di Giorgio Bongiovanni
Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non lasciano spazio al minimo dubbio. Parti dello Stato italiano, in ginocchio dopo il brutale, violento e ripetuto attacco frontale di Cosa Nostra, avvenuto a cavallo degli anni ‘92 e ‘93, hanno trattato con i mafiosi. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito. E’ per questo motivo che le procure di Palermo e Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta sulla trattativa tra Mafia e Stato.
Dichiarazione di guerra
Il 30 gennaio 1992 la Cassazione condanna definitivamente all’ergastolo la Commissione di Cosa Nostra riconoscendo in pieno il piano accusatorio del primo maxi processo istruito dal pool di Falcone e Borsellino e conferendo, in questo modo, credibilità assoluta ai collaboratori di giustizia. Nasce quello che viene definito «il teorema Buscetta» secondo il quale ogni omicidio, più o meno eccellente, commesso dall’organizzazione, ricade sotto la piena responsabilità di tutta la «cupola» che ha deliberato, unanime, la decisione del fatto criminoso.
Il 12 marzo 1992 viene ucciso a Mondello Salvo Lima, il più importante referente di Andreotti in Sicilia.
Il 17 febbraio, a Milano, viene arrestato per tangenti il socialista Mario Chiesa, presidente degli enti comunali di assistenza. Ha il via quel fenomeno definito «Tangentopoli», che porterà all’arresto per corruzione alti ed importanti esponenti del mondo politico, fino a determinare una crisi di governo con ben pochi precedenti. Nasce quindi il cosiddetto pool di «mani pulite» capeggiato da Antonio Di Pietro.
Giunto quasi al termine del suo mandato, il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga si scontra duramente con gli esponenti del Consiglio Superiore della magistratura, ma ne esce sconfitto. Si dimetterà il 25 aprile 1992. L’Italia si ritrova senza il capo dello Stato. Per la sua successione si aprirà una battaglia dura e aspra.
Contemporaneamente, a Palermo, cominciano i processi per i delitti cosiddetti «politici» del segretario provinciale democristiano Michele Reina (9 marzo 1979), dell’ex presidente della regione, Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) e del segretario regionale del Partito Comunista Pio La Torre (30 aprile 1982). La requisitoria era stata firmata anche da Giovanni Falcone.
Il 23 maggio 1992, a Capaci, esplode un intero tratto di autostrada che conduce dall’aeroporto Punta Raisi a Palermo. Moriranno, barbaramente trucidati, il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della loro scorta: Rocco Di Cillo, Antonino Montinari e Vito Schifani.
La furia omicida della mafia non si placa. Il 19 luglio 1992 un boato sventra i palazzi siti in via Mariano D’Amelio. E’ il giudice Paolo Borsellino, erede naturale non che amico intimo di Giovanni Falcone, a perdere la vita assieme ai suoi 5 agenti di scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
Un colpo durissimo che induce gli italiani, tutti, ad insorgere premendo affinché il governo attui leggi repressive molto severe nei confronti dei mafiosi, peraltro già preparate dal giudice Falcone che, invano, ha atteso la loro approvazione. In particolare viene inasprito il regime del 41 bis, il «carcere duro» , che prevede l’isolamento per i mafiosi e vengono ampliati i poteri di indagine autonoma della polizia e il ricorso ai collaboratori di giustizia. Di fatto, poi, una volta convertito in legge, il decreto perderà alcuni elementi fondamentali rispetto alla sua stesura originaria ispirata da Falcone.
La notte del 19 luglio stesso i boss mafiosi vengono trasferiti dal carcere palermitano dell’Ucciardone a quello di massima sicurezza di Pianosa.
In settembre Cosa Nostra uccide Ignazio Salvo, uno dei potenti esattori siciliani al centro dell’intreccio di potere tra politica e mafia.
In dicembre, dopo inutili complotti e vili attacchi alla magistratura, viene notificato al segretario del partito socialista Bettino Craxi il primo avviso di garanzia con la contestazione di ben 40 ipotesi di reato.
Il 13 gennaio 1993 il giudice Carnevale, detto «ammazzasentenze», viene rinviato a giudizio per il reato di interesse privato in atti d’ufficio.
Il 15 gennaio viene catturato a Palermo Salvatore Riina, capo di Cosa Nostra, assieme al suo braccio destro, Salvatore Biondino. Nello stesso giorno si insedia, a Palermo, come Capo della Procura della Repubblica, Gian Carlo Caselli.
In un clima di pieno sconvolgimento politico e sociale in cui fioccano avvisi di garanzia e rinvii a giudizio per un’intera classe politica, ritorna il terrore.
Il 14 maggio a Roma, in via Fauro, esplode un ordigno indirizzato al conduttore televisivo Maurizio Costanzo che riesce a scampare all’attentato. La bomba causerà la distruzione di due palazzi e il ferimento di 23 persone.
Il 27 maggio a Firenze, in via dei Georgofili una tremenda deflagrazione strapperà alla vita 5 persone e danneggerà gravemente il museo degli Uffizi.
Due mesi dopo, il 27 luglio, nella notte, a Milano un altro ordigno provocherà sei morti e quasi contemporaneamente a Roma due bombe distruggeranno l’una, il porticato di San Giorgio al Velabro, e l’altra danneggerà la Basilica di San Giovanni in Laterano. Fortunatamente, non ci saranno vittime.
