di tutte le carte preziose in esso custodite. Carte, poi, finite nelle mani di Messina Denaro.

Il collaboratore di giustizia, braccio destro di Provenzano, Antonino Giuffré ha detto che tutti gli altri componenti della commissione provinciale e regionale Cosa Nostra, sapevano che documenti importanti che Riina aveva custodito nel covo erano finiti nelle mani di Matteo Messina Denaro”, ha ricordato Di Matteo. “E questo rappresentava non soltanto, ‘un’assicurazione’ per la sua latitanza, ma soprattutto un’arma di ricatto enorme. L’arma di Cosa Nostra non è solo quella delle bombe, dei Kalashnikov, ma anche quella del ricatto nei confronti di chi la mafia la dovrebbe contrastare”.


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Totò Riina esce dal covo in via Bernini


Nino Di Matteo nel mirino di Messina Denaro
Nel corso della puntata Andrea Purgatori ha anche affrontato la questione del progetto di attentato, di cui ancora c’è pericolo secondo il presidente del tribunale di Palermo, contro Nino Di Matteo. Di questo progetto di morte, per il quale era arrivato anche l’esplosivo, fu il collaboratore di giustizia Vito Galatolo a parlarne per primo e a ordinarlo era stato proprio Matteo Messina Denaro. “Al di là della questione personale della quale non mi piace parlare, va ricordato, a mio avviso, che se sono reali questi fatti venuti fuori da intercettazioni e dalle dichiarazioni di un pentito attendibile che ha parlato dell’acquisto di esplosivo per organizzare quell’attentato, allora non è vero che dal 1994 Cosa Nostra esclude di poter fare attentati laddove lo ritenesse necessario”, ha detto il magistrato. Di Matteo non ha voluto fare considerazioni né rappresentare opinioni riguardo a quel piano letale ancora non ritirato, ma ha comunque voluto raccontare “un fatto vissuto direttamente” che però, a chi ascolta, proietta ancora di più nella dimensione di rischio nella quale vive costantemente questo servitore dello Stato. “Vito Galatolo scrisse una lettera alla procura di Palermo chiedendo di riferire con me. Quando andai era molto agitato e mi disse subito che dovevo stare molto attento perché ‘erano molto avanti nella preparazione di un attentato nei miei confronti’. Io non potevo raccogliere quelle dichiarazioni perché lui non voleva verbalizzare, anche se poi il maresciallo che era con me annotò e presentò una relazione di servizio. Io gli chiesi perché? La risposta fu laconica ma non la dimenticherò mai. C’era una fotografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quella classica che si vede in molti uffici pubblici, e lui la indicò e disse “non come quello (Falcone, ndr) ma come l’altro (Borsellino, ndr). Lui disse così. Vide la mia perplessità e disse soltanto ‘ce lo hanno chiesto’”. È una frase che riecheggia, ha commentato Di Matteo, “perché la pronunciò anche Totò Riina davanti agli altri componenti della Cupola a Palermo quando disse che dopo Falcone si doveva uccidere Borsellino e alle perplessità presentategli dagli altri capi mafia, rispose ‘lo dobbiamo fare ora, ce l’hanno chiesto’”.


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Donadio e il lavoro di ricostruzione sulle stragi
A seguire, è stato il turno di Gianfranco Donadio, procuratore di Lagonegro e consulente della Commissione Antimafia che ha lavorato alla stesura della relazione che riguarda le entità esterne nelle stragi di mafia.

Donadio, da anni, definisce le stragi come “ibride”, “perché a fianco agli uomini di Cosa Nostra hanno agito soggetti non di Cosa Nostra”. Sul punto, infatti, è centrale il fattore della presenza di soggetti femminili nei luoghi degli attentati, e si presume che queste avessero avuto ruoli di comando in quelle operazioni eversive, elemento totalmente in distonia con i dogmi di Cosa Nostra e che quindi lascia pensare a un connubio di forze nella realizzazione di questi progetti di morte. Negli ultimi anni i magistrati sono riusciti ad arrivare anche a fotofit di queste donne killer e anche a nomi e cognomi, tuttora da accertare.


