Il consigliere togato intervistato da Formigli: "Potere politico vuole un regolamento di conti"
"In questo momento c’è una parte significativa e molto ampia del potere, del potere politico in particolare, che vuole approfittare di questo momento di debolezza della magistratura per avviare un regolamento di conti, non contro la magistratura intera, ma contro quella parte della magistratura che si è dimostrata in grado e volenterosa di voler controllare effettivamente anche l’esercizio del potere, di voler applicare il principio per cui la legge è uguale per tutti”. E' questa la forte denuncia del consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, ospite ieri sera a Piazzapulita, in onda su La7.
Nella lunga intervista concessa al conduttore, Corrado Formigli, il magistrato ha espresso le proprie considerazioni su vari argomenti: dai quesiti del Referendum accolti dalla Corte Costituzionale e che verranno valutati dai cittadini il prossimo aprile, alla riforma del Csm, che è ora in discussione in Parlamento, fino agli scroscianti applausi che hanno accompagnato il discorso di insediamento del Capo dello Stato Sergio Mattarella, quando si è toccato il tema della riforma della giustizia.
Un'azione, quest'ultima, che, secondo il magistrato, mette in evidenza proprio quella voglia di rivalsa.
“A me l’intensità, il grado di ostentazione di questi applausi ripetuti proprio quando il presidente ha fatto riferimento alla questione giustizia mi hanno impressionato, non sorpreso ma impressionato. Nel senso che al di là delle intenzioni del Presidente, che erano altre, questi riferimenti nel suo discorso di insediamento hanno in qualche modo scatenato quella che è una voglia diffusa nella classe politica italiana di rivalsa nei confronti della magistratura. Ed è una voglia di rivalsa che a mio avviso si sta concretamente manifestando”. “Quasi mi è sembrato di cogliere - ha specificato poi Di Matteo - in questa enfasi che ha caratterizzato la sottolineatura con applausi e standing ovation delle dichiarazioni del presidente Mattarella sulla giustizia, di cogliere un poco di quello spirito brutto e pericoloso che avevamo colto con l’inizio di Mani Pulite nei cittadini che lanciavano le monetine contro Craxi, simbolo della classe politica asseritamente corrotta. Oggi nel Paese si respira un’aria diversa, ed è giusto che sia diversa, ma che per certi versi tende all’opposto, cioè alla criminalizzazione della magistratura” e ad uno scopo che “caratterizza non tutta la politica ma una parte considerevole della politica: ridurre la magistratura e soprattutto le Procure della Repubblica che sono il cuore pulsante della giustizia italiana in un ordine collaterale e servente rispetto al potere politico”.
Formigli ha ricordato la lunga serie di scandali, dal caso Palamara, ai riferimenti fatti da Amara sulla Loggia Ungheria, che in qualche maniera hanno sfiduciato i cittadini che ora chiedono proprio alla magistratura una maggiore trasparenza.
E Di Matteo non si è nascosto dietro ad un dito. “Io sono assolutamente convinto e cerco di spiegarlo anche nel libro che ho scritto con Saverio Lodato - ‘I nemici della giustizia’ edito da Rizzoli - in maniera più concreta che noi non dobbiamo nascondere, non dobbiamo minimizzare”. Per questo motivo, nella parte di intervista in cui Formigli ha ricordato le accuse a lui rivolte nel libro di Palamara e Sallusti “Lobby & Logge”, in cui si dice che Di Matteo si sarebbe messo a capo di una pattuglia schierata per cacciare Davigo dal Csm, ha affermato: “Ho guardato e continuo a guardare con favore all’opera di divulgazione dei mali che hanno come metastasi invaso il corpo della magistratura. E quindi ho guardato anche, e continuo a guardare, senza nessun fastidio alle denunce fatte da Palamara e Sallusti con i loro libri. Sono utili. Però sono utili nel momento in cui riguardano l’affermazione di fatti veri e non clamorosamente non corrispondenti al vero”. Del resto che nel libro vi siano gravi omissioni e falsità nella ricostruzione della vicenda del voto sulla decadenza di Davigo e la questione dei verbali ricevuti sulla Loggia Ungheria, era un dato già emerso le scorse settimane.
