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Trattiamo
«...se tu vai a colpire un patrimonio artistico o vai a fare... tipo vai a mettere le siringhe in una spiaggia, colpisci il turismo... e quindi un fatto economico non indifferente».
«Ma se un giorno la torre di Pisa non la troverete più all’impiedi, come vi sentireste?»
Paolo Bellini è un traffichino di opere d’arte.
Conosce Antonino Gioè, uomo d’onore della famiglia di Altofonte, mentre è detenuto nel carcere di Sciacca, sotto falso nome.
Si ritroveranno poi a Palermo, all’Ucciardone, dove stringeranno ulteriormente la loro amicizia per poi mantenersi in contatto.
Bellini esce dal carcere e nel 1991 si reca in Sicilia per effettuare il recupero di alcuni crediti. Chiama il Gioè, di cui aveva compreso la caratura, per farsi dare «una mano d’aiuto». I due si rivedono con piacere e tra una cosa e l’altra Bellini chiede a Gioè se sia in grado di reperire la refurtiva, frutto di una rapina di opere d’arte, probabilmente ad opera della mafia del Brenta, che potrebbe essergli utile al fine di alleggerire la condanna definitiva che da lì a breve avrebbe dovuto scontare.
Gioè gli dà la sua disponibilità.
Nell’estate