Le parole di Scarpinato, Lombardo, Di Matteo, Moro, Ardita e Tescaroli al convegno "Uccisi, traditi, dimenticati"
Un convegno per fare memoria attiva, ricordando Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, ma anche fare il punto su ciò che è oggi la lotta alla mafia, in un tempo storico in cui in Parlamento sono in discussione leggi che incidono sulla giustizia, sulla libertà di informazione e sulla lotta alla mafia, e nella città di Palermo rispuntano sulla scena della politica i vecchi volti di uomini condannati per fatti di mafia, dando input su chi scegliere o meno come prossimo sindaco.
E poi ancora la storia delle stragi, con la presentazione del video documentario scritto dal direttore Giorgio Bongiovanni e dal capo redattore Aaron Pettinari, pubblicato oggi nelle pagine del giornale in cui si ricostruiscono alcuni punti chiave nella ricerca della verità sui mandanti esterni.
Sono solo alcuni degli argomenti affrontati nel corso della conferenza di ieri al convegno “Uccisi, traditi, dimenticati”, organizzato dalla nostra testata, che si è tenuto al Cinema Golden di Palermo.
Un "evento" che ha visto anche la partecipazione artistica del Movimento artistico culturale degli Our Voice, che nel pomeriggio hanno organizzato con Contrariamente un corteo giovanile in cui si denunciavano proprio le passerelle e le ipocrisie della politica, che hanno omaggiato Letizia Battaglia e letto, con la fondatrice del Movimento Sonia Bongiovanni, lo scritto di Saverio Lodato.
Un messaggio, quello dei giovani, che di fatto ha trovato manforte nelle parole di magistrati come il consigliere togato al Csm Nino Di Matteo, l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, Maria Fida Moro, figlia dell’On. Aldo Moro, i video-interventi del procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli e del consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita. C'è tanta amarezza per i fiumi di retorica che si sono consumati nel corso dell'intera giornata.
Il consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo
Di Matteo: "Certe istituzioni oggi ricordano Falcone e domani ne distruggono il patrimonio"
“In questi trent’anni, lo dico con convinzione, lentamente la visione e il sogno di Giovanni Falcone è stato deluso, tradito, ingannato e quotidianamente disatteso, proprio da quelle istituzioni che in queste ore stanno partecipando al gran gioco delle finte e strumentali commemorazioni e che domani, tornati a Roma, riprenderanno a lavorare per distruggere il patrimonio ideale diventato, grazie al lavoro di Giovanni Falcone, legge dello Stato” ha detto nel suo intervento il magistrato Nino Di Matteo denunciando come oggi il legislatore stia, sostanzialmente, depotenziando la normativa antimafia voluta da Giovanni Falcone.
“Negli ultimi anni sono stati messi in discussione gli aspetti ritenuti essenziali da Falcone per combattere la mafia: il 41bis ma soprattutto il 4bis, con l’ergastolo ostativo dell’ord. penitenziario”, ha detto Di Matteo. “Cioè - ha spiegato - il sistema per il quale a fronte di determinati e gravissimi delitti quali le stragi compiute con metodo e modalità mafiosa, l’unico modo per l’ergastolano di accedere a benefici era quello di dimostrare di aver rotto il vincolo di appartenenza collaborando con la giustizia”. “Oggi - ha dichiarato il consigliere del Csm - si è messo in discussione anche questa regola, voluta e concepita da Falcone e inserita finalmente nell’ordinamento penitenziario solo 15 giorni dopo la sua morte. Attualmente si sta realizzando quello che da sempre è un sogno di Cosa nostra e che è stato un obiettivo specifico della strategia stragista. Una sostanziale abrogazione dell’ergastolo che servirà anche, purtroppo, a scoraggiare e neutralizzare ulteriormente il fenomeno del pentitismo”.
Il caporedattore di ANTIMAFIADuemila, Aaron Pettinari
E poi ancora: “E’ un paradosso che oggi a distanza di 30 anni, potranno accedere a benefici quegli ergastolani che sono stati condannati per le stragi che tra l’altro erano finalizzate anche per fare pressione sullo stato per abrogare l’ergastolo. Potrebbero essere scarcerati gli stessi soggetti autori delle stragi che volevano portare a questo risultato che è stato ottenuto”. Uno di questi è Giuseppe Barranca, boss che procurò l’esplosivo per la strage di Capaci, al quale qualche giorno fa la Cassazione ha concesso permessi premio. “Una notizia che non ci sorprende”, ha commentato Di Matteo, “è sostanzialmente inevitabile dopo la sentenza della CEDU e della Consulta”.
