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Lo speciale di Sky TG24 'Attacco allo Stato' ha raccontato gli attentati e le verità mancate su Capaci e Via D'Amelio

"Posso dire, con cognizione di causa, essendomi occupato di molte inchieste, molti processi che hanno riguardato le stragi del '92 del '93 e tutto quello che accade in quel periodo, che dalle sentenze dagli atti processuali emerge con sempre maggiore nitidezza, che certamente quelle furono delle stragi di mafia, ma non solo di mafia. Emerge che Cosa Nostra siciliana eseguì quelle stragi. Ma emerge con molta probabilità che nella organizzazione e perfino nell'esecuzione materiale di quei attentati, gli uomini di Cosa Nostra siano stati aiutati, quantomeno da soggetti che non appartenevano all'organizzazione mafiosa". Così ha detto il consigliere togato al Csm Nino Di Matteo durante lo speciale di Sky TG24 'Attacco allo Stato', andato in onda ieri sera. Nel servizio sono state raccolte anche le testimonianze di Maria Falcone, sorella di Giovanni, Giuseppe Costanza, autista di Falcone, l'ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, Gianfranco Donadio procuratore capo di Lagonegro, Giovanni Montinaro, figlio di Antonio, agente della scorta di Giovanni Falcone, Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, e Antonio Vullo, agente della scorta di Borsellino.

La verità sulle bombe del biennio stragista può essere completata "da uno sforzo serio costante e compatto dell'intero apparato magistratuale e investigativo" ha continuato Di Matteo, "ma mi sembra che invece si ritenga che ormai questo tipo di indagine appartenga soltanto alla competenza di pochi, spesso isolati magistrati, che alcune volte vengono additati come coloro i quali vogliono combattere una guerra che già finita. Come se fossero gli ultimi giapponesi che continuano a combattere una guerra che non c'è più".


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E poi ancora: subito dopo le stragi c'era stata una reazione "molto forte anche nell'ambito e nel contesto della magistratura. C'è stato uno scatto d'orgoglio, di compattezza, di rigore morale nella conduzione delle indagini e anche nella celebrazione dei processi. C'è stata nell'opinione pubblica, soprattutto siciliana, una reazione di dignità, di orgoglio, di passione civile. Però devo dire con molta franchezza e anche con molta amarezza che, come spesso capita in Italia questa reazione col passare degli anni è andata affievolendosi".

Ma i fatti rimangono, granitici, ad indicare che molte verità devono essere ancora scoperte:

"Ricordo sempre - ha continuato il magistrato - la frase che è stata acclarata anche in molte sentenze definitive dove Riina" pronunciò "agli altri capi della mafia siciliana il suo programma. Lui disse: 'dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace', 'dobbiamo fare queste stragi per cercare nuovi referenti politici, dobbiamo gettare il Paese nel panico, devono avere il paura di noi, così qualcuno ci verrà a cercare e quello sarà il momento per allacciare nuovi, più solidi intrecci politici'".

'Mi assumo io la responsabilità di questa strage. Sarà un bene per tutta Cosa Nostra' aveva detto al tempo Salvatore Riina, ma alcuni capi mandamento come Salvatore Cancemi, in seguito avevano detto in aula "che Riina doveva rispondere a qualcuno e che altri, come Raffaele Ganci, commentarono che Riina avrebbe portato Cosa Nostra alla rovina".


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"La strage di via d'Amelio ritengo che sia stata dovuta ad altre cause" ha detto Salvatore Borsellino, "è stata sì una strage di mafia in quanto la mafia forse ha materialmente eseguito l'attentato" ma, come ha detto Roberto Scarpinato "mandanti e complici" sono "rimasti potenti e sono rimasti impuniti. Quindi lo Stato ha vinto? No lo stato non ha vinto. Diciamo che è riuscito a fare quello che ha fatto nella storia della Repubblica: cioè riuscire a condannare esecutori materiali e intermedi. Ma quando si è trattato di portare alla sbarra il vero potere lo Stato non ci è riuscito".

Ovviamente sono stati ricordati alcuni dei punti rimasti oscuri: secondo le sentenze chi aveva premuto materialmente il pulsante era stato Giovanni Brusca - l’allora capo del mandamento di San Giuseppe Jato - ma c'è un fatto che potrebbe aprire le porte ad ulteriori riflessioni: l’artificiere della strage di Capaci, colui che si era occupato della predisposizione dell’esplosivo sotto il canale di scolo dell’autostrada a Capaci è stato Pietro Rampulla noto esponente del neofascismo Italiano che, secondo le dichiarazioni di Nino Calderone, pentito catanese e fratello del capomafia Giuseppe Calderone, aveva imparato a maneggiare gli esplosivi da apparati di sicurezza dello Stato.

"Ci si è posti fin da subito il grande problema se in quella vicenda, vi fossero sul campo anche altre risorse umane, altri soggetti non necessariamente legati a Cosa Nostra", ha ricordato Gianfranco Donadio.