La separazione delle carriere: un piano già voluto da Gelli
Ovviamente tema principale del programma di ieri era il referendum sulla giustizia - promosso da Lega e Radicali. Quando viene indetto un Referendum, secondo Di Matteo, è sempre “una bella pagina di democrazia”.
Tuttavia il magistrato ha voluto soffermarsi sul tema della separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero, un vero e proprio “leitmotiv” come da lui stesso definito che “ricorre da cinquant’anni nella politica italiana. La separazione delle carriere - ha precisato - era uno dei punti principali del piano di rinascita democratica di Licio Gelli - la P2 - poi è stato uno dei punti principali della battaglia sulla giustizia di Forza Italia quando nacque nel '93-'94. Oggi i fautori della separazione delle carriere sono tanti e trasversalmente presenti in vari schieramenti politici. Forse non si rendono conto che separare le carriere dei pm e dei giudici comporterebbe inevitabilmente come accade in tutti gli altri Paesi dove le carriere sono separate una trasformazione del ruolo del pubblico ministero. Per ora il pubblico ministero è comunque permeato dalla mentalità della giurisdizione e della terzietà. Inevitabilmente in caso di separazione delle carriere il pubblico ministero verrebbe tratto nell’orbita dell’esecutivo e diventerebbe un ‘accusatore a tutti i costi’. Diventerebbe la longa manus delle forze di polizia nel processo”.
E quando Formigli ha replicato che in altri Paesi in cui vige una democrazia è presente la separazione delle carriere, il consigliere togato ha ribattuto a sua volta con quesiti semplici: “In questi Paesi il pubblico ministero che dipende dall’esecutivo quante volte è riuscito a fare inchieste sul potere? Su una gestione illecita del potere, sul potere politico, sulla grande corruzione? Sui grandi fatti che hanno riguardato l’eventuale commistione tra interessi criminali e interessi politici?”.
La risposta è nei dati di fatto: mai, o quasi.
Ma Di Matteo ha anche evidenziato che il problema della separazione delle carriere è anche “sopravvalutato” nella misura in cui “si vuole far credere che ci sia un passaggio continuo e costante da un ruolo all’altro” ma i numeri raccontano altro. “Dopo i limiti e le condizioni che sono entrate in vigore con la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 la percentuale di pubblici ministeri che ogni anno ambiscono a fare i giudici è dell’1,7” e “i giudici che diventano pubblici ministeri sono addirittura lo zero virgola percento” ha ricordato.
E non bisogna dimenticare anche che “il comitato dei ministri della giustizia del consiglio d’Europa nel 2000 raccomandava gli stati membri di andare verso il nostro sistema, quello italiano, cioè di prevedere nell’ordinamento dei vari stati membri la possibilità che lo stesso magistrato nella stessa carriera ricoprisse l’incarico di pubblico ministero e di giudice. Perché veniva ritenuto, secondo me molto correttamente e molto opportunamente, che ciò comportava un arricchimento professionale che poi a sua volta comporta un miglioramento della giurisdizione”. “Questo accanimento nel volere la separazione delle carriere - ha concluso sul punto Di Matteo -, nasconde una volontà di creare un corpo di pubblici ministeri separato dai giudici. Un corpo quindi di potentissimi funzionari dello Stato” che “non è caratterizzato dalla cultura della terzietà che deve caratterizzare il pm”.
Oltre il referendum, la riforma Cartabia
Ma non c'è solo il referendum a manifestare la voglia di rivalsa della politica sulla magistratura. Essa si concretizza, secondo Di Matteo, “anche in alcune riforme che già sono state approvate come la riforma di alcuni aspetti del processo penale - prima riforma Cartabia - o che adesso sono state approvate in sede di consiglio dei ministri”. “Tutti si riempiono la bocca di questa tematica della riforma della giustizia come se si stessero affrontando riforme epocali - ha ribadito il consigliere togato del Csm, rispondendo a Formigli-. In realtà non si affronta il nodo principale, il problema principale che è quello della lentezza dei processi, della lunghezza dei processi, della eseguità del ruolo organico della magistratura rispetto alle esigenze di giustizia”.
