L’ex procuratore generale di Palermo: “Falcone toccò i rapporti fra mafia, pezzi di Stato e agenzie straniere, così inizio la sua Via crucis”
Stragi, depistaggi, omicidi eccellenti, misteri, servizi segreti, mafia militare. Di questo e molto altro ha parlato a La Repubblica Roberto Scarpinato, storico magistrato antimafia, ex componente del pool di magistrati Palermo, collega di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e titolare di alcune delle indagini sui delitti più eclatanti avvenuti in terra siciliana come gli omicidi politici di Pio La Torre, Piersanti Mattarella, occupandosi inoltre, da pm, dell’inchiesta “Sistemi Criminali”, da lui aperta, che diede i natali, anni più tardi, alle inchieste “Trattativa Stato-mafia” e “'Ndrangheta Stragista”. In un’ampia intervista rilasciata ad Alessia Candito, Scarpinato ha riportato - rifacendosi alle sue preziose analisi scientifiche e tecniche e alla sua lunga esperienza in cui ha vestito la toga a Palermo - uno spaccato sulla storia della nostra Repubblica affrontando i temi più scomodi che l’hanno attraversata fino alle loro attuali proiezioni politiche e sociali.
“La storia della Repubblica nasce con una strage politico-mafiosa, Portella della Ginestra. Da allora è stata una successione ininterrotta: piazza Fontana nel 1969, Peteano nel ’72, Italicus e Brescia nel ’74, Bologna nel 1980, l’Italicus nel 1984, fino a quelle del '92-'93. E tutte hanno un unico denominatore: i depistaggi”, ha ricordato il magistrato (oggi in pensione). I depistaggi, ha spiegato Scarpinato, servono “per evitare che emerga una verità destabilizzante che chiama in causa pezzi di Stato. Non della politica, perché la politica è contingente, ma una struttura che dura fino ad oggi”. E in questo contesto, le stragi del ’92, che domani l’Italia ricorderà con l'"attentatuni" avvenuto 30 anni fa, ma anche quelle del ’93 a Roma, Firenze e Milano, secondo Scarpinato sono “quelle degli orfani della Guerra fredda”. “Alle mafie, a Cosa nostra e alla ’Ndrangheta, è stato affidato il ruolo di braccio armato”, ha aggiunto. “Dopo la caduta del muro di Berlino si rompe un sistema di equilibri - ha spiegato l’ex procuratore generale di Palermo - internazionali e nazionali. I vertici delle lobbies criminali del tempo - mafie, massoneria deviata, servizi - si trovano in una situazione difficile c’era il rischio che si aprissero gli armadi e uscissero tutti gli scheletri. E gli interessi economici erano fortissimi”. E ancora. “L’insieme di queste forze che sono state protagoniste della strategia della tensione, mette insieme le risorse di cui dispone - l’hardware mafioso e il software degli strateghi della tensione - per governare la transizione in modo da evitare l’epilogo politico naturale e per arrivare a una soluzione che sia indolore e traghetti il vecchio nel nuovo, cosa che gli è riuscita benissimo”.
“Dopo la caduta del muro di Berlino, ci sono delle filiere che si sono riprodotte sia all’interno dei servizi, sia all’interno dello Stato, sia all’interno della mafia. E questo spiega perché anche in tempi recenti si assista a depistaggi”. Oggi, a detta di Scarpinato, sono una “quindicina” le persone che potrebbero raccontare una verità completa su queste vicende: “I Ganci, Santapaola, i Graviano”. “I più - sostiene Scarpinato - probabilmente non parlano perché sanno di doversi confrontare con un potere così grande che nessuno li può proteggere”. Uno di loro, Giuseppe Graviano, boss stragista di Brancaccio, seppur mischiando il vero con il falso, ha parlato ai giudici a Reggio Calabria dopo decenni di omertà e messaggi in codice lanciati da dietro la cella. Al processo ‘Ndrangheta Stragista, Graviano, imputato insieme al boss di ‘Ndrangheta Rocco Santo Filippone, per l’attentato ai carabinieri Fava e Garofalo, ha depositato una memoria difensiva che però, a detta di Scarpinato, “sembra dettata dai servizi” in cui “sostanzialmente riproduce lo stesso contenuto del famoso Corvo contro Falcone. La cui storia per altro andrebbe riscritta”, ha osservato.
Quella del magistrato palermitano, infatti, è una storia “raccontata come storia mafiocentrica e sembra naturale che sia così, era il più grande magistrato antimafia. Però Falcone non è stato solo questo. Lui inizia a indagare sulla mafia militare, arriva al mondo della P2, dei grandi riciclatori e dei colletti bianchi, quindi finisce per toccare i rapporti fra mafia, pezzi di Stato e agenzie straniere. Lì inizia la sua seconda via crucis. Perché si scontra con un mondo molto più pericoloso, con molto più potere di quello che aveva affrontato prima. E non gli lascia scampo”. Anche Scarpinato, nella sua lunga carriera, si è imbattuto in questi mondi.