Su questa linea, Di Matteo ha parlato infatti rispetto a come l’Italia si presenta a 30 anni dall’assassinio di Falcone. “Avevamo detto che Falcone era stato vittima del sistema della magistratura, di correntismo esasperato nel Csm, delle invidie e delle gelosie. Avevamo detto che fu vittima di un sistema nel Csm che privilegiava altre logiche, non quelle del merito, legate all’influenza correntizia”, ha ricordato Di Matteo di fronte a una sala gremita di persone (quasi un migliaio).
La difesa dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura
“Bene, le cronache degli ultimi anni dimostrano come ancora la magistratura non sia ancora riuscita a sconfiggere questo cancro che la divora e ne condiziona pesantemente l’autonomia e l’indipendenza. Questo accade mentre in tanti in questo periodo vogliono ipocritamente farvi credere che le riforma in cantiere, prima fra tutti la riforma Cartabia, possano sconfiggere quel male, non è così”, ha spiegato il magistrato, già sostituto procuratore di Palermo. “La riforma del sistema elettorale del Csm non eliminerà, anzi rafforzerà, il peso delle correnti all’interno del Csm. Questo perché la politica non ha alcun interesse a debellare un sistema dal quale si nutre e trae vantaggio”.
Sul punto, ha aggiunto Di Matteo, “è anche attraverso questo sistema di controllo dell’autogoverno della magistratura, che la politica è riuscita a isolare magistrati troppo liberi e indipendenti e a premiare magistrati affidabili perché prevedibili nelle loro condotte e controllabili”. Inoltre, ha aggiunto il consigliere togato del Csm, “ci sono anche delle riforme di tipo ordinamentale che tendono a creare e riusciranno a creare nel tempo una figura di magistrato esattamente all’antitesi di quella di Falcone. Disegneranno un magistrato burocrate, attento ai numeri e alle statistiche piuttosto che alla qualità del suo lavoro”, ha spiegato.
“Un magistrato che per ottenere sviluppo della sua carriera sarà attento ad accontentare i capi degli uffici e gli avvocati piuttosto che assicurare la giustizia. Un magistrato timoroso attento alle cosiddette carte a posto che per essere valutato in esito alla conclusione in Cassazione delle proprie indagini non rischierà indagini o processi difficili e se giudice non prenderà decisioni più innovative che sono quelle che hanno cambiato la giurisprudenza e che hanno portato all’applicazione della nostra Costituzione”, ha detto con forza Di Matteo. A 30 anni dalla strage di Capaci, che Di Matteo ha ricordato non fu certamente solo vendetta della mafia al maxi processo “e non fu solo Cosa nostra”, “ci troviamo ancora a fare i conti con un fenomeno complesso e pervasivo” come la mafia “perché tutti i governi sinora succedutisi, incluso l’attuale governo Draghi, non hanno voluto considerare la lotta alla mafia tra gli obiettivi principali da perseguire ad ogni costo per tutelare la libertà, la dignità dei cittadini, il rispetto dei principi costituzionali e l’assetto realmente democratico del Paese”, ha detto Di Matteo.
Lotta alla mafia, Stato assente
“In questi 30 anni lo Stato ha voluto contenere il fenomeno mafioso ma non lo ha voluto debellare e chi, in diversi ambiti istituzionali, ha dato semplicemente l’impressione di voler alterare questo sottile e tacito equilibrio è stato marginalizzato e tenuto lontano dagli incarichi”. Sul punto, Di Matteo ha ricordato che sia Falcone che Paolo Borsellino “erano ben attenti, nell’approccio alla questione dei rapporti tra mafia e politica, a distinguere eventuali responsabilità penali da quelle politiche ma rispetto a certi comportamenti accertati, auspicavano che si facesse valere la responsabilità in sede politica”. “Sapevano benissimo - ha spiegato - che certe condotte di collusione in un paese civile devono essere sanzionate prima e a prescindere dalle sentenze dei giudici. Si diceva che Paolo Borsellino era silenzioso e non parlava. Non era così: a questo proposito, nel 1989 Borsellino, parlando a degli studenti di Bassano del Grappa, disse testualmente: ‘La politica dovrebbe fare pulizia di coloro che sono raggiunti da prove di fatti inquietanti anche quando non costituiscono reato’”. E rispetto a questo discorso tenuto agli studenti da Borsellino, 30 anni dopo, la situazione, sostiene Di Matteo, non è migliorata, anzi, “è solo peggiorata!”.
