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Su La7 uno speciale per fare luce sulle verità mancanti a distanza di 30 anni dall'"attentatuni"

“La guerra di Capaci”. È il titolo dello speciale di Atlantide, condotto da Andrea Purgatori, andato in onda mercoledì 18 maggio su La7 per commemorare il trentennale dalla strage di Capaci, con cui Cosa nostra - e non solo - il 23 maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.
A 30 anni da quell’attacco frontale allo Stato, Atlantide ha realizzato un’inchiesta meticolosa per continuare ad indagare sulla stagione delle stragi di mafia. “Un impegno necessario per arrivare a scoprire tutta la verità”, ha detto Purgatori, perché ancora resistono tanti misteri nonostante le numerose inchieste e processi. E lo ha fatto con le testimonianze preziose del Consigliere togato al Csm Nino Di Matteo, del giornalista Saverio Lodato, dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, del presidente del tribunale di Palermo Antonio Balsamo, del Procuratore Aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, del giornalista e direttore de L’Espresso Lirio Abbate ed altri.


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Il Procuratore Aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli


Uno speciale che ha voluto ricostruire le verità note e quelle ancora da scoprire della Strage di Capaci. Sono ancora ignoti, ad esempio, i volti dei soggetti esterni a Cosa nostra e quegli “ibridi connubi” che hanno giocato un ruolo fondamentale nella realizzazione della strage, così come sono ancora ignoti i segreti custoditi da Totò Riina nel suo covo mai perquisito. Ed è proprio da quest’ultima vicenda che Purgatori ha avviato il programma, ricostruendo il giallo della mancata perquisizione della casa del Capo dei Capi intervistando il giornalista Saverio Lodato. “Matteo Messina Denaro l’uomo depositario dei segreti di quella stagione - ha detto Lodato -. È pensabile, è possibile che in trent’anni lo Stato, dopo aver condannato l’intera Cupola mafiosa agli ergastoli, non sia riuscito ad acciuffare un signore dopo avergli fatto terra bruciata nella sua Castelvetrano, fino al punto di avergli arrestato amici, parenti, compagni di scuola, di infanzia e di battesimo? È pensabile? - ha continuato Lodato - No, non lo è. Ma Matteo Messina Denaro è il depositario di quei segreti. E fino a quando noi non conosceremo quei segreti noi non conosceremo la vera storia della repubblica italiana dal dopoguerra sino ad oggi”.




Capaci: una strage eterodiretta
Uno dei più importanti contributi contenuti nello speciale di Atlantide è stato sicuramente quello del Consigliere togato al Csm Nino Di Matteo, il quale ha offerto una chiave di lettura tutt’altro corroborata in maniera tecnica e scientifica dagli elementi emersi nel corso dei processi e delle indagini. Il tutto dimostrando e spiegando nel merito che la strage probabilmente è stata eterodiretta e che, oltre all’esistenza di mandanti e concorrenti esterni, si sospetta la presenza di soggetti esterni a Cosa nostra anche nella fase operativa-materiale.


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Il consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo


Dobbiamo immaginare che alla indubbia convergenza di interessi che portarono alla decisione di eliminare Giovanni Falcone, possa essere stata affiancata una compartecipazione con gli uomini di Cosa nostra di uomini che non erano mafiosi - ha detto Di Matteo -. Che cosa significa il dato oggettivo che non lontano dal cratere della strage a Capaci è stata trovata documentazione, foglietto di carta riferibili senza ombra di dubbio ad esponenti del segreto civile dell'epoca (il Sisde, ndr) con numeri di telefono del capocentro di Palermo di quel servizio e con altri riferimenti a quel servizio segreto?”. E ancora: “Non lontano dal luogo dell'esplosione è stato ritrovato anche un guanto dal quale è stata isolata una traccia di DNA femminile. Diventa difficile se non incredibile pensare che i mafiosi che hanno operato a capaci avessero portato con loro qualche donna”. “È attraverso lo scioglimento di questi dubbi, le risposte a questi ‘perché’ - ha continuato Nino Di Matteo - che noi potremmo riuscire a dare un nome e un cognome alle entità esterne che probabilmente parteciparono alle stragi”.


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Le Menti raffinatissime, “così Falcone mi fece il nome di Contrada"
Importanti analisi sulle “menti raffinatissime” sono state fatte da Saverio Lodato il quale, raccontando della famosa intervista al giudice palermitano sull’identità delle “menti raffinatissime” di cui gli parlò Falcone, ha ammesso che questi gli fece un nome. “ - ha detto Lodato - gli ho chiesto un nome riguardo le menti raffinatissime, ma devo anche ricordare che insistere con Giovanni Falcone poteva anche portare o non significare niente, non è che un'insistenza determinasse una arrendevolezza da parte del magistrato. In quell’occasione fui molto insistente, di fronte al suo stato d’animo, con la consapevolezza che per lui era iniziato il conto alla rovescia. Lo incalzai su quel nome, o su uno di quei nomi, o su più nomi”, ha precisato. Alla fine, Falcone “mi fece il nome di Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde, ndr)”. Quindi il giornalista ha riferito quelle che erano state le riflessioni del giudice in merito all’attentato all’Addaura avvenuto qualche anno prima.