“Nella mia ultima indagine - ha detto a La Repubblica - ho scoperto cose che andavano al di là di quello che potessi immaginare, che mi hanno fatto molto riflettere perché sono verità che sono state nascoste per lungo tempo”. Il riferimento è all’inchiesta sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio che era in dolce attesa. Un'inchiesta, giunta a processo dopo oltre 30 anni (uno che si svolge in abbreviato contro il capo mafia Nino Madonia, e uno con rito ordinario contro il boss Gaetano Scotto e Francesco Paolo Rizzuto), che “ha riaperto un vaso di Pandora che porta poi sempre ai rapporti fra pezzi di Stato, alla mafia dei delitti eccellenti e alle stragi del ’92-93”. Il magistrato ha ricordato come Vincenzo Agostino, il padre dell’agente ucciso, gli aveva detto: “Le stragi del ’92-93 sono iniziate a casa mia”. “E ha ragione perché affondano le radici in quello che è successo prima, dall’omicidio Mattarella in poi. La storia di Agostino attraversa questo terreno che non è stato assolutamente arato dalle indagini”.
Questo perché “il processo è un’impresa collettiva che coinvolge un’intera società. Se i testi non parlano, se la polizia inizia a far sparire documenti, se il consulente fa una perizia falsa, salta tutto. Basta che un punto solo di questa struttura ceda e non si può arrivare a una verità processuale”.
E alla domanda se esiste una possibilità che questa impresa collettiva si realizzi, Scarpinato ha risposto:
“Credo che questo Paese non sia in grado né di fare certi processi né di affrontare la verità. Ormai c’è un’amnesia collettiva, una normalizzazione culturale sul tema delle stragi che impedisce anche un dibattito aperto. E penso che la partita sia perduta”. Del suo contributo per rendere verità e giustizia, Scarpinato dice di aver fatto quello che poteva, “in tutti i modi possibili”. “Quando non l’ho fatto, è stato solo perché mi hanno impedito di fare certe indagini”.
Legislazione antimafia a rischio
Nel corso della sua intervista Roberto Scarpinato ha fornito una lettura anche sull’attuale normativa antimafia e sul contesto politico e sociale a 30 anni dalle bombe di mafia, indubbiamente meno attento e consapevole rispetto al periodo immediatamente successivo alla strategia stragista di Cosa nostra. A rischio, ha affermato, ci sono le colonne della legislazione antimafia. “Dopo la strage di Capaci è stato emanato il decreto legge che ha introdotto il 41 bis e l’ergastolo ostativo. Il Parlamento non l’avrebbe convertito in legge se non ci fosse via d’Amelio”, ha ricordato. Si tratta delle norme che introducono il carcere duro per i boss di mafia e l’impossibilità di accedere ai benefici penitenziari senza collaborazione con la giustizia. Tema, questo di cui da mesi si sta dibattendo politicamente e mediaticamente dopo la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Consulta che aveva definito incostituzionale la norma dell'ordinamento, dando un anno di tempo al legislatore per mettere mano alla normativa sull’ergastolo ostativo e ora ha concesso ulteriori sei mesi. I pericoli che si corrono nel toccare la normativa sull’ergastolo ostativo sono diversi, a partire dal fatto, secondo Scarpinato, che “scoraggia i collaboratori di giustizia, o meglio quelli che potrebbero diventarlo”. “Perché collaborare se c’è un regime dello Stato che ti consente di uscire senza accusarti di nuovi delitti, esporti a rappresaglie o dichiarare tutto il patrimonio che hai sottratto alla confisca?”, si è chiesto l’ex Pg. “In più contiene un messaggio culturalmente drammatico: la normalizzazione dell’omertà”. Ovvero che “per usufruire dei benefici penitenziari occorre dimostrare che si è “rieducati”. Con la riforma, non è necessario collaborare per dimostrarlo. Significa legittimare la ripulsa morale ad accusare altri, cioè mafiosi che continuano a uccidere, estorcere e sdoganare la cultura dell’omertà. Qualche anno fa una proposta del genere sarebbe stata impensabile”. Da quel periodo, per Scarpinato, è cambiato “il sistema Paese”. “L’ultima evoluzione è l’oligarchizzazione del potere. La ricchezza e il potere si accumulano sempre più nei piani alti della piramide sociale, la stessa cosa sta avvenendo nelle mafie”, ha spiegato.
“I criminologi li definiscono sistemi crimino-affaristici o criminali, oppure cricche, P3, P4. Sono associazioni di cui fanno parte dei soggetti di mondi diversi - politica, finanza, colletti bianchi della mafia - che mettono insieme le risorse di cui dispongono - il potere di relazioni, economico, eventualmente anche militare - per mettere le mani su fette della società e dell’economia”. “Questa nuova soggettività criminale usa sempre meno la violenza. A cosa serve se non ci sono ostacoli da superare”, ha concluso.
Foto © Paolo Bassani
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