La politica ed il consenso dei condannati per mafia
“Noi abbiamo assistito nel tempo ad una vera e propria beatificazione collettiva del senatore Giulio Andreotti nonostante una sentenza definitiva ricostruisca i rapporti significativi e molto pericolosi per gli assetti democratici di Andreotti con esponenti della mafia palermitana a cavallo, poco prima e poco dopo, dell’omicidio di Piersanti Mattarella”, ha ricordato Di Matteo. Non solo. “Noi abbiamo assistito in questi anni all’assuefazione e all’accettazione al dato che uno dei partiti che è stato più a lungo al governo ed è attualmente al governo, è stato fondato anche da un mafioso. Da un soggetto condannato per mafia”. “Questo Paese ha accettato anche la considerazione che quella sentenza definitiva fa e cioè che Berlusconi ha stipulato e osservato un patto di reciproca protezione con la mafia”. Riguardo a ciò Di Matteo lancia l’allarme alla popolazione civile rispetto “all’ulteriore pericolo di assuefarci anche alle circostanze che per orientare le scelte sulle candidature per le imminenti elezioni regionali e a Palermo si cerchi il consenso o l’intermediazione di un condannato per mafia”. “Non mi stupisce tanto che chi è stato condannato e ha scontato la pena possa dire la sua”, ha commentato Di Matteo. “Quello che è preoccupante è se qualcuno lo avesse cercato o lo cercasse per ottenere la candidatura o per ottenere più consensi”. In questo contesto "così triste”, secondo il consigliere del Csm, onorare i martiri “sarebbe possibile solo moltiplicando a tutti i livelli - investigativi, giudiziari ma anche politici - gli sforzi per identificare, dopo i macellai di Cosa nostra, coloro i quali dall’esterno di Cosa nostra parteciparono all’ideazione, alla progettazione e l’esecuzione materiale della strage”. “Un obiettivo non facile a distanza di trent’anni - ha osservato Di Matteo - ma teoricamente ancora possibile solo se tutte le istituzioni e a tutti i livelli ne avessero effettiva volontà”.
Sonia Bongiovanni, insieme a Pietro Calligaris, legge Saverio Lodato
La ricerca della verità
Di Matteo però dice di non volersi illudere: “Si contano sulle dita di una sola mano i magistrati e gli investigatori che continuano a indagare con coraggio per quella direzione scomoda per i magistrati e per le forze di polizia. E questi pochi si scontrano quotidianamente con l’indifferenza e l’ostracismo di un apparato istituzionale che vuole chiudere per sempre con quella pagina così oscura del nostro recente passato”, ha affermato. “Se non ci sarà una svolta politica che incoraggi e assecondi l’accertamento di verità finora ritenute indicibili, coltivare quella speranza è una inutile illusione". A detta del magistrato, “Giovanni Falcone, la sua storia e le sue idee sono state troppe volte tradite da chi rappresenta e gestisce il potere in questo Paese, ma sono convinto, nonostante tutto, che Falcone non è morto invano, non solo perché il suo lavoro è stato di fondamentale importanza, non solo perché mentre in Italia si vuole distruggere il metodo Falcone, la sua visione su politica e criminalità rappresentano un esempio da imitare in altre parti del mondo ed una speranza di resistenza alla globalizzazione della potenza mafiosa, io penso che Falcone, nonostante tutto non sia morto invano perché per le tante amarezze e isolamenti in vita, finanche la sua morte, hanno gettato un seme di libertà, coraggio e dignità che produrrà i suoi frutti nei cuori e nelle menti di tanti cittadini, di tanti giovani”. Cittadini nel cui nome, ha concluso il magistrato, “deve essere amministrata la giustizia e dal quale, prima o poi, partirà quel vento di cambio e rivoluzione che restituirà dignità e onore al nostro paese”.
Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo
Giuseppe Lombardo: "Contrasto alla mafia è un termine assente nell'agenda politica nazionale"
Come Di Matteo, anche Lombardo ha rimarcato l'importanza, oggi, di una lotta alla mafia che sia capace di ricostruire i fenomeni criminali. "Il problema serio - ha detto - sta nella nostra capacità di ricostruire vicende criminali" di ricostruire quello che è "il sistema mafioso evoluto" che "seppur operante da molto tempo è molto diverso oggi rispetto a quelli dei primi anni '90". Il procuratore aggiunto reggino ha spiegato che "si tratta di un sistema criminale che vive e si alimenta di dinamiche raffinate particolarmente innovative e tendenzialmente invisibili. Fortemente orientato" a fare "operazioni strategiche, in grado di provocare deviazioni profonde" in ambito "politico, in ambito economico e in ambito finanziario". "Quando parliamo di volume di affari delle mafie" i dati "su cui noi siamo chiamati a ragionare parlano di una movimentazione annua di circa 220 miliardi di euro. Qualche giorno fa in un convegno legato alla normativa antiriciclaggio mi hanno chiesto di intervenire spiegando che era necessario muoversi con grande attenzione per evitare che gli 11 miliardi di euro legati al pnrr venissero fagocitati alle dinamiche mafiose. Ma come?". "Stiamo parlando di 11 miliardi di euro quando noi abbiamo statistiche del 2009" che "parlano in relazione alla 'Ndrangheta di una movimentazione di 70 miliardi all'anno solo in Italia. E oggi la 'Ndrangheta è soprattutto un problema transnazionale".
