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La notizia esplode come un’atomica a Capodanno, oscurando accise galoppanti, gossip pseudomonarchici e premature dipartite di nonagenarie dive.
Rimbalza tra le veline d’agenzia, per poi passare di bocca in bocca, nei bar e nelle tavole, tra un crodino e una forchettata di penne rigate. Tacitando sapienti analisi tecnico-tattiche e incipit di scazzi familiari.
Il superlatitante, l’ultimo degli stragisti, il boss dei bosses, la Primula Rossa per eccellenza, è stato finalmente arrestato.
Durante un day hospital in una clinica privata di Palermo, perché, si dice, è gravemente ammalato.
Nelle ore successive apprendiamo nuovi, succosi particolari. In grado di risvegliare gli ormai perduti valori anche nelle coscienze più sorde e retrive.
Sarebbe, il condizionale è lecito su temi di tale portata, grande appassionato di Nintendo, la popolare console videoludica giapponese.
Avrebbe intessuto, negli anni, intense relazioni amorose, con teneri scambi epistolari, degni dello stilnovismo più sfrenato.
Inviato lunghe missive all’ex sindaco di Castelvetrano. Con sfoggio di cultura, classica e moderna, insieme a stralci di pessimismo cosmico. Paragonandosi, pare, al Malaussene di Pennac, hircus emissarius per eccellenza. Mischiando Kant agli appalti Anas, l’Antimafia con l’Eneide, Orazio e il proprio, ineluttabile destino.
Fatti sconosciuti fino a ieri e oggi sbattuti in prima pagina, con dovizia di fonti, citazioni e riferimenti. Insieme a interminabili ricostruzioni dell’arresto (senza manette, ma è il must di quest’anno, sentenziano gli esperti di moda) e scrupolose stadiazioni del cancro al colon. In cui, per amor di pignoleria, bisogna lamentare l’assenza di informazioni su eventuali stazioni linfonodali colpite. Indispensabile viatico di ogni attendibile prognosi.
Insomma, di questo Principe del Male, autentico enigma avvolto in un mistero, visibile solo su vaghi e datati identikit, tutti sapevano tutto, o quasi tutto. Con qualche colpevole incertezza sulle preferenze gastronomiche. Cannolo o cassata? Bucatini con le sarde o pani ca meusa? Minuzie forse, d’accordo, ma sulle quali la parte sana del paese esige che si faccia presto chiarezza.
Più che legittimi, appaiono comunque, gli starnazzi di ottoni e il rullio di tamburi, inneggianti allo straordinario riaffermarsi dello Stato. Il doveroso plauso alle forze dell’ordine, che con certosina pazienza hanno reso possibile ciò che era, fino a ieri, insperabile.
And, last but not least, un accorato ringraziamento alle istituzioni che, facendo muro contro questo germe di illegalità, hanno impedito la diffusione della venefica virulenza fin nelle stanze dei bottoni.
Suonano invece cacofoniche e stonate, nell’aggraziato coro generale, le voci dei soliti malpensanti.
Dietrologisti dell’ultima ora che insistono nel domandarsi quali garanzie debba aver ricevuto, un uomo simile, per curarsi in una clinica privata a poche centinaia di metri dal quartier generale della Direzione Investigativa Antimafia.
Quale potere di ricatto abbia posseduto, nei confronti di parte della sottospecie dominante, per trascorrere decenni di serena latitanza, tra videogiochi e corrispondenze d’amorosi sensi.
Se si è trattato, once more, del solito pensionamento. Autodeciso o imposto dai sodali, causa sopraggiunta inabilità fisica e lavorativa ai sensi della legge 104.
Interrogativi dissonanti, che riportano alla mente le parole dell’ex procuratrice aggiunta di Palermo, Teresa Principato, quand’ebbe a dire: siamo di fronte a un latitante che ha un rapporto forte con massoneria e politica.
O la recente condanna (ha brillantemente conseguito sei anni per concorso esterno) di un ex sottosegretario agli Interni, il forzista Antonio D’Alì.
In virtù, si legge nella sentenza della Cassazione, di una stabile, affidabile, comprovata e ventennale disponibilità a spendersi in favore di Cosa Nostra.
Piccolo particolare, la famiglia D’Alì ha potuto giovarsi a lungo della preziosa opera nei vasti possedimenti del trapanese, di un alquanto singolare campiere. Don Ciccio, ex capo del mandamento di Castelvetrano, nonché padre del più celebre Matteo.
Miserie, quand’anche si verificassero, dice giustamente il cellario Remigio nel Nome della Rosa, libro senz’altro presente nella vasta biblioteca del boss.
Non ci curiam di loro e passiamo oltre, senza nemmeno guardare. E soprattutto senza arrovellarci le meningi con l’ultimo e più astratto degli interrogativi.
Chi ha più potere, ora, oggi, in questo paese, tra un boss malato e detenuto in carcere di massima sicurezza e un qualsivoglia cittadino semplice, incensurato, senza mai nemmeno una multa per divieto di sosta?
Uno di quei cittadini per bene, che pagano le tasse e che quindi, come saggiamente sostiene il presidente Mattarella, sarebbero i veri proprietari della Repubblica.
Chi potrebbe, tra i due, con un semplice pizzino, decretare all’istante la morte dell’altro? Per un semplice capriccio o per una frase letta su social e ritenuta oltraggiosa?
Quesiti astrusi e senza uscita, sui quali, come già detto, è inutile lambiccarsi.
Quando invece potremmo apprendere, al più presto, per quale squadra tifava il boss. Il Trapani o il Palermo, per esempio. Oppure l’Inter, chissà.
Per uno che si paragona a Malaussene, andrebbe più che bene.

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