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L'ex numero tre del Sisde, Bruno Contrada


Lui mi disse ‘guarda che se la mafia decide di uccidere qualcuno, fa un programma, con un oggetto, prende una decisione e non cambia il programma omicidiario in base a un cambiamento di abitudine della vittima’, cioè se la vittima un determinato giorno incrocia casualmente il killer che dopo due giorni dovrà ucciderlo, quest’ultimo non è autorizzato a farlo fuori. E poi aggiunge ‘io non facevo il bagno all’Addaura ogni giorno e non lo facevo allo stesso orario’, che ci fanno capire che il tutto era stato organizzato in tempi brevissimi. Quindi ciò che voleva dirmi era che vedeva pezzi dello Stato - ha spiegato -. Falcone già non credeva più da tempo alla favola che la mafia, in Sicilia, avesse decapitato un’intera classe dirigente, facendo tutta da sola, senza che lo Stato italiano fosse in grado di opporsi”.
Al tempo “quando dissi a Falcone ’ma allora io scrivo il nome di Contrada, perché in una situazione del genere avrebbe un effetto dirompente’, lui mi diffidò dallo scriverlo. E mi disse che se lo avessi scritto 'attribuendomelo e dicendo che io te l’ho detto, che è un personaggio del quale non ho grande stima e fiducia, tu con me non avrai nessun altro tipo di rapporto’”.


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“Menti raffinatissime” dietro la strage
Per compiere la strage di Capaci, “Cosa nostra mise in campo la struttura più capace ed efficace militarmente - ha sottolineato il procuratore Luca Tescaroli in collegamento -. Ma occorre sottolineare che a distanza di 57 giorni a Palermo, in via D’Amelio, avvenne una strage analoga (quella ai danni del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scorta, ndr). Il che può sembrare un qualcosa di poco razionale perché compiere due attentati di questo tipo in quella realtà imponeva la previsione di una reazione veemente da parte dello Stato, come fu”. Un agire così apparentemente scellerato, però, “è un elemento che induce a riflettere e a ipotizzare che vi possa essere stata una convergenza di interessi da parte di soggetti esterni a cosa nostra che possono avere avuto un comune interesse a compiere azioni di questa portata”, ha precisato il procuratore. Ecco, dunque, che si intravedono le “menti raffinatissime” dietro il progetto dinamitardo: non fu solo mafia. E, a dimostrazione di ciò, Tescaroli ha preso in esame il fallito attentato all’Addaura del 1989. Un attentato che “giuridicamente si è dimostrato essere una strage”, “uno dei fatti più inquietanti che caratterizzano l’attività di Cosa nostra”, ha continuato Luca Tescaroli rispondendo alle domande di Purgatori. “Uno spartiacque per il giudice Falcone”, ha commentato il giornalista e direttore de L’Espresso Lirio Abbate (presente in studio).


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Per capire il significato dell’espressione di Giovanni Falcone (“menti raffinatissime”, ndr) occorre pensare a quella strategia di destabilizzazione che ha accompagnato quell’attentato. Fu preceduto da una attività raffinata di intossicazione dell’informazione e dalla divulgazione di lettere anonime nel corpo delle quali venivano lanciate accuse nei confronti di Falcone, ed altri esponenti delle istituzioni, di utilizzare il collaboratore di giustizia Salvatore Contorno come killer di Stato per stanare i corleonesi. Correlativamente fu diffusa anche la falsa notizia della presenza di Buscetta a Palermo e di incontri che lo stesso aveva con il barone Antonio D’Onufrio”. Tutti elementi che se analizzati nella loro complessità e “alla luce del fatto che quell’attentato doveva essere realizzato il 20 giugno ’89 mentre erano presenti a Palermo i componenti della delegazione elvetica che collaboravano in maniera proficua con Giovanni Falcone nell’attività di contrasto al riciclaggio derivante dal traffico di stupefacenti sull’asse Stati Uniti-Svizzera - ha continuato il procuratore Tescaroli -, ci rendiamo conto che quell’attentato ha avuto un effetto proiettato a cercare di congelare l’apparato antimafia che era operativo in quel momento, rappresentato proprio da Falcone. E allo stesso tempo produceva l’effetto di delegittimare due collaboratori di giustizia, Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, che erano il perno su cui si reggeva gran parte del materiale probatorio che era alla base del ‘Maxi processo’”. Questi dati, ha affermato Tescaroli, “impongono una riflessione proprio nella prospettiva dell’individuazioni delle menti raffinatissime”.

Guarda la puntata integrale: Atlantide - La guerra di Capaci

Guarda lo Speciale: Arresto di Riina, il giallo della mancata perquisizione della casa del boss. Saverio Lodato: "Matteo Messina Denaro depositario dei segreti di quella stagione"

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