Ma il vero problema, ha detto, e che noi "non sappiamo qual è il peso politico che deriva dalla disponibilità di certi capitali" perché interagire con i potentati economici "significa fare politica attiva".
E l'evoluzione integrata del 'Sistema criminale' "diventa particolarmente presente e obiettivamente condizionante proprio a cavallo della stagione stagista". "Un Paese - ha detto - che questo ancora non lo ha capito, o non lo vuole capire o verosimilmente ha qualche altro problema".
L'eterno presente che torna
"Perché ho parlato, nella requisitoria di 'Ndrangheta stragista, di eterno presente? Perché mi pare che non si possa ancora dire che il percorso ricostruttivo non sia stato completato e quindi che non si possa parlare delle stragi come di un fatto passato e se non è un fatto passato" vuol dire "che è presente". "Il nostro futuro - ha continuato - si fonda sulla verità, sul coraggio, senso del dovere. Costi quel che costi. Di tutti nessuno escluso". "Non c'è più spazio per ricostruzioni ambigue, per ricostruzioni di comodo, per spiegazioni accomodanti. Non c'è più spazio per commemorazioni in cui non si è in grado di spiegare veramente quello che è successo trent'anni fa".
Com'è possibile parlare di Giovani Falcone e poi assistere ad "un silenzio assordante?"
Manca infatti, come ha poi spiegato "la stagione dei gesti concreti e di investimenti di uomini e mezzi. Mantenendo costante, numeroso, visibile il presidio sul territorio. E questo non sta avvenendo".
Il contrasto alla mafia, ha detto, è un "termine assolutamente assente nell'agenda politica nazionale". "A noi non servono parole di vicinanza e le chiacchiere a costo zero sono merce scadente".
Non serve sbandierare in eterno delle riforme e poi far "credere che il problema della giustizia siano i magistrati".
La lotta alla mafia, secondo Lombardo, deve essere fatta, se vuole essere fatta, con "disponibilità illimitate" proprio per dare autorevolezza alla figura dello Stato ed evitare la delegittimazione delle istituzioni, "il più grande favore che si possa fare al sistema mafioso".
"Io dico che in questi trent'anni noi la nostra parte l'abbiamo fatta - ha detto - ma nessuno ci ha teso la mano in maniera convinta e duratura. Ci hanno tolto anche la facoltà di parola ma noi siamo qui a raccontare un fenomeno che ancora merita tantissima attenzione. I silenzi che caratterizzano l'agire mafioso non ci appartengono e quindi parliamo. Hanno provato in questi giorni a far credere che" Giovanni Falcone e Paolo Borsellino "fossero uomini silenziosi. Fossero uomini che non erano in grado di comunicare quello che facevano e che non erano in grado di raccontare, informare tutti coloro i quali avevano" realmente "interesse di comprendere che cosa fosse Cosa Nostra e che cosa significasse contrastarla fino in fondo. Niente di più falso". "Loro erano molto avanti - ha concluso Lombardo - proprio da questo punto di vista. E se vogliamo davvero essere degni del lavoro che hanno fatto ed essere degni di essere qui oggi a raccontarli qui insieme a voi, noi dobbiamo ripartire dal buono. Molti anni fa avevo già intravisto in un percorso moderno di contrasto antimafia che non può essere fatto di silenzi”.
'Ndrangheta e Cosa nostra unite
Nel corso della conferenza, un altro tema affrontato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria è anche quello del rapporto tra Cosa nostra e 'Ndrangheta.
"'Ndrangheta e Cosa Nostra non potevano che essere una cosa sola. Era già stata ricostruita nel 1992, anche con l'impegno di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, negli ultimi giorni di vita proprio la interazione stabile tra le principali mafie storiche di questa nazione. Basta andare a leggere, da questo punto di vista, quello che si ricava dalla trascrizione stenografica dell'audizione della commissione antimafia presieduta da Luciano Violante del 4 dicembre del 1992". Ma dopo trent'anni parlare ancora di Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra come "qualcosa di disgiunto è qualcosa di pericolosissimo. È un vantaggio che non dobbiamo assolutamente mai dargli".
Giovanni Falcone "ha lasciato in noi una traccia sulla quale abbiamo l'obbligo e non la facoltà di impegnare le migliori forze di questo Paese" ha detto il magistrato aggiungendo che fino ad ora si è raggiunta soltanto "una verità parziale" ma "credetemi le verità parziali sono verità negate".
"Rimane sullo sfondo una domanda che potrebbe anche avere dei risvolti inquietanti se non ci fosse l'impegno di pochissime persone, credetemi, non facciamo illusioni, perché non è il momento delle illusioni".
Infatti, come ha precisato, questo "non è un Paese normale. Vuol dire che nessuno di noi può agire in maniera ordinaria ecco perché l'impegno che è richiesto deve essere eccezionale".