E certo non aiuta il principio di improcedibilità, introdotto con la riforma Cartabia, “un istituto completamente estraneo alla nostra cultura giuridica”. Per questo motivo, secondo Di Matteo, si parla di una “riforma non solo inutile, ma sul punto dannosa. Così come ritengo che quella riforma e nel silenzio più assoluto anche dei media, mi dispiace sottolinearlo, abbia introdotto un grave vulnus, una grave violazione del principio della separazione dei poteri nel momento in cui prevede che annualmente il Parlamento, quindi le maggioranze parlamentari, debbano individuare i criteri di priorità dell’esercizio dell’azione penale da parte delle procure”.
Di Matteo è poi intervenuto sulle critiche gratuite di Matteo Renzi contro i magistrati di Firenze che si sono occupati dell’indagine Open.
Rispondendo alle domande di Formigli il consigliere togato ha detto di essere convinto che “qualsiasi cittadino e ovviamente anche l’esponente politico di livello come lo è il senatore Renzi abbia tutto il diritto di difendersi nella maniera più completa possibile, ma nel processo. Non attaccando aspetti personali della vita dei suoi giudici”.
Il tema delle “porte girevoli” tra magistratura e politica
Durante la trasmissione si è parlato anche del tema delle “porte girevoli” tra magistratura e politica. Di Matteo, anche in questo caso, ha ricordato i numeri dei magistrati che sono in Parlamento.
Pur condividendo il punto per cui “il magistrato che ha svolto un incarico politico di livello o componente del governo o parlamentare, cessato quell’incarico, quel mandato politico, non possa tornare a fare il magistrato”, non si è detto d'accordo su un altro tema ugualmente di rilievo: “Mi sembra anche in violazione del principio dell’articolo 51 della Costituzione per cui tutti i cittadini possono accedere a cariche elettive pubbliche a parità di condizioni e quindi anche ai magistrati che sono dei cittadini - altre previsioni che quelle sì mi sembrano un po’ inquadrate con la logica di ‘resa dei conti con la magistratura’”.
Successivamente Di Matteo ha anche ricordato il numero degli avvocati evidenziando come oggi “non c’è una legge che regoli o preveda un conflitto di interessi per cui può capitare ed è capitato che di mattina l’avvocato difende il suo cliente dalla contestazione di un reato e nel pomeriggio l’avvocato che dismette la toga e fa il legislatore chiede di riformare quel reato”.
Le minacce di morte al pm di Palermo
In conclusione Formigli è entrato anche nella sfera più personale del magistrato, quasi trent’anni sotto scorta e titolare di importanti inchieste e processi come quello sulla Trattativa Stato Mafia. Lo ha fatto con una domanda semplice, se ancora oggi vive con la paura di poter essere ucciso (sono note le condanne a morte di Totò Riina, oggi deceduto, e del superlatitante Matteo Messina Denaro). La risposta di Di Matteo è stata tanto semplice quanto netta: “Non posso dire di non aver provato la paura perché come chi conosce, come io ho avuto modo di conoscere attraverso i processi, quella che era la mentalità, la capacità di organizzare omicidi e stragi da parte di Totò Riina, quando si sente in una intercettazione ambientale che Riina auspica un’altra strage per eliminarmi sarebbe da sciocchi sottovalutare o affermare spavaldamente di non avere paura. Io la paura - ha detto - l'ho provata e la provo. E come me sicuramente tanti altri colleghi”.
Colleghi a cui Di Matteo ha voluto anche rendere onore, perché fanno il loro dovere “in silenzio - ha detto Di Matteo - senza che abbiano avuto la possibilità di raccontare (che ho avuto io) di riferire le proprie opinioni ogni giorno rischiano veramente la vita. Lo fanno perché credono veramente nella libertà e nella democrazia e non meritano la mortificazione che da una parte una certa magistratura e da una parte una certa politica quotidianamente gli riservano”.
Sono questi i magistrati che “la classe dirigente del nostro Paese vuole punire”. Magistrati che “non meritano di essere accomunati a quelli carrieristi, a quelli che si spartiscono le poltrone attraverso il criterio dell’appartenenza delle correnti o delle cordate, a quelli accusati di essere dei fannulloni” poiché rischiano quotidianamente la vita nel nome del dovere e della libertà. Una sorta di “zoccolo duro” di magistrati impegnati nel settore “del contrasto alle mafie, al terrorismo” e nel delicato settore della ricerca di quelle verità “che ancora mancano sulle stragi (non soltanto di mafia) che hanno segnato la storia della nostra Repubblica”.
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