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Nel rapporto semestrale della Dia su Cosa Nostra, il capo della mafia rimane Matteo Messina Denaro

Lo diciamo subito: siamo certi che i pubblici ministeri di Palermo che a giorni saranno guidati dal nuovo capo della procura Maurizio De Lucia daranno il massimo - come hanno fatto in questi anni - per coordinare le squadre speciali di forze di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza dedicate alla ricerca di Matteo Messina Denaro. Ma è un dato di fatto che fin quando esista uno Stato-Mafia che gli cura la latitanza, quel giorno che il Paese attende da quasi 30 anni faticherà ad avvicinarsi. Di queste tutele e protezioni ne ha parlato anche in questi giorni la Direzione Investigativa Antimafia nella seconda relazione del 2021 (luglio-dicembre) - diffusa con sensibile ritardo dal Viminale - sul fenomeno delle mafie in Italia. Riguardo alla provincia di Trapani, feudo di Messina Denaro, nato a Castelvetrano, la Dia osserva: “Il connubio politico-mafioso in questo particolare territorio potrebbe dar vita a una fitta rete di “protezione” che potrebbe favorire l’esecuzione della lunga latitanza”. Sul punto gli analisti descrivono Matteo Messina Denaro quale “figura di riferimento anche delle articolazioni mafiose non trapanesi”. Una definizione inesatta, a nostro modo di vedere, almeno in parte. Matteo Messina Denaro, figlio del defunto Francesco Ciccio, anche lui capo del mandamento di Castelvetrano, non è “figura di riferimento” ma vero e proprio capo di Cosa Nostra in Sicilia. La differenza sembra sottile ma non lo è affatto, anche perché stiamo parlando di un’organizzazione criminale che di termini e linguaggio ne ha fatto la propria peculiarità nel mondo. Chi appartiene a Cosa Nostra non si rifà a “figure di riferimento” ma a vere e proprie cariche verticistiche di gerarchia militare - le stesse da oltre un secolo e mezzo - scoperte grazie alle rivelazioni di pentiti come Tommaso Buscetta, interrogati dall’encomiabile Giovanni Falcone. In Cosa Nostra, ricordiamo a chi legge, esistono soldati, capi decine, capi famiglia, capi mandamento, consiglieri, commissione (detta anche Cupola) e Capo dei Capi. Messina Denaro siede proprio qui, nella catena più alta dei “predatori”.
É lui che, secondo le regole di Cosa Nostra, oltre a comandare nel trapanese, dirige la cupola in assenza degli storici “capi dei capi” Salvatore Riina e Bernardo Provenzano (deceduti alcuni anni fa), in armonia con gli altri capi mafia reclusi al 41bis: Giuseppe e Filippo Graviano, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola, i fratelli Madonia e pochissimi altri.
Messina Denaro è un boss sui generis. E' colto, ama leggere, l’alta moda, le belle macchine ed è grande appassionato di opere d’arte. Questo si sa di lui. Poco altro. Rispetto ai Provenzano, ai Bagarella e ai Riina, noti per la loro grettezza di boss dell’entroterra siciliano, “‘u siccu”, possiede più un’impronta imprenditoriale. Si calcola che circa cinque miliardi di euro di beni gli siano stati sequestrati in sette anni di indagini coordinate dalla Dda di Palermo. Cifre esorbitanti, andate in fumo, per le quali il boss non ha battuto ciglio. La sua “holding” criminale si occupa di qualunque cosa: dalle classiche attività illecite quali traffico di droga e corruzione, fino ai prodotti alimentari, all’energia alternativa, come gli impianti eolici e aumenta le sue azioni nelle aziende di primaria importanza in Italia. Fu lo stesso Riina, che lo ebbe come pupillo sotto raccomandazione del padre “Don Ciccio, a lamentare la sua indole in un’intercettazione in carcere. “…Questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa...”. Ma l’apparenza inganna. Dietro quella vita da magnate, da giacca e cravatta, che inquirenti e mafiosi raccontano stia vivendo il capo mafia, si nasconde un demone. Matteo Messina Denaro infatti ha coordinato, ordinato ed eseguito centinaia di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido.