C'è un quadro unitario da ricostruire perché "quello che ci ha insegnato Giovanni Falcone è che questo approccio non può essere assolutamente limitato all'investigazione" di "alcuni aspetti del crimine organizzato, ma deve essere un approccio assolutamente nuovo che deve partire anche dalla capacita di cambiare i nostri occhi nell'osservare determinati fenomeni".
"Posso certamente dire che è assolutamente vero che le mafie nella loro eccezione tradizionale non sono assolutamente sconfitte - ha sottolineato - Com'è altrettanto vero che in questi trent'anni, e proprio la strage di Capaci segna il punto di svolta rispetto a quell'evoluzione del sistema integrato di cui parliamo anche stasera per arrivare a prospettive nuove a programmi volutamente innovativi, a scelte strategiche che non sono più soltanto scelte criminalmente orientate rispetto a quelli che erano gli obbiettivi tradizionali".
L'ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato
Scarpinato: “Trentennale triste. Falconeide sedativa della retorica ufficiale"
Sulle commemorazioni molto dure anche le parole dell'ex procuratore generale Roberto Scarpinato: “È un trentennale triste questo, all’insegna della rimozione, della restaurazione e della normalizzazione. La rimozione viene realizzata negando verità scomode dietro un mare di retorica e praticata mediante la narrazione di una falconeide sedativa e rassicurante che segue questo schema: da una parte c’è Falcone, eroe di Stato e personificazione del bene che con il Maxiprocesso lancia una sfida senza precedenti alla mafia; dall’altra parte ci sono i soliti brutti, sporchi e cattivi Salvatore Riina, assetati di sangue e di denaro, personificazione del male di mafia”. Ha debuttato così l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, con una nota di rammarico e tristezza nel vedere la retorica ancora una volta fare da padrona.
Sentimenti acuiti ogni qual volta si dice che “la mafia cruenta di Riina è stata sconfitta, non c’è più, e per questo non rappresenta più un pericolo”. Quindi “si può procedere a smantellare pezzo dopo pezzo la legislazione antimafia che si giustificava solo per un’emergenza ormai venuta meno. Leggi che grondano del sangue delle vittime della strage di Capaci e di via d’Amelio”.
Proseguendo l’analisi sul pericolo di riformare la legislazione antimafia in maniera non curante dell’attualità dell’emergenza mafia, Scarpinato ha poi affrontato il tema della collaborazione con la giustizia e dell’ergastolo ostativo: strumenti cardine di contrasto alle organizzazioni mafiose. “Lo Stato ha deciso che potranno accedere ai permessi premio anche gli irriducibili che si sono rifiutati di collaborare con la giustizia, ivi compresi i boss stragisti del ’92 e ’93 - ha detto -. Questa è una legge contro i collaboratori di giustizia, tenuto conto che sia coloro che collaborano che coloro che non collaborano sono messi sullo stesso piano. Perché in futuro un mafioso condannato dovrebbe collaborare? Perché mai dovrebbe esporsi al rischio di gravi rappresaglie, al rischio della certezza di essere condannato per ulteriori reati che confessa, alla perdita di tutti i beni che è riuscito a sottrarre alla confisca quando, nel frattempo, si consente di uscire dal carcere a costo zero senza collaborare. Siamo all’inizio di un disarmo unilaterale dello Stato. una riforma di legge che lancia un messaggio inquietante di normalizzazione della cultura dell’omertà”. Questo dimostra che vi è un processo di “riconoscimento e normalizzazione del diritto all’omertà, che viene messo sullo stesso piano della cultura della legalità”. E, come se non bastasse, “già si affilano le armi per il prossimo passo: eliminare il 41bis”, ha proseguito Scarpinato.
“Ricordo che nella prima versione della riforma della legge Cartabia sulla prescrizione, approvata all’unanimità dal Consiglio dei ministri, era prevista l’estinzione automatica di tutti i processi di mafia che non erano definiti in grado di appello entro due anni e in Cassazione entro un anno: allo stesso modo dei reati normali e bagatellari - ha continuato -. C’è voluta la mobilitazione personale di alcuni magistrati antimafia, tra cui Gratteri ed io, e un pezzo di società civile per ottenere una marcia indietro. Magistrati antimafia graziosamente apostrofati in ‘pubblici ministeri come esponenti di un antimafia arroccata nel culto dei propri martiri e affetta da un ottuso giustizialismo’. Peccato che la falconeide sedativa della retorica ufficiale e il racconto di una mafia sconfitta fossero alla base di questo smantellamento progressivo della legislazione antimafia e siano storie false da qualunque punto di vista: criminologico, storico e giudiziario. È falso, infatti, dire che la mafia sia stata vinta. Come dimostrano una decina di indagini, la mafia c’è ed è profondamente radicata in tutto il Paese, dal sud al nord”.