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E sempre riguardo alle stragi non sappiamo chi erano gli 'infiltrati della polizia' nella strage di Capaci ai quali fece riferimento Franca Castellese, moglie del collaboratore Mario Santo Di Matteo. Quest'ultimo, come ricordato da Scarpinato, aveva "annunciato che avrebbe rivelato cosa c'era dietro la strage di via D'Amelio. Gli rapiscono il figlio (Giuseppe Di Matteo n.d.r) e dopo che gli rapiscono il figlio abbiamo intercettato una conversazione tra lui e la moglie” che aveva detto a “Santo di Matteo: 'Hai capito perché hanno rapito Giuseppe? Ricordati che abbiamo un altro figlio. Non parlare mai degli infiltrati della polizia nella strage di via D'Amelio’” scongiurandolo di non farne menzione ai magistrati. Non sappiamo chi era il soggetto esterno visto da Gaspare Spatuzza al momento del caricamento dell’esplosivo. Non conosciamo l’identità del soggetto esterno che immediatamente dopo l’esplosione si era impossessato dell’agenda rossa di Borsellino andando a colpo sicuro e con un tempismo talmente eccezionale da fare ritenere che fosse stato preventivamente messo a conoscenza del luogo e dell’orario esatto dell’esecuzione della strage. L'elenco è molto lungo e si potrebbe continuare ancora per molto.


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In sintesi tutti questi elementi inducono a ritenere che il 'gioco grande' non si è mai interrotto ed è ancora in pieno svolgimento.

Gli ultimi giorni di Falcone e Borsellino
Capaci, 23 maggio 1992. Alle 17.57 la mafia ha fatto esplodere con il tritolo un tratto dell’autostrada A29 che dall’aeroporto Punta Raisi conduce al capoluogo siciliano, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie, il magistrato Francesca Morvillo, gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, e provocando ventitré feriti. Cinquantasette giorni dopo, il 19 luglio, in via D’Amelio a Palermo, è stata fatta saltare in area una Fiat 126 rubata. Un attentato in cui perdono la vita il magistrato Paolo Borsellino, gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, e dove rimangono coinvolte altre 24 persone.


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Il giorno della strage di Capaci "credo che fossi a Caltanissetta" ha detto Scarpinato "la mia città natale, e sono venuto di corsa, sono arrivato in ospedale, e quando sono arrivato Giovanni Falcone era morto da poco". Ma chi era Falcone? "È stato molto di più di un magistrato antimafia - ha continuato Scarpinato - È stato un magistrato che ha innovato completamente i metodi di indagine. È stato un magistrato che si è scontrato con un sistema di potere mafioso che lo ha condannato all'isolamento e all'impotenza. E poi è stato un magistrato che nell'Italia degli anni '90 ha capito che alcuni delitti eccellenti come l'omicidio Mattarella, come l'omicidio dalla Chiesa avevano delle motivazioni politiche che erano occultate sotto la causale mafiosa".

Falcone, ha detto Giuseppe Costanza "non faceva cortesie intanto. Già si distingueva da questo. Era molto riservato, non divulgava le sue iniziative, le sue indagini, mai saputo nulla se non attraverso la stampa dopo che eventualmente sono state divulgate di determinate azioni. Quindi una persona molto riservata, molto severa, un motore trainante che era uno di quelli che non aspettava che qualcun altro facesse il lavoro per lui".


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"Paolo della morte di Giovanni non amava parlare - ha ricordato Salvatore Borsellino - Come disse Manfredi: 'io ho visto cominciare a morire mio padre quando vegliamo la bara di Giovanni Falcone nel palazzo di giustizia di Palermo'. Mio fratello non l'ho rivisto più. L'ho rivisto nelle fotografie, nelle riprese, nelle interviste che gli hanno fatto. Dopo la morte di Giovanni Falcone, Paolo non era più la stessa persona in pochi giorni era come se fossi invecchiato di 10 anni". "Borsellino sapeva bene che la prossima vittima predestinata dopo Falcone sarebbe stato lui - ha sottolineato Scarpinato - Era in possesso di molte informazioni che gli erano state trasmesse da Falcone. Ma soprattutto dopo la strage si era impegnato in tutti i modi per cercare di capire cosa c'era dietro la strage di Capaci".

Infine, le parole di Letizia Battaglia, venuta a mancare il 13 aprile 2022: "Ricordo Borsellino nelle sue ultime ore di vita venne a parlare a Casa Professa. C'era un pubblico seduto per terra, giovani, ragazze e ragazzi, adulti, una folla enorme ad ascoltare. Lui era seduto vicino a Saverio Lodato, un giornalista. Lui aveva gli occhi tristi di uno che sapeva che lo avrebbero ammazzato e lui ci incitò a non demordere, a lottare".

Guarda lo speciale di Sky TG24: "Attacco allo Stato"

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