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Di donne nei luoghi delle bombe di mafia se n’è occupato a lungo anche Donadio che riguardo alla strage di via Palestro, per esempio, ha ricordato: “Prima che esplodesse la Fiat UNO, viene vista scendere una donna bionda. Questo è stato l’incipit che ha indotto il comitato, che si occupava principalmente di Georgofili, di andare a rivedere l’ipotesi di presenze esterne alla mafia. Il comitato - ha ricordato Donadio - cominciò questo lavoro esplorativo e lo ampliò agli archivi delle forze di polizia e dei servizi segreti. Ed emerse una prima circostanza estremamente interessante”, ha detto a Purgatori sul punto. “I carabinieri, due giorni dopo l’esplosione della strage di Georgofili, incontrarono il portiere di un condominio che disse di aver visto, la notte della strage intorno alle 23.30, cioè un’ora prima lo scoppio, dinanzi a questo condominio, tre automobili: un Fiorino, una piccola berlina di colore blu, e una Mercedes. Nel raccontare questa scena precisò di ricordare il trasferimento di un pesantissimo borsone e ordini impartiti a questo gruppo da una donna. I carabinieri fecero incontrare questo testimone con specialisti e viene fuori un identikit, un fotofit. Ma non è l’unico che abbiamo, perché anche la polizia a sua volta, parlando con questo portiere, riuscì a ricostruire questa immagine”.

Quello che ci colpì molto è che né la prima né la seconda vennero divulgate, eppure i giornali di Firenze e quelli nazionali, in quei giorni, pubblicarono praticamente tutti gli identikit maggiormente interessanti”.


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Ora - ha aggiunto Donadio - si tratta “di ricostruire questo frammento che non ha avuto fortuna processuale. Tutto quello che si legge nei verbali è molto preciso. L’esame di questo testimone si conclude con una battuta che dà molto il senso del problema: ‘Perché mi avete sentito 30 anni dopo?’”. Secondo Donadio, il vero problema di questa rappresentazione della presenza femminile è che “colloca la scena intorno alle 23.30, ma la verità del processo segnala che l’allontanamento del Fiorino dal luogo dove era tenuto, contenente 140 chili di esplosivo, avviene secondo il collaboratore di giustizia che ne parla, Vincenzo Ferro, poco prima della mezzanotte. Questo primo ostacolo rende arduo lo sviluppo del lavoro, perché noi dobbiamo coprire una fascia oraria. Appare incompatibile, quindi non particolarmente apprezzabile, la testimonianza del portinaio. Però accadono novità molto importanti, innanzitutto l’esplosivo, i periti hanno dimostrato che quell’enorme cratere di Via dei Georgofili è stato determinato dallo scoppio di 250 chili di esplosivo che è una cosa completamente diversa dai 140 chili di cui ci hanno parlato in commissione le persone ascoltate. Ma all’interno di questa carica vi era una larghissima presenza di esplosivo militare, che è diverso del tritolo. Nelle macchine adoperate dai mafiosi a Firenze non c’è traccia di esplosivo diverso dal tritolo, quindi? Torna alla mente il passaggio del borsone, l’ipotesi del rafforzamento del contesto del Fiorino. Ma abbiamo comunque il problema principale, quello degli orari”. Sempre riguardo alle stragi del 1993, Donadio ha ricordato, a proposito di entità esterne, che Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, fosse a Firenze nei giorni dell’attentato agli Uffizi.

Questo particolare “è negli atti del primo processo. C’è la testimonianza di un passeggero che scende il giorno prima del 27 maggio alla stazione di Santa Maria Novella e vede scendere con lui una persona che riconosce senza ombra di dubbio in Stefano Delle Chiaie”.


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La latitanza anomala di Messina Denaro
Tornando al punto centrale della puntata, il capo mafia di Castelvetrano, Donadio ha ricordato che “Matteo Messina Denaro è la persona che raduna i quattro siciliani che vanno a Firenze, più precisamente a Prato con il treno, e distribuisce le istruzioni. E lui che organizza e comanda la spedizione e accanto a lui, ovviamente, c’erano i Graviano”. Rispetto alla latitanza dell’ex "primula rossa”, invece, il procuratore ha ricordato che “latitanze lunghissime sono state numerose” nella storia di Cosa Nostra, “ma questa di Matteo Messina Denaro è una latitanza anomala. Perché, come hanno dimostrato le indagini sulle reti dei fiancheggiatori, più volte si stava per giungere a Messina Denaro e più volte è scattato un meccanismo di salvezza. Questo è successo anche con altri, è vero, ma con Messina Denaro c’è un motivo in più, lui è l’ultima mente dei grandi segreti della commistione tra Cosa Nostra e ambienti eversivi. Non è poco. Quello che racconta la storia del covo di via Bernini è che un grande capo come Riina avesse un grande tesoro ma costituito da informazioni. Cosa Nostra è un’entità multiforme ma è anche titolare di un tesoro di intelligence che vende e scambia”.