Il cambiamento della mafia
Certo, la mafia è cambiata e non spara più (o quasi), “ma perché se non ci sono ostacoli da abbattere?”, ha domandato Roberto Scarpinato alla sala gremita di gente. “Spesso sono i politici e i pubblici amministratori che ti vengono a cercare. Prima c’era un Mattarella, c’era un La Torre che si mettevano in mezzo e che eri costretto ad abbattere. Ora riuscite voi ad immaginare personaggi simili? Siamo passati da un presidente della regione che si chiamava Piersanti Mattarella che si è fatto uccidere per mettersi contro la mafia ad uno, oggi, che ritiene normale discutere pubblicamente di snodi cruciali della politica regionale con un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa come Marcello Dell’Utri”.
Successivamente, Scarpinato ha ricordato il suo ultimo incontro con Giovanni Falcone. “Eravamo a Roma e mi disse che era quasi sicuro che sarebbe stato nominato procuratore nazionale antimafia. Mi disse che finalmente avremmo potuto fare le indagini che ci avevano impedito di fare sino a quel momento: le indagini su Gladio e sui delitti politici - ha continuato -. E mi pare significativo che dopo la strage di Capaci, quando la procura della Repubblica di Caltanissetta sequestra la stanza di Falcone al Ministero di Grazia e Giustizia, degli ignoti nonostante i sigilli si introducono in quella stanza, accendono il suo computer e, come risulta da una consulenza che abbiamo fatto, tra i tanti file guardano solo quelli su Gladio, Mattarella e sull’omicidio Agostino”. “Di fronte a tutto questo la falconeide ufficiale è un tradimento della memoria di Falcone perché consegna alle giovani generazioni un racconto mutilato e privato di parti essenziali per capire il passato, il presente e il futuro del nostro Paese - ha sottolineato Scarpinato -. La falconeide sedativa ufficiale è falsa anche sotto il profilo giudiziario delle indagini sulle stragi del 1992 e del 1993.
In questi anni, nonostante mille difficoltà e tanti depistaggi, si sono cumulate tante risultanze processuali che hanno dimostrato che il piano stragista del ’92 e’93 è stato elaborato da un complesso sistema criminale di cui facevano parte tutti i vertici delle più importanti lobby criminali italiane: la massoneria deviata, i servizi segreti e la destra eversiva. E in questo piano era stato affidato alla ‘Ndrangheta e a Cosa nostra il compito di braccio armato colpendo obiettivi che facevano convergere queste mafie con gli interessi generali dei registi di questo piano stragista di creare un nuovo ordine politico nel Paese. Gli strateghi della tensione hanno messo il software e Cosa nostra, la ‘Ndrangheta l’hardware, il braccio armato. Questo spiega perché le indagini sulle stragi del ‘92 e ‘93 sono state caratterizzate da un incredibile sequenza di depistaggi attuata da apparati statali. Gli apparati dello Stato intervengono chirurgicamente per evitare che vengano alla luce verità destabilizzanti in quanto chiamano in causa pezzi dello Stato”.
“Siamo in un momento difficile e spesso mi sento chiedere che cosa dobbiamo fare dinnanzi a tutto ciò - ha detto Roberto Scarpinato -. Per rendere onore a Falcone e Borsellino per cominciare non ci si deve unire al vasto e variegato coro di tutti coloro che per interesse, per opportunismo, per viltà, li celebrano con vuote parole di stucchevole retorica raccontando una falconeide falsa. È importante continuare a rendere testardamente testimonianza, raccontando le storie scomode che la retorica ufficiale non si vuole sentire raccontare”.
“E devo confessarvi che in qualche modo sono contento di essere andato in pensione perché nelle cerimonie ufficiali era diventato veramente difficile. Ho finalmente riacquistato la mia libertà di poter parlare più liberamente. E mi sento meno solo in questo teatro con voi che nelle pubbliche cerimonie”.
Sebastiano Ardita: “Nessuno mistifichi il messaggio di Falcone e Borsellino”
Tra incapacità ed evidenti complicità, a distanza di trent’anni, le indagini che provano a far luce sugli attentati di mafia che hanno colpito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sono ancora appesantite da numerosi dubbi e mille incertezze. Di fronte a una narrativa unica che immancabilmente celebra post mortem l'onorificenza delle vite dei martiri sacrificati in nome dell’ipocrisia e a tutela di certe parti deviate dello Stato, il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita, intervistato dal direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni, ha invece descritto l’importanza di dover documentare le vite e la storia di Falcone e Borsellino senza per questo doverle abbellire con elementi di comodo che provano a cancellare gli errori del passato ed i loro insegnamenti. “La storia di Falcone e Borsellino non si può raccontare edulcorando o cambiando certi suoi aspetti. E’ la storia di due uomini che hanno affrontato con coraggio la loro epoca, scoprendo realmente il fenomeno mafioso; un fenomeno di grossissime connessioni con il mondo politico, istituzionale e finanziario - ha detto il magistrato -. Viene fatta passare l’idea che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lavorassero nel silenzio del loro ufficio come tanti altri magistrati. Se fossero stati esattamente questo, non avrebbero tramandato un messaggio così importante e, soprattutto, non sarebbero morti. Facciamo in modo che verità e giustizia vengano ristabilite e che si abbia il coraggio di dire che Falcone e Borsellino furono contrastati e traditi".