E’ lui ad aver fatto parte del commando che doveva eliminare Falcone nella famosa “missione romana” nel febbraio-marzo ’92 (salvo poi essere richiamato in Sicilia insieme agli altri boss su ordine di Riina che aveva in mente “l’attentatuni”). E’ lui che cercò di uccidere, fortunatamente senza riuscirci, l’ex questore Rino Germanà insieme a Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. E’ lui che nell’autunno 1991 - proprio nello stesso periodo della riunione di Enna in cui si decise la strategia stagista di Cosa Nostra - diede il consenso a sette attentati: i primi due contro Falcone e Borsellino nel ’92; e gli altri cinque contro basiliche e musei dello Stivale nel 1993. Attentati che provocarono decine e decine di morti civili, bambine incluse (come Caterina e Nadia Nencioni), per le quali è stato condannato in qualità di mandante a Firenze e a Caltanissetta (in secondo grado).
E’ lui (insieme all’altro boss stragista Giuseppe Graviano) a conoscere i segreti sui mandanti esterni delle stragi, sugli accordi dei boss con i politici, stipulati a cavallo tra la Prima e la Seconda Repubblica, battezzata alle politiche del ’94 con la vittoria di Forza Italia, partito fondato da Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (indagati a Firenze quali mandanti esterni delle stragi del ’93). Ed è sempre lui, seguendo la volontà di Riina in cella, ad aver ordinato a fine 2012 un attentato contro l’ex sostituto procuratore di Palermo, oggi al Csm, Nino Di Matteo, che su quegli ibridi connubi indagava con un pool di pm al così detto processo Trattativa. Un progetto di attentato, quello deliberato dalla “primula rossa”, tuttora in corso secondo gli investigatori. Tutto questo e molto altro si cela dietro al capo mafia che noi abbiamo più volte descritto come latitante di Stato. Una definizione, la nostra, suggerita dalle chiare e plurime coperture istituzionali di cui “MMD” ha goduto e continua a godere. Coperture accertate da inchieste, intercettazioni, confessioni. Il mantello di invisibilità è stato cucito su misura da una rete occulta di boss, faccendieri, politici, funzionari di Stato e persino membri della massoneria, come ha riferito l’ex procuratrice aggiunta di Palermo (oggi alla DNA) Teresa Principato. Di lui, Saverio Lodato qualche anno fa aveva ricordato che oltre ai fiancheggiatori hanno “arrestato i parenti fino alla settima generazione”. Eppure nonostante questo, e nonostante le innovazioni tecnologiche investigative come droni e intercettazioni in tempo reale, Matteo Messina Denaro è introvabile.
C’è addirittura chi, in Cosa nostra, lo ha dato per morto. La cosa è emersa recentemente in un’intercettazione riportata nell’ennesima inchiesta effettuata contro i suoi fiancheggiatori. Uno degli arrestati, Marco Buffa, avrebbe messo in giro la voce della morte di “‘u siccu” ma era stato subito redarguito dal boss di Castelvetrano, Piero Di Natale. “Chiedi scusa, perché è vivo e vegeto”, gli aveva detto allertandolo che era “arrivata notizia” della voce che aveva messo in giro. Sempre in quell’inchiesta Di Natale aveva confessato a Buffa di aver letto uno dei pizzini che Messina Denaro avrebbe spedito al boss scarcerato Francesco Luppino, uno dei principali portavoce del latitante incaricato di riorganizzargli la rete di coperture. “Allora in uno degli ultimi - affermava Di Natale - gli ha detto (a Luppino, ndr): salutami a Sandrone e digli che io sono qua come prima, anzi più di prima e lui è il suo pensiero, perché io a questo l’ho messo qua, a questo l’ho messo qua…”. Un messaggio che proverebbe nuovamente come il boss stragista sia in piena attività, al punto da impartire direttive atte alla riorganizzazione degli assetti mafiosi della provincia di Trapani. Ma nonostante questo Messina Denaro riesce a non fare passi falsi, anche grazie alle coperture di cui abbiamo parlato.
“Il suo arresto rimane una pura utopia”, diceva la compianta Giovanna Maggiani Chelli che per nove lunghi anni ha raccolto le richieste e le speranze dei familiari della strage di via dei Georgofili di cui Messina Denaro, in parte, si vantava di aver fatto. Nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità diramata dal Ministero degli Interni, Matteo Messina Denaro è al primo posto. Il prossimo 2 giugno, Festa della Repubblica, festeggerà i suoi 30 anni di latitanza.

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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