I magistrati preposti alle indagini sulle stragi del biennio ‘92-’93 leggeranno un piano strategico messo in atto da Cosa Nostra per destabilizzare lo Stato. Emerge, sin da subito, la presenza misteriosa di mandanti cosiddetti «dal volto coperto» esterni all’organizzazione.
Trattiamo
«...se tu vai a colpire un patrimonio artistico o vai a fare... tipo vai a mettere le siringhe in una spiaggia, colpisci il turismo... e quindi un fatto economico non indifferente».
«Ma se un giorno la torre di Pisa non la troverete più all’impiedi, come vi sentireste?»
Paolo Bellini è un traffichino di opere d’arte.
Conosce Antonino Gioè, uomo d’onore della famiglia di Altofonte, mentre è detenuto nel carcere di Sciacca, sotto falso nome.
Si ritroveranno poi a Palermo, all’Ucciardone, dove stringeranno ulteriormente la loro amicizia per poi mantenersi in contatto.
Bellini esce dal carcere e nel 1991 si reca in Sicilia per effettuare il recupero di alcuni crediti. Chiama il Gioè, di cui aveva compreso la caratura, per farsi dare «una mano d’aiuto». I due si rivedono con piacere e tra una cosa e l’altra Bellini chiede a Gioè se sia in grado di reperire la refurtiva, frutto di una rapina di opere d’arte, probabilmente ad opera della mafia del Brenta, che potrebbe essergli utile al fine di alleggerire la condanna definitiva che da lì a breve avrebbe dovuto scontare.
Gioè gli dà la sua disponibilità.
Nell’estate del 1992, a San Benedetto del Tronto, Bellini incontra il maresciallo Roberto Tempesta, del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri, che gli chiede se possa rintracciare dei quadri della Pinacoteca di Modena, di un certo valore.
Gli consegna poi una busta arancione contenente le fotografie delle opere da ritrovare.
Bellini non solo garantisce che si adopererà, ma gli dice di essere nelle condizioni di potersi infiltrare all’interno della mafia siciliana.
Quindi ricontatta il Gioè che spiega subito di non poter far nulla per quei pezzi indicati nelle polaroid, ma che, invece, può consegnare opere di più elevato valore. In cambio chiede gli arresti ospedalieri o domiciliari per alcuni detenuti di suo interesse. (Bernardo Brusca, Giuseppe Giacomo Gambino, Giovanbattista Pullarà, Pippo Calò e Luciano Liggio e forse qualcun altro...)
Siamo, infatti, nel periodo posteriore alle stragi, è già stato attuato l’inasprimento del 41 bis e i mafiosi sono soggetti a restrizioni fino ad ora inimmaginabili.
E’ Giovanni Brusca a muovere le fila dietro le richieste di Gioè e, dietro di lui, Salvatore Riina.
Il Bellini riferisce al Tempesta della conversazione avuta con il mafioso. Il 28-29 agosto 1992 il maresciallo informa il suo superiore, il colonnello Mori, della trattativa in corso e gli consegna il bigliettino di richieste di scarcerazione.
La posta in gioco è troppo alta, Tempesta nega la possibilità di alcuno scambio, Bellini dice a Gioè che forse esiste una possibilità per il solo Bernardo Brusca.
Bellini cerca altre vie, ma anche l’ispettore Procaccia della DDA di Milano non accetta il compromesso.
Il 30 dicembre 1992 Gioè e Bellini si sarebbero dovuti rincontrare a Palermo. Ma temendo di essere pedinato Bellini non si reca all’appuntamento. Non si vedranno mai più.
Fin qui, nella ricostruzione generale degli eventi, i testimoni sentiti dalle varie procure concordano.
Ma sono diversi i particolari tralasciati o contraddittori che emergono e sui quali i procuratori hanno potuto approfondire le varie ipotesi di indagine.
Divergenze
Nella motivazione della sentenza di I° grado del processo per le bombe del ‘93 si legge, nell’interrogatorio del Bellini, che egli fu molto intimorito dalla reazione del Gioé quando gli spiegò di non avere ottenuto alcuna risposta positiva alle richieste di Cosa Nostra. Poiché è stato in quel frangente che Gioè avrebbe dichiarato: <<Cosa fareste se domani, svegliandovi, non trovaste più la torre di Pisa?>>. Quell’includere il Bellini nella controparte gli fece credere che il Gioè lo stesse considerando come un nemico, non più come il mediatore.
Giovanni Brusca, invece, interrogato dal pm Chelazzi, specifica in merito: «Se il Bellini è venuto come mandante, nel senso fate questo, fate quell’altro: nella maniera più categorica no. ... I suggerimenti che a noi venivano dati, cioè, venivano poggiati su un vassoio, cioè ce li dava come consigli di sua conoscenza: ‘se fate questo succede questo’. ... Però i consigli, cioè i suggerimenti che lui ci dava noi tiravamo le nostre conclusioni. ... Che poi noi pensavamo, dietro questi fatti, lui ritornava essendo che era come suol dire un discorso a intesa. Per dire se il quadro è questo, la situazione è questa non so quello che può succedere, ma automaticamente lo Stato deve intervenire. Ma essendo che il canale aperto era con lui, automaticamente lui poteva dire a chi di competenza, per dire: io sono in condizione di poterlo fermare, o io so chi è stato, o io posso intervenire. Questa era la nostra interpretazione.»