E poi ancora ha aggiunto: “Se fosse stata solo mafia intesa come fenomeno militare, noi oggi avremmo una soluzione molto più semplice da poter offrire. Tuttavia, questo vorrebbe dire anche non aver capito nulla di come sia strutturata la realtà dei fenomeni criminali organizzati. Avendo scoperto i collegamenti vivi tra mafia e potere, ben altre menti, figure e personaggi di rilievo, inevitabilmente, hanno contribuito non solo all’isolamento ma anche alle condizioni che hanno portato alla loro eliminazione".
La memoria di Marcelo Pecci
Successivamente ha anche parlato dell’evoluzione della mafia, sempre più globalizzata ed ha ricordato il magistrato paraguaiano Marcelo Pecci, ucciso in Colombia durante il viaggio di nozze: “E’ in atto un gravissimo fenomeno di globalizzazione della mafia che, in tutto il mondo, colpisce la comunità che ha il compito di contrastare questo tipo di fenomeni. Una realtà che si intreccia con la creazione dei narcostati, ovvero, quella dimensione criminale che arriva a permeare fino alle radici delle organizzazioni pubbliche. L’altro giorno è stato ucciso in Colombia Marcelo Pecci, un magistrato paraguaiano fortemente impegnato nella scoperta dei narcotraffici e della collusione tra mafia e stati dell’America Latina; una realtà che incrementando pezzi di PIL, diventa inevitabilmente uno strumento di governo per questi stessi paesi. Un pericolo, quello della narcomafia, attuale e da non sottovalutare, infatti, colpendo Marcelo Pecci e come se avessero colpito uno di noi; perché a contrastare questi fenomeni non vi è più una comunità nazionale bensì internazionale e questo coraggioso collega ne faceva parte. Pertanto, questo fenomeno non va sottovalutato, nemmeno in relazione ai recenti progetti di attentato che sono stati scoperti ai danni del collega Gratteri che si occupa di questo tipo di questioni che riguardano la criminalità mafiosa internazionale".
Tescaroli: “Dall’Addaura a Capaci, convergenza di interessi tra mafia e soggetti esterni”
“La strada di Giovanni Falcone è stata costellata da grosse difficoltà sia all’interno che all’esterno dei palazzi. La sua dedizione non è stata premiata quando era ancora in vita e, oggi, è diventato il simbolo di uno Stato che all’epoca non si è dimostrato saldo nel contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa” ha detto via video il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, nell’intervista resa al direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni. “Un titolo che è un affresco di quello che è avvenuto”, afferma Tescaroli. “A Falcone fu impedito di divenire Procuratore Nazionale Antimafia con uno ‘strumento più drastico’ ad opera di Cosa Nostra e ai danni del giudice e della sua scorta”, ha aggiunto il magistrato.
Tescaroli ha poi fatto riferimento, sempre parlando di Giovanni Falcone, alle “menti raffinatissime” di cui il giudice parlò anni prima di morire, a seguito dell’attentato all’Addaura. Una di queste menti fu Bruno Contrada, come ha riferito il giornalista Saverio Lodato. Alla domanda se Tescaroli avesse, insieme ai suoi colleghi, individuato tracce di servizi segreti dietro le stragi.
“Nelle indagini sono emersi elementi che hanno indotto a ipotizzare che potesse esserci stata una convergenza di interessi da parte di soggetti esterni all’organizzazione e che hanno agito unitamente a Cosa Nostra nell’attuazione della strage di Capaci”, ha affermato.
Giorgio Bongiovanni, direttore di ANTIMAFIADuemila
Tescaroli ha ricordato che vi furono “delle indicazioni fornite da collaboratori di giustizia come Francesco Di Carlo - ha spiegato Tescaroli - il quale riferì di determinati incontri avvenuti all’interno del carcere di Full Sutton in Inghilterra ai quali partecipò lo stesso Di Carlo e alcuni esponenti dei servizi segreti, i quali erano interessati ad uccidere Giovanni Falcone e in questo scambio dialettico egli fornì il nome di Antonino Gioè, esponente del mandamento di San Giuseppe Jato, uno dei principali protagonisti alle attività preparatorie ed esecutive nello svolgimento dell’attentato di Capaci che morì in circostanze non del tutto chiarite il 29 luglio 1993 nel carcere di Rebibbia all’indomani degli attentati commessi a Roma e Milano”.
Tescaroli ha poi risposto a una domanda sul ruolo dei giovani che considera “i semi sui quali possono crescere le piante della legalità”. Per questa ragione, ha aggiunto Tescaroli, “iniziative come questa sono importanti per ricordare a tutti ciò che è avvenuto e per far sì che ci sia un desiderio di abbracciare e ricostruire la verità anche oltre quello che si è riusciti sino ad oggi a ricostruire”. “Finora - ha concluso - abbiamo ottenuto risultati importanti ma ancora bisogna indagare per vedere se ci sono anche altre responsabilità” oltre a quelle già accertate. “Perché fino a quando non ci sarà una verità completa non potremmo dire che ci sarà giustizia”.
Maria Fida Moro: "Mio padre ucciso perché era l’unico capace di tenere Europa e Medio Oriente in equilibrio"
A concludere la serata è stata Maria Fida Moro, la figlia dell'onorevole Moro, ucciso 55 giorni dopo il sequestro delle Brigate Rosse, il 9 maggio 1978. Un intervento non solo di carattere sociale e politico, ma anche filosofico nella misura in cui sono stati evidenziati anche i ricordi del nonno, scritti dal nipote (figlio di Maria Fida) Luca Moro e pubblicati nel libro "Mio nonno Aldo Moro", pubblicato nel 2016. "'La verità, che come diceva il nonno è la nostra ragione di vivere, è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno quasi la vede. Mi fa venire in mente la storia zen in cui il maestro indica la luna e l'allievo si sofferma a guardare il dito. E qui è lo stesso (...) - ha proseguito Maria Fida nella lettura del testo - si cercano i nomi dei mandanti, ed è giusto, doveroso e legittimo, ma si tende a scordarsi della verità e la grandezza spirituale di un insegnamento che va ben oltre la politica o il sociale e trascende la cattiveria degli uomini perché, ci ricorda il nonno, l'uomo è dignità e moralità e reca in sé la molla stupenda della libertà, l'adesione alla verità, il senso della giustizia vera per tutti'. Cosa intende dire? Che per quanto possa essere importante perseguire gli autori dell'omicidio vero e proprio, stiamo parlando del caso Moro ma sarebbe uguale per Falcone e Borsellino 'è importante non dimenticare il delitto di abbandono. Ed è necessario impedire alla coscienza collettiva di far cadere nell'oblio l'intera vicenda. O peggio ancora di mistificare a tal punto i fatti da rendere impossibile uscire dal labirinto. E' importante conoscere a fondo le vere ragioni che hanno condotto a quel delitto, forse di Stato, talmente orrido da lasciare nel guado, forse per sempre, un'intera nazione".
Ma quali sono le ragioni della morte? Maria Fida Moro lo ha spiegato così: "Il caso Moro inizia a Yalta, ma in realtà tutte le cose terribili sono successe da Yalta in avanti.
Maria Fida Moro, figlia dell’On. Aldo Moro
Lo sapete perché Aldo Moro è stato ucciso? Mio padre è stato ucciso perché era l’unica persona capace di tenere l’Europa e il Medio Oriente in equilibrio. Non saremmo arrivati dove siamo adesso se lui fosse vivo. Lo scenario internazionale era diverso.
Questa storia dà un dolore sconfinato a chi l’abbia vissuta, perché la tragedia è che noi non la possiamo mai metabolizzare, perché è sempre una storia del presente, non una storia del passato. Oppure le tragedie, Falcone, Borsellino, le stragi, la morte di Enrico Mattei, Piazza Fontana, Brescia, l’Italicus, tutte cose che vengono da Yalta, tutte cose collegate, compresa la morte di Kennedy. Tutto un gruppo di gente che si operava per la verità è stata uccisa".
Il mancato riconoscimento come vittima di terrorismo
"Voi giustamente vi lamentate - ha proseguito la Moro - ma dovremmo tutti lamentarci perché se non vogliamo la mafia bisogna che lo Stato funzioni. Dove non si vuole la malavita lo Stato deve fare bene la sua parte, o almeno al meglio. Se ognuno fa bene il proprio dovere e vale per ognuno di noi, su qualsiasi cosa in qualsiasi campo, il mondo andrebbe bene". Quindi ha ricordato: "Dopo la morte di papà, mia madre è stata accusata di falsa testimonianza e condannata solo perché non voleva dire ciò che questo ipotetico magistrato riteneva che lei dovesse dire". E poi ancora: "Si ricordano gli innumerevoli morti di mafia, camorra, terrorismo il 9 maggio. Il 9 maggio è la data in cui è stato ucciso Aldo Moro, è stato scelto questo giorno perché era il più emblematico, ma Aldo Moro non è vittima del terrorismo per lo Stato italiano, non gli è stata data questa qualifica. È possibile che si ricordino tutte le vittime e lui non sia considerata una vittima?".
Foto © Bassani/Bonfili/Deb Photo
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