"A 30 anni dalle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avverto il pericolo che il ricordo sia ormai ridotto al solo fatto emozionale. Dovremmo rafforzare la volontà di cercare la verità, ma questa non sembra essere la priorità di tutti". Sono queste le amare considerazioni del Consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, intervenuto ieri sera a Vasanello (Vt), all'evento organizzato dal comune in collaborazione con Dark-side.
Tra pochi giorni, del resto, saranno i giorni delle commemorazioni di Capaci e il magistrato palermitano, che delle stragi si è occupato in prima persona, ha voluto condividere il suo pensiero su ciò che sta avvenendo oggi.
"Ho paura che nell'immaginario collettivo si sia giunti alla conclusione che Borsellino sia stato ucciso per vendetta alle attività condotte dopo l'uccisione di Falcone. In realtà, 30 anni di processi dimostrano che la verità delle sentenze è solo parziale. Perché quei processi sono disseminati di elementi indizianti che ci inducono a pensare che quelle stragi avessero dietro soggetti esterni".
E poi ancora: ormai "sono pochi coloro che continuano a credere che Borsellino sia morto per vendetta e, soprattutto, che quello sia un episodio nato e finito là, bensì è il primo di sette stragi avvenute perché Cosa Nostra si stava sentendo tradita da quei personaggi politici che l'avevano tutelata fino ad allora.
Ovviamente sono stati ricordati anche i punti oscuri ancora aperti su quei delitti: "Falcone doveva essere ucciso a Roma da cinque persone già presenti nella Capitale. Tra questi vi era Matteo Messina Denaro. Lo avrebbero dovuto uccidere con il classico sistema della sparatoria. Invece, Riina richiamò improvvisamente il commando a Palermo, dove fu inscenato un sistema straordinario, complicatissimo: far saltare in aria un dispositivo in movimento ad alta velocità, per dare un segno forte".
Un cambio di stile sottolineato dal magistrato che ricorda come "le stragi del '93 sono atipiche rispetto alle precedenti perché prima erano finalizzate ad annientare un bersaglio. Nel 1993, invece, non vogliono eliminare qualcuno, ma creare panico. La notte dell'attentato a Roma e Milano, Ciampi disse ai suoi della scorta, e poi me lo confermò, di temere che si trattasse di un colpo Di stato. Quelle stragi non possono essere ricondotte unicamente a Riina e Provenzano, che comunque non bisogna considerare 'pecorari' perché erano dotati di un'intelligenza criminale e una capacità notevole di perseguire gli scopi dell'organizzazione".
Il magistrato quindi ha ricordato che "il 23 gennaio del 1994 era tutto pronto per far esplodere un pullman di carabinieri arrivati in ordine pubblico allo stadio Olimpico, ma qualcosa andò storto perché il telecomando non funzionò. La cosa si sarebbe potuta ripetere la domenica successiva, perché tanto tra Roma e Lazio loro erano sempre presenti allo stadio, e nessuno era venuto a conoscenza di questo attentato. Ma improvvisamente, il commando ricevette l'ordine di rientrare a Palermo. Perché? Cosa è successo? E' uno dei grandi quesiti ancora aperti. Matteo Messina Denaro, inoltre, è uno dei latitanti più ricercati al mondo. Ovvio che è protetto anche ad alti livelli. Evidentemente l'essere a conoscenza di segreti reconditi delle stragi del 1993 lo rende" prezioso.
Di Matteo, nell'occasione ha anche presentato il suo libro, scritto con Saverio Lodato ed edito da Rizzoli, dal titolo "I nemici della giustizia", parlando anche della riforma, in discussione in Parlamento.
"Nel tempo si sono andati a concentrare i dirigenti negli uffici (Procuratori) - ha evidenziato - Ciò è molto pericoloso perché quando il potere vuole controllare la magistratura, nel momento in cui si concentra il potere su un'unica figura del procuratore Capo, i rischi aumentano. Se uno può controllare cinque o dieci magistrati più importanti, di conseguenza controlla tutta la magistratura". Un problema che, però, non nasce oggi. "Questa deriva - ha affermato - è iniziata nel 2006 con la riforma del potere giudiziario ed è molto pericolosa perché il sistema delle correnti e delle cordate fa sì che siano considerati più prevedibili e controllabili coloro che arrivano a ricoprire certi incarichi. Una riforma che guarda ai numeri, alle statistiche, e che spingerà i magistrati del futuro a totalizzare i numeri, portandoli ad archiviare, senza guardare davvero ai fatti, alle persone, alle circostanze, che sono dietro una denuncia. Questo è un fatto terribile della riforma. Se i magistrati che hanno condotto indagini sullo stragismo, sulle Mafie - ha concluso -, avessero dovuto guardare al numero, tanti esiti non si sarebbero avuti".
Foto © Paolo Bassani
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