Il magistrato intervenuto ieri a Tg2 Post: "Lotta alla mafia battaglia per la libertà e la democrazia"
Perché Riina aveva deciso di uccidere Giovanni Falcone a Palermo, quando poteva essere ucciso "in maniera molto più facile a Roma, dove camminava spesso anche senza scorta, e dove si erano recati alcuni uomini di Cosa Nostra tra cui Matteo Messina Denaro per poterlo assassinare?". Perché Riina ordina a quel commando di tornare indietro? "E perché viene scelta una modalità operativa molto più difficile?"
Sono stati questi gli interrogativi sollevati ieri del consigliere togato del Csm Nino Di Matteo allo speciale del Tg2 ‘Capaci. 30 anni dopo” condotto da Manuela Moreno. Oltre al magistrato, hanno partecipato anche il direttore de 'L'Espresso' Lirio Abbate e l'inviato speciale del Tg2 Francesco Vitale.
La strage di Capaci, ha ricordato il magistrato, è la prima "e l'unica strage che viene attuata mediante un attentato ad un convoglio di macchine blindate in movimento". "Un'operazione difficilissima da realizzare. E anche questo ci fa pensare che gli uomini di Cosa Nostra siano stati in qualche modo coadiuvati anche in quella fase da esperti del settore".
Qualcuno che abbia "esperienza militare", "persone che in qualche modo li hanno aiutati a fare queste stragi", ha detto poi Lirio Abbate, "qualcuno che sappia piazzare bene e nei posti giusti l'esplosivo. Giovanni Brusca si era auto accusato di aver schiacciato il pulsante però ci sono tanti punti interrogativi". "Quindi - ha detto poi Francesco Vitale - è difficile da archiviare solo come azione di Cosa Nostra l'attentato di Capaci, l'attentato di via D'Amelio".
Gli interrogativi sono molti e le risposte attuali non sono sufficienti. Infatti Di Matteo ha parlato di "verità parziali" sulla strage del 23 maggio. Una strage che "non può essere ricondotta e ridotta alla vendetta dei mafiosi contro il giudice che aveva istruito il maxi processo. Le finalità sono anche altre e ben più consistenti: una preventiva, perché Falcone aveva di fatto, con il ministro Martelli, assunto un ruolo politico importante e centrale alla lotta alla mafia. Aveva portato in politica la lotta alla mafia. E poi una finalità terroristica - mafiosa. Faremo un grave sbaglio - ha detto - a considerare la strage di Capaci come un delitto a sé stante". Infatti, ha ricordato Di Matteo, si tratta della "prima di sette stragi e il primo anello di una catena di delitti che hanno una matrice terroristica", il cui scopo di fondo è stato quello di "rinegoziare da parte di Cosa Nostra i rapporti con lo Stato, i rapporti con le istituzioni, i rapporti con la politica. Questa è la finalità di fondo che caratterizza queste sette stragi" su cui non si è ancora fatta piena luce.
Certamente alcune figure centrali del periodo stragista rimangono, ha specificato Abbate, "il superlatitante Matteo Messina Denaro, assieme ai fratelli Graviano, Filippo e Giuseppe. Quest’ultimo, secondo Abbate, è legato in particolar modo a Denaro, tanto che, secondo il giornalista, il filo che lega Giuseppe e Messina Denaro è tutt’ora esistente.
"Riforma figlia di rivalsa nei confronti di certi magistrati"
"La politica attraverso le azioni degli ultimi governi non sempre ha dato la sensazione di voler vincere la guerra contro la mafia, ma casomai di voler contenere il fenomeno mafioso. Di volerlo affrontare sotto il punto di vista della repressione della ordinaria criminalità mafiosa. Ma non sotto il profilo di voler recidere per sempre ogni legame della mafia con il potere".
Il magistrato ha espresso le sue considerazioni anche sulla riforma del Csm appena approvata alla camera. "Per me è una pessima riforma" ha detto nettamente Di Matteo. "Una riforma che è figlia in gran parte di una sorta di rivalsa e di regolamento di conti nei confronti di una certa magistratura. Non di una magistratura politicizzata, quella delle correnti, quella degli scandali", e in senso più stretto, "quella che forse conviene a tutti. Ma contro la magistratura veramente libera e indipendente. C'è una parte della riforma che mi sembra completamente inutile" ossia "quella del sistema elettorale del Csm perché non è in grado di incidere sulla patologia" di "quei capi corrente che designano i candidati al Csm" i quali poi "vengono controllati dalle correnti anche dentro il Csm". Altre parti della riforma invece sono pericolose: "Mi riferisco alla separazione di fatto delle carriere, al fascicolo del magistrato, al fatto che gli avvocati partecipino alle valutazioni di professionalità dei magistrati".
"Questa riforma disegna un modello di magistrato molto diverso da Falcone e Borsellino. Io temo che in futuro disegni un modello di magistrato burocrate, attento più ai numeri, alle statistiche, alle 'carte a posto'" anziché "a fare giustizia e a cercare la verità. Timoroso di fare inchieste difficili o di prendere decisioni innovative rispetto a quelle già prese da altri colleghi. È una riforma che non solo non mi soddisfa ma io penso che noi magistrati dobbiamo avere la forza e il coraggio, nonostante la crisi di credibilità che ci riguarda, di spiegare ai cittadini" quei "lati pericolosi. Ma non per noi magistrati, ma per i cittadini che hanno diritto ad avere una magistratura effettivamente autonoma e indipendente".
La lotta alla mafia a trent'anni dalle stragi
In conclusione, durante la trasmissione si è entrati nella sfera più personale del magistrato. Come vi veniva raccontata la mafia quando era giovane?
"Nessuno mi ha raccontato di mafia. Però si viveva", "l'abbiamo respirata". "Noi siamo cresciuti in un contesto nel quale stava diventando normale l'omicidio eccellente" ha ricordato Di Matteo. Come quelli di Piersanti Mattarella, Chinnici, Reina e Boris Giuliano. "E forse anche questo ha contribuito a formare in alcuni palermitani una forte coscienza antimafiosa. Un forte senso di ribellione ad un fenomeno che mortificava la nostra terra e la nostra dignità. Io credo che la rivolta antimafia è partita da Palermo". "Città martire”, ha detto Vitale. Secondo il magistrato, tuttavia, "quando i fatti di sangue si allontanano nel tempo, sembra che questa coscienza antimafia in alcuni momenti si sia sopita. E quindi il momento che stiamo vivendo è caratterizzato da alti e bassi. Certe volte temo che la mia città, la mia Sicilia, il nostro Paese stia facendo dei passi indietro nella consapevolezza dell'importanza della lotta alla mafia". Lotta vissuta da sempre da Di Matteo, e altri come lui, con "passione e sacrificio" consapevoli che "la lotta alla mafia è una lotta di libertà, di democrazia e di progresso".
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