«Quindi - scrivono i giudici - Bellini non consigliò mai loro di attuare un qualche attentato, ma fu sicuramente quello che suggerì le idee».
La testimonianza di Brusca assume particolare rilevanza in quanto rivela di aver assistito, di nascosto e quindi, all’insaputa del Bellini, ad una conversazione tra Bellini e Gioè, nella casa paterna di quest’ultimo, durante la quale tra i due si sono sviluppati discorsi di natura terroristica ai danni del patrimonio artistico dello Stato.
In particolare il Bellini, a proposito della strage di Capaci, avrebbe detto: «Perché il Bellini insieme a Gioè dice: se tu vai a eliminare una persona, se ne leva una e ne metti un’altra. Se tu vai a eliminare un’opera d’arte, un fatto storico, non è che lo puoi andare a ricostruire, quindi lo Stato ci sta molto attento, quindi l’interesse è molto più della persona fisica».
Il maresciallo Tempesta, anch’egli escusso nell’ambito del medesimo procedimento per le bombe del ‘93, ha riferito che addirittura per convincerlo ad assumere il ruolo di suo interlocutore preferenziale il Bellini lo sollecitò nel modo seguente: «Perché se tu dicessi che vogliono fare degli attentati a dei monumenti, non saresti tu competente a trattare questo tipo di discorso, visto che fai parte del reparto Tutela Patrimonio Artistico?» ... «Si parlò di monumenti e poi mi fece un esempio: ‘supponi che ti dicessi che vogliono colpire la Torre di Pisa, pensa che effetto destabilizzante potrebbe avere il fatto di colpire in un momento pieno di turismo la Torre di Pisa, che però la Torre di Pisa con centinaia di morti sarebbe finito completamente il turismo italiano, perché gli stranieri non verrebbero più a visitare i monumenti e le nostre cose.»
Il colonnello Mori, oggi generale del ROS, ha sì confermato lo svolgersi dei fatti secondo il suo punto di vista e il ruolo svolto, ma afferma di non ricordare affatto di aver sentito parlare di possibili attentati al patrimonio artistico nazionale e soprattutto «esclude che le agevolazioni carcerarie per i cinque mafiosi potessero costituire la contropartita di un recupero di opere d’arte.»
Elicotteri, massoneria e servizi segreti
La corte, sempre al processo per le bombe del ‘93, non intende dilungarsi sulla reale identificazione della figura di Paolo Bellini. Vale la pena, al contrario, secondo la nostra opinione, mettere comunque in rilievo alcuni elementi di estremo interesse che riguardano il trafficante d’arte, importanti spunti di analisi nello studio degli eventuali corresponsabili esterni della strategia stragista messa in atto da Cosa Nostra.
Emerge, sia dalle testimonianze del maresciallo Tempesta, sia da quelle di Giovanni Brusca che del Bellini stesso, sebbene in contrapposizione, che questi potesse plausibilmente avere legami con non meglio precisati servizi segreti, che fosse in grado di pilotare elicotteri e Dc 9 e che fosse stato in contatto con esponenti di frange estremiste di destra.
Procedendo con ordine.
Secondo quanto ricostruito dall’avvocato Li Gotti, legale di Giovanni Brusca, Bellini, che per sua stessa ammissione era detenuto in carcere sotto il falso nome di Roberto Da Silva, era anche in possesso di un documento datogli dai servizi segreti. Per di più risulta essere oggi a processo per un delitto compiuto da una cosca ‘ndranghetista a Reggio Emilia di cui ha confessato di fare parte. Lo stesso brevetto di pilota di cui dispone esibisce un’identità fasulla.
Sempre nella motivazione della sentenza di I° grado delle bombe del ‘93, Bellini riferisce che ad un certo punto della trattativa Gioè gli fece una «battuta che lo raggelò: Ma tu non starai mica lavorando per i servizi segreti?». In altra occasione poi, il boss di Altofonte gli domandò se operasse per conto della massoneria, perché se così fosse stato, avrebbe saputo come muoversi, attraverso i massoni del trapanese.
Brusca, poi, nell’ambito di ciò che ha definito «suggerimenti» colloca anche la proposta di Bellini di far espatriare latitanti all’estero con elicotteri che egli stesso avrebbe potuto pilotare o, sempre con velivoli, dare dimostrazioni eclatanti su Palermo o sopra il carcere di massima sicurezza di Pianosa.
«... non verranno spese molte parole per dissipare i sospetti avanzati intorno alla figura del Bellini: che sia un membro di chissà quali servizi segreti; che sia stato l’ideatore o lo strumento di chissà quali oscure trame. ... Qui va solo aggiunto, se non altro per chiarezza, che di Bellini si sa troppo poco per poterlo in qualche modo qualificare (a parte che per la sua frequentazione, nel passato, di Avanguardia Nazionale)».
Il proiettile nel giardino
E’ in questo contesto che si sviluppa la strategia stragista.
Interpellato dai magistrati, Brusca ricostruisce «il preludio in tono minore» della campagna di attacco scatenata da Cosa Nostra ai danni dello Stato.
A Mazara del Vallo seduti al tavolo dove si tiene la classica «mangiata» ci sono il capo dei capi, Salvatore Riina e una buona rappresentanza dei corleonesi: Brusca, Bagarella, Gioè, Santo Mazzei e La Barbera. E’ estate, sono state già fatte le stragi, si può stare tranquilli. Si fanno tanti discorsi, si parla anche di Bellini e della possibilità di fare un’azione eclatante ai danni degli Uffizi a Firenze. Santo Mazzei è la persona più indicata. Affiliato alla mafia catanese di Nitto Santapaola per esplicito volere di Riina, Mazzei di fatto si muove su Palermo, ma soprattutto si sposta al Nord con una certa frequenza per cui è l’uomo ideale per mettere sul piatto il primo elemento della trattativa.
Lo scopo da perseguire è chiaro.
«Gli strumenti - come si legge sempre nella motivazione della sentenza - che pensavano di utilizzare, per raggiungere i loro fini, erano il terrore e la minaccia» come leva su cui fare forza per arginare il potere devastante dei pentiti, ed estendere i benefici della legge Gozzini anche ai mafiosi, in sostanza svuotare il 41 bis, il carcere duro, in quel momento applicato con fermezza anche ai numerosi boss mafiosi, tra cui quelli indicati da Riina nel bigliettino consegnato al Bellini, quindi al maresciallo Tempesta e al colonnello Mori.
In particolare la strategia era «meglio attuabile al Nord, dove l’opinione pubblica è più sensibile ed influente».
Escusso dai pubblici ministeri, Gullotta Antonino, facente parte del clan dei Cursoti di Catania e collaboratore dal novembre del 1994, ha ricostruito con dovizia di particolari l’operazione dei Boboli.
Ha spiegato di essersi recato a Milano con Mazzei e un uomo di sua fiducia, Roberto Cannavò all’incirca tra il 7 e l’8 ottobre 1992. Una volta giunti nel capoluogo lombardo hanno acquistato una Opel Kadett per 8 milioni di lire dopodiché si sono diretti a Torino dove operavano due uomini della criminalità di Mazara del Vallo, Salvatore Facella e Giovanni Bastone, che gli avevano procurato uno strano ordigno, «una specie di razzo». Senza attendere ulteriormente sono partiti per Firenze dove sono giunti verso le 16:00, poco prima della chiusura del museo.
Cannavò paga il biglietto di ingresso e una volta entrato posa «il razzo» dietro una statua. In poco più di un quarto d’ora raggiunge di nuovo gli altri e fanno rientro a Torino.
Lungo la strada Mazzei telefona ad un’agenzia di stampa per rivendicare l’attentato. Gullotta riferisce che la chiamata è stata tanto concitata che loro stessi non sono riusciti a comprenderne il contenuto.
L’indomani hanno cercato la notizia sul giornale, ma non vi era alcun cenno.
Ugualmente riferisce il Brusca che il Mazzei, una volta portato a termine la missione, aveva fatto immediato ritorno a Palermo e aveva dato appuntamento a casa di Gaetano Sangiorgi per mezzogiorno e mezzo dove dovevano attendere le possibili notizie sul telegiornale.
Comparando le differenti versioni «l’istruttoria dibattimentale ha rivelato che il 5-11-92 fu rinvenuto, dal personale di servizio nel giardino dei Boboli, un ordigno dietro la statua di Marco Cautius, ai margini di una siepe. L’ordigno era avvolto in un sacchetto di plastica simile a quelli della nettezza urbana di colore nero. Era chiuso con nastro da imballaggio. Si trovava a circa dieci minuti di cammino dall’entrata del giardino.
Si trattava, come ha precisato il mar.llo Errico, a cui l’ordigno fu consegnato per la distruzione, di una bomba da mortaio da 45 millimetri chiamata bomba Brixia, perché veniva sparata da un mortaio modello Brixia dell’anno 1935. Era un proiettile usato nella Seconda Guerra Mondiale, non più in dotazione all’Esercito.
Era lungo 12 centimetri e largo 45 millimetri, caricato con circa 70 grammi di esplosivo...»
Dai riscontri e dalle testimonianze incrociate dei collaboratori e dei vari testi si è ottenuta una ricostruzione piuttosto precisa e ricca di riscontri che consente di avere un quadro chiaro dello svolgimento dell’atto dimostrativo-intimidatorio.
Il colonnello e il mafioso
E’ Giovanni Brusca a fornire l’aggancio e la spiegazione dell’esistenza di una seconda trattativa, quella forse più importante, in corso tra Cosa Nostra e uomini delle Istituzioni.
Come per ogni affare condotto dagli uomini d’onore, Riina ne era a conoscenza ed è proprio lui che, saputo del fallimento della trattativa tra Gioé e Bellini, concede a Brusca, su sua specifica richiesta, di continuare i colloqui per cercare di procurare benefici carcerari per il padre Bernardo, vecchio boss di San Giuseppe Jato. Ma è anche in questa circostanza (si è già verificata la strage di Capaci ndr.) che il capo dei capi gli rivela: «Stop non fare più niente perché io c’ho un’altra..., altre possibilità». Cioé la famosa trattativa - spiega Brusca nel corso dell’interrogatorio per il processo Borsellino ter -.
Il collaboratore si riferisce ai colloqui intercorsi tra l’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo e già condannato per associazione a delinquere semplice, abuso d’ufficio e altro ed era in quel momento in attesa di scontare la propria condanna.
Sentiti in sede processuale tanto il colonnello Mori quanto il capitano De Donno, nei diversi processi istruiti per le stragi, hanno confermato di aver contattato il Ciancimino tramite il figlio Massimo che aveva stretto un rapporto di particolare familiarità con il capitano De Donno in occasione del dibattimento di primo grado al processo che vedeva il padre imputato.
Era intenzione del colonnello Mori, infatti, creare un gruppo speciale di operatori per dare la caccia al capo di Cosa Nostra per rispondere in egual misura all’attacco sferrato contro lo Stato con la strage di Capaci. La via del contatto con Ciancimino si presentava quindi funzionale alla possibile acquisizione di elementi utili per giungere ai latitanti.
I primi incontri (due-tre in tutto) avvengono tra il solo De Donno e Ciancimino nel periodo a cavallo della strage di via D’Amelio.
«Il dialogo tra i due si allargò e investì la stessa ‘Tangentopoli’ e le inchieste che li avevano visti protagonisti (De Donno come investigatore, Ciancimino come persona sottoposta ad indagini).
In uno di questi incontri Ciancimino fece a De Donno una strana proposta che il teste così riferisce: ‘Io vi potrei essere utile perché inserito nel mondo di Tangentopoli, sarei una mina vagante che vi potrebbe completamente illustrare tutto il mondo e tutto quello che avviene’.»
Una tale esternazione convince il capitano di una concreta apertura al dialogo per cui ritiene importante un incontro diretto tra Mori e Ciancimino, che «non era la solita fonte informativa da quattro soldi, ma un personaggio che non avrebbe accettato di trattare con altri che non fossero capi».
Si vedono per la prima volta nel pomeriggio del 5 agosto 1992 a Roma, in via di Villa Massimo, luogo di residenza del Ciancimino. Parlano della vita palermitana e in particolare della «sagacia investigativa» del diretto superiore del colonnello, il generale Subranni, a cui poi Mori riferirà dei suoi discorsi con Ciancimino.
Il secondo incontro avviene il 29 agosto 1992 e sapendo della sua posizione processuale «non brillantissima», l’ufficiale sperava «che questo lo inducesse a qualche apertura e chi ci desse qualche input».
In quella occasione dunque azzarda un tentativo di ragionamento sul muro contro muro che si stava verificando tra Cosa Nostra e Stato.
«... Ma non si può parlare con questa gente? La buttai lì convinto che lui dicesse: ‘cosa vuole da me colonnello?’ Invece dice: ‘ma sì si potrebbe, io sono in condizioni di farlo. E allora restammo... dissi: ‘allora provi’. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente».
L’1 ottobre 1992, sempre a casa di Ciancimino questi assicura di aver preso contatto «tramite intermediario, con questi signori qua. ‘Ma loro sono scettici perché voi che volete, che rappresentate? ... Allora gli dissi - ha proseguito Mori - ‘lei non si preoccupi e vada avanti’ Lui capì a modo suo, fece finta di capire o comunque andò avanti. E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa».
La risposta giunge il 18 ottobre 1992 quando, ad un successivo incontro Ciancimino chiede «Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio?»
Mori sapeva che a Ciancimino era stato ritirato il passaporto e che, pertanto, la proposta di continuare la trattativa all’estero era un escamotage del Ciancimino per mettersi al sicuro. Comunque colto di sorpresa il carabiniere risponde: «Beh, noi offriamo questo. I vari Riina, Provenzano e soci si costituiscono e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie».
«A questo punto Ciancimino si imbestialì veramente. Mi ricordo che era seduto. Sbattè le mani sulle ginocchia, balzò in piedi e mi disse: ‘lei mi vuole morto, anzi, vuole morire anche lei, io questo discorso non lo posso fare a nessuno».
Visto però lo stato di necessità in cui versava il Ciancimino, Mori era certo che si sarebbe fatto risentire. Infatti il capitano De Donno si rivede con Ciancimino che si mostra disposto ad aiutarli a catturare il solo Riina. Chiede per tanto di procurargli le mappe di acqua, luce e gas relative a da alcune zone precise di Palermo: viale della Regione Siciliana, «verso Monreale».
Il 18 dicembre 1992 De Donno consegna le cartine all’ex sindaco che però non è soddisfatto e avanza altre richieste.
Il giorno successivo Ciancimino viene arrestato.
La trattativa si interrompe. Salvatore Riina viene catturato il 15 gennaio 1993.
La descrizione resa in sede dibattimentale da De Donno coincide in maniera speculare con quella del suo superiore, fatta eccezione per la posizione iniziale di Ciancimino.
Se in fatti Mori riferisce di essere rimasto sorpreso dalla disponibilità e dalla capacità del faccendiere di offrirsi spontaneamente come tramite con i vertici dell’organizzazione, De Donno ricorda che la richiesta di fare da ponte era venuta da loro.
Il particolare non è insignificante, come ben si intende, poiché dimostra la grave crisi in cui si trovava il nostro Stato a quel tempo, costretto a trattare.
Il frutto velenoso
La corte ritiene certamente più attendibile la versione del capitano De Donno perché il giudizio espresso in merito alla trattativa è assai severo.
«E’ senza rilievo (nel presente giudizio) accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del ROS a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria ‘trattativa’, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa.
... Sotto questi profili non possono esserci dubbi di sorta, non solo perché di «trattativa», «dialogo», ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha espressamente evitato questi termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare i vertici di Cosa Nostra per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.
... Questo convincimento rappresenta anche il frutto più velenoso dell’iniziativa in commento, che, nonostante le più buone intenzioni con cui fu avviata, ebbe sicuramente un effetto deleterio per le Istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato.».
Brusca, l’altro pezzo del puzzle
Indispensabile e determinante, come sempre accade, l’apporto dato dai collaboratori di giustizia all’accertamento della verità. Tra i numerosi che hanno partecipato per vie più o meno dirette alle stragi del biennio ‘92-’93 si distinguono Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi per il grado di conoscenza di cui sono entrambi in possesso, consono, del resto, alla loro posizione di capi mandamento appartenenti alla Commissione di Cosa Nostra, la cosiddetta Cupola.
Dopo l’omicidio Lima, secondo i ricordi di Brusca, la Cupola presieduta da Riina si riunisce più volte per deliberare una strategia di attacco volta a creare destabilizzazione nel paese. Il fine è di colpire tutti coloro che avevano mancato agli impegni presi con Cosa Nostra o che l’avevano ostacolata, ma soprattutto per cercare nuovi referenti istituzionali dopo che la vecchia classe politica aveva voltato le spalle ai boss.
In quest’ottica rientra senz’altro l’omicidio del giudice Giovanni Falcone perché più di ogni altro aveva messo in difficoltà l’organizzazione mafiosa anticipandone le mosse. Interessandosi personalmente affinché la sentenza definitiva del processo maxi-uno non arrivi nelle mani dell’ «ammazzasentenze» Carnevale e che soprattutto non precipiti nell’oblio, Falcone riesce ad ottenere la condanna all’ergastolo per quasi tutti i membri più importanti della cupola, Riina in testa. La sentenza della Cassazione verrà emessa il 30 gennaio 1992.
Un danno irreparabile per cui qualcuno, oltre a Lima che doveva impedire che ciò accadesse, doveva pagare. Non occorre dimenticare poi che l’operato del giudice arrivò a toccare i santuari delle collusioni mafia-politica-imprenditoria andando probabilmente ad interferire con gli interessi dei «decisionisti» del «gioco grande».
Una morte comoda a molti, quindi.
Prima della strage Borsellino, Brusca ha modo di incontrarsi a quattr’occhi con il Riina chiedendogli se dopo la strage di Capaci aveva ricevuto notizie da quegli interlocutori schierati dall’altra parte del tavolo a cui era indirizzato il tremendo messaggio.
Riina risponde affermativamente e per la precisione: «Si sono fatti sotto, c’ho fatto una richiesta, c’ho fatto un papello tanto». Intendeva riferirsi ad un elenco di agevolazioni necessarie alla sopravvivenza e alla evoluzione della organizzazione in cambio delle quali avrebbe offerto solo ed esclusivamente la cessazione delle stragi.
La risposta degli interlocutori di Riina, sconosciuti a Brusca, non si fa attendere. Dopo una quindicina di giorni arriva il rifiuto, le pretese sono «esose» e non possono essere accontentate tutte.
Brusca, che in quel momento si stava attivando per eliminare l’onorevole Mannino, viene stoppato, perché c’è un altro «lavoro» importante in corso. Muore il giudice Borsellino e con lui cinque uomini della sua scorta. Brusca capisce che questa è l’ulteriore replica di Cosa Nostra, ma rimane sorpreso per la fretta con cui viene eseguita la strage.
Non sapeva ancora il collaboratore chi erano i referenti di Riina e cosa gli stessero promettendo, ma è il primo in assoluto che riferisce all’autorità giudiziaria (luglio-agosto 1996 ) che vi era stata una sorta di tentativo di accordo tra Riina e qualcuno di esterno all’organizzazione. Certo non si immaginava minimamente che si potesse trattare dei carabinieri.
Solo dopo che il colonnello Mori rende testimonianza nel processo per le bombe, nell’agosto dell’anno successivo, e contemporaneamente verrà pubblicata su La Repubblica un articolo a proposito, Brusca coglie il collegamento. Di fatto le sue ricostruzioni concordano nella quasi totalità, comprese le date. Dopo la strage di via D’Amelio si era infatti incontrato con Salvatore Biondino, capo mandamento della famiglia di San Lorenzo e braccio destro di Riina, il quale lo aveva informato che si necessitava di un ulteriore «colpetto» perché il dialogo aveva subito una battuta d’arresto. Brusca si era messo immediatamente a disposizione con il progetto già in opera con cui si intendeva attentare alla vita del giudice Pietro Grasso. (Per una fortuita possibile interferenza con i dispositivi elettronici in dotazione ad una banca situata in prossimità dell’abitazione del dott. Grasso si è rinunciato al disegno criminoso).
Il collaboratore non ricorda con precisione la data in cui gli venne «commissionato» il delitto, ma più o meno colloca l’evento nei primi mesi autunnali, probabilmente ad ottobre. Ciò va a coincidere con quanto riferito dagli ufficiali dei carabinieri che hanno datato al 18 ottobre 1992 l’incontro fattivo con Ciancimino, quello in cui accetta di collaborare per la cattura di Riina.
Il papello
Il grande enigma riguarda il «papello», l’elenco dei desideri di Cosa Nostra.
Revisione del maxi processo, abolizione della legge sui pentiti, abolizione dell’ergastolo, estensione dei benefici previsti dalla legge Gozzini ai detenuti mafiosi, quindi di fatto svuotamento del regime carcerario previsto dall’art. 41bis (box socializzazione Riina), chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara e abolizione della legge sul sequestro dei beni mafiosi ecc...
Escusso dai giudici, Ciancimino confessa che la trattativa con Riina stava avvenendo attraverso Gaetano Cinà, medico di fiducia di Riina, nonché uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo. Giovanni Brusca indica sempre in Cinà l’uomo che avrebbe potuto ben scrivere il papello.
Però, sia il colonnello Mori che il capitano De Donno hanno giurato di non aver mai ricevuto quella lista, mentre, dal canto suo, Brusca rammenta che Riina non solo era riuscito a far arrivare la sua proposta di contratto, ma aveva ricevuto anche risposta, sebbene negativa.
Le diverse corti che si sono occupate di analizzare questo punto lasciano aperta la problematica. Naturalmente i giudici hanno valutato come credibili innanzitutto le deposizioni del Colonnello Mori e del capitano De Donno, ma nessuno ha potuto dare meno credito alle dichiarazioni di Brusca che si è rivelato ancora una volta il perno sul quale ruota la più probabile interpretazione della strategia stragista.
I possibili sospetti ricadono sul Ciancimino e sul Cinà che per motivi diversi potrebbero non aver portato il «papello» a destinazione.
Questa spiegazione non è comunque esaustiva primo perché entrambi avrebbero comunque corso un rischio altissimo e la reazione di Cianciminio alle richieste di Mori lascia presupporre che fosse ben consapevole dei cruenti metodi di Cosa Nostra, secondo, Riina fa chiaro riferimento ad una comunicazione avvenuta.
Ciò che è certo e visibile agli occhi di tutti è l’incredibile adempimento delle aspettative di Cosa Nostra che, in questi anni, ha potuto ottenere forse ancora di più di quanto sperato.
Cancemi: l’ altro lato della trattativa?
Una nuova luce in merito potrebbe essere introdotta dalle deposizioni di Salvatore Cancemi, membro della Cupola che, come si legge nella motivazione della sentenza di appello per la strage di Capaci, vengono definite dai giudici come assolutamente complementari con quelle di Brusca.
Anche il reggente della famiglia di Porta Nuova è certo che Riina fosse in contatto con qualcuno esterno all’organizzazione con cui aveva preso accordi tali da sentirsi «garantito» anche se in procinto di scatenare un’offensiva senza precedenti ai danni dello Stato italiano.
In particolare riferisce quanto gli fu confidato dall’amico Raffaele Ganci, capo mandamento della famiglia della Noce, mentre si trovavano in auto di ritorno da Capaci dove si erano recati per verificare i preparativi della strage. Discutendo della delicatezza dell’operazione criminosa Ganci tranquillizza il Cancemi assicurandogli che «u zu Totuccio si è incontrato con persone importanti». Da buona regola di Cosa Nostra, il Cancemi ben si è guardato dal domandare chi fossero costoro. Sarà solo più avanti che Riina gli farà i nomi delle «persone importanti».
Successivamente all’assassinio del giudice Falcone, nel corso di una delle tante riunioni compartimentate secondo la metodologia in vigore, il Riina espone il progetto di eliminare anche il giudice Borsellino suscitando la muta perplessità dei suoi sottoposti, sorpresi in modo specifico dalla fretta con cui deve compiersi l’attentato.
Cancemi però fornisce un dettaglio assolutamente prezioso.
Riina si apparta con Ganci in un angolo del salone, Cancemi, poco distante, riesce a sentire il tenore della discussione e capta distintamente le parole: «Faluzzu, non ti preoccupare, mi prendo io la responsabilità». (Faluzzu è l’abbreviazione siciliana di Raffaele ndr.).
Una volta usciti dalla villa il Ganci, per la prima volta dopo anni di assoluta obbedienza al Riina, si lascia scappare una lamentela «Chisto nu vole consumare a tutti».
Sentito in numerosissimi processi Cancemi si dice convinto che Riina sia stato «portato
per la manina» nella scelta degli obiettivi come nella tempistica.
La conferma gli viene dal boss stesso che più volte invita i suoi uomini a mantenere la calma e soprattutto ad essere pazienti poiché le persone con cui è in contatto occorre «coltivarle ora e nel futuro di più» perché « è un bene per tutta Cosa Nostra».
Già attorno al ‘90-’91 Riina gli aveva ordinato di parlare con Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova e in stretti rapporti con gli onorevoli Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, affinché da quel momento in poi si mettesse da parte perché questi ormai erano nelle «sue mani» e voleva gestirli lui direttamente. Se in principio il Mangano si risente, obbedisce non appena il Cancemi gli spiega che Riina era certo che in un futuro tutta l’organizzazione avrebbe beneficiato dei vantaggi portati da questi rapporti.
Cancemi non si è sorpreso di sapere di questi legami eccellenti, perché era già al corrente del fatto che Berlusconi ogni tanto inviava una somma di denaro «come contributo» al Riina che lui e Ganci si premuravano di consegnargli. Il ricordo è nitido perché in una di queste occasioni il capo gli regalò una somma rappresentativa di 5 milioni. Successivamente Riina lo informa che «quelle persone» volevano acquistare la zona vecchia di Palermo.
In base a questi elementi il Cancemi ricostruisce quella che secondo lui è una parte determinante della trattativa con personaggi di altissimo calibro che sono in grado, in cambio della eliminazione di avversari scomodi, sia a livello fisico che politico-sociale, di soddisfare appieno le numerose e difficili richieste avanzate da Cosa Nostra.
Queste scottanti rivelazioni vengono esposte dal Cancemi in aule pubbliche al cospetto dei giudici che hanno presieduto i processi per le stragi di Capaci, via D’Amelio e per le bombe del 1993. Cancemi viene denunciato per calunnia da Berlusconi e Dell’Utri, ma il tribunale di Caltanissetta ha archiviato di recente la denuncia ritenendo che «il collaboratore con quelle dichiarazioni non ha calunniato nessuno».
Dietro le quinte
L’obiezione più spontanea è senza dubbio la constatazione che in quel periodo, siamo ancora nel 1992, i suddetti onorevoli erano ancora lontani dalla scena politica. Tuttavia non si può negare che Riina avesse precisato che occorreva attendere ancora qualche anno prima di usufruire di quanto sperato.
E allo stesso modo non si può non evidenziare che lo sconvolgimento a livello istituzionale di quegli anni ha rappresentato la fine della cosiddetta «prima repubblica» e l’inizio della seconda, sfilando le poltrone da sotto il posteriore alla vecchia classe politica sommersa dalle polemiche e dallo sdegno.
Milano - Palermo capitali del cambiamento tragico.
Da entrambe le motivazioni delle sentenze di I° e II° grado per le stragi «Falcone e Borsellino» si evince che Falcone prima e Borsellino poi avevano colto il collegamento tra Tangentopoli e Mafiopoli attraverso le indagini sulle collusioni tra mafia, politica e imprenditoria, andando a toccare proprio i santuari di quel «gioco grande» che fa della convergenza di interessi il movente dei delitti. Guarda caso infatti vengono «scalzati di sella - per dirla con Riina - i vecchi referenti» gli stessi che hanno voltato le spalle a Cosa Nostra per rifarsi una verginità con il nome di Giovanni Falcone.
Spiega molto bene questo punto Giovanni Brusca nel corso dell’udienza del 6 giugno 2001 nell’ambito del processo d’appello per la strage di Capaci. «... la strage del dottor Borsellino è per me per due motivi: una è per accelerare (la trattativa ndr.), due, che il dottor Borsellino poteva essere l’ostacolo, quello che poteva non garantire quelle trattative che erano state richieste e quindi, un elemento di ostacolo da togliere di mezzo a tutti i costi, visto che non era abbordabile con la corruzione o con qualche altro sistema».
Una ulteriore chiave di interpretazione potrebbe venire dal mistero della cattura di Riina.
Di fatto i colloqui tra De Donno e Ciancimino terminano con l’arresto di quest’ultimo che precede di nemmeno un mese quello del boss. Secondo i ragionamenti di Brusca, il colonnello Mori non ha più bisogno di Ciancimino perché i carabinieri hanno già ricevuto l’imbeccata di pedinare i Ganci per arrivare a Riina.
Mori dichiara che fu il maresciallo Antonino Lombardo a dare il giusto suggerimento alla squadra del capitano Ultimo che ha portato a termine l’operazione grazie anche al contributo di Di Maggio. E’ giusto, tuttavia mettere in chiaro che, come più volte si è detto, il capitano Ultimo non aveva nessun bisogno dell’imput di Lombardo perché pedinava già da tempo la famiglia Ganci.
In questo contesto che presenta ancora oggi molti «vuoti», «elementi oscuri», pezzi importanti del mosaico mancanti per raggiungere la verità, le procure di Palermo e di Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta giudiziaria proprio per accertare i reali termini della trattativa che intercorse tra pezzi dello Stato e mafia.
Certo è che, se si osserva e, senza neanche troppa attenzione, la produzione legislativa dei governi di centro sinistra e centro destra dal 1992 a oggi - anni di stragi, dolori, emergenze e «normalizzazioni», equilibrati fortunatamente dai successi riportati da magistrati e forze dell’ordine in prima linea nella lotta alla mafia (arresto di Riina e altri boss, ergastoli ecc.) - si noterà che non solo il papello è stato accolto in pieno, prima fra tutte la inadeguata legge sui pentiti, ma si è andati ben oltre con le ultime incredibili regalie quali l’abolizione del falso in bilancio, la modifica della legge sulle rogatorie e il rientro dei capitali esteri.
Parlare di Sicilia oggi significa riferirsi ad un’intera regione italiana che ha votato all’unanimità per il centro destra, e al progetto miliardario di agenda 2000 che sta per versare nelle casse siciliane migliaia di miliardi per la realizzazione di progetti edili.
La mafia di Provenzano, latitante indisturbato da 40 anni, tace e in silenzio prolifera, serena e garantita, forse da «persone importanti». Così come la ‘Ndrangheta.
Fine prima parte. Continua nel prossimo numero: La trattativa, alla ricerca della verità.
Giorgio Bongiovanni
ANTIMAFIADuemila N°18