Sull'eccezionalità della latitanza di Matteo Messina Denaro ne ha parlato anche Luca Tescaroli, procuratore aggiunto di Firenze, altro ospite “togato” della trasmissione.


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"Ho appreso la notizia dell’arresto in termini molto positivi, perché si è trattato di un risultato straordinario da parte dello Stato. L'arresto di un latitante lo è sempre”, ha premesso il magistrato. “E lo è in particolar modo in questo caso perché Matteo Messina Denaro è un mafioso sanguinario che si è dimostrato, con sentenze passate in giudicato, essere stato mandante organizzatore dei sette episodi di stragi che si sono consumate nel biennio 93/94. Stragi che si collocano e che hanno assunto una dimensione politica e un risultato estremamente importante, un punto di arrivo di molti altri risultati significativi che sono stati ottenuti dopo la campagna stragista di Cosa Nostra del triennio 92-93-94”. L’arresto di “u siccu” “è particolarmente importante però perché consente di dimostrare che lo Stato c'è, che i cittadini possono avere fiducia e abbracciare lo Stato, che si è dimostrato più forte di Cosa Nostra. È un arresto che è avvenuto proprio in Sicilia dove Matteo Messina Denaro esercitava il suo potere. Lo ha fatto durante la stagione stragista e lo ha proseguito anche nella fase successiva, perché gli ha consentito anche di traghettare l'organizzazione di Cosa Nostra, dalla fase stragista di attacco al cuore dello Stato, alla fase successiva caratterizzata dall'inabissamento e dalla capacità di continuare le attività criminose anche nei 30 anni successivi". Rispetto alla sua latitanza, rifacendosi a sentenze passate in giudicato e a “ciò che si intuisce sulla base di indizi e di sospetti”, il caso “Matteo Messina Denaro è un caso per così dire esemplare, perché è riuscito a tenere in scacco lo Stato per un trentennio nonostante forze dell'ordine e inquirenti altamente specializzati che hanno operato per cercare di catturarlo”.


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Tescaroli spiega la rete che ha protetto “u siccu”
Sempre riguardo alla fuga trentennale del capo mafia di Castelvetrano, secondo Tescaroli, “si dimostra in maniera icastica che vi è stata una solida rete di protezione sia in seno a Cosa Nostra, sia nell'ambito dell'imprenditoria, delle istituzioni e della borghesia mafiosa”. La stessa borghesia mafiosa di cui ha parlato il procuratore Capo di Palermo Maurizio De Lucia dopo l’arresto del latitante. “E ci porta a una considerazione di fondo che consente di spiegare come e per quasi due secoli ci sia stata una convivenza tra lo Stato e il crimine mafioso, due realtà che secondo una logica manichea non potrebbero coesistere. Se noi consideriamo lo Stato come rappresentazione del bene e il crimine mafioso, Cosa Nostra in particolare, come dimostrazione del male, due realtà molto diverse e tra loro antagoniste con poteri, disponibilità e mezzi molto diversi perché lo Stato ha grandi disponibilità molto più di quanto abbia avuto Cosa Nostra. E allora bisogna interrogarsi sul perché ci sia stata questa coesistenza. Una delle risposte, perché la questione è molto complessa, sul perché non vi è stata una linea di demarcazione netta tra il bene lo Stato e il male, la mafia, Cosa Nostra in particolare. Ed è su questo settore, su questo anello di collegamento che dovrebbero essere indirizzati con crescente intensità gli sforzi investigativi se si vuole, come molti lo vogliono ottenere, il risultato della sconfitta di Cosa Nostra”. Alla domanda di Andrea Purgatori se Tescaroli dovrà interrogare Messina Denaro, il procuratore ha risposto. “È una decisione che stiamo valutando assieme al collega Luca Turco come assegnatario del procedimento e con gli altri magistrati che si occupano di vicende collegate alle stragi del 93 del 94”.


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"Io da magistrato posso dire questo: che noi possiamo affermare solo ciò che si può e che sia dimostrato con sentenza passata in giudicato. Sono stati emessi tre verdetti della corte di Cassazione che hanno dimostrato la finale responsabilità di 34 imputati e fra questi Matteo Messina Denaro. Se Matteo Messina Denaro sia stato l'anello di congiunzione con altre personalità, questo io non lo posso dire. Posso dire che è possibile, ma solo delle investigazioni suffragate da sentenze passate in giudicato potranno dare delle risposte e io - ha concluso - non posso fare predizioni nella veste in cui mi muovo”.

Guarda la puntata integrale: la7.it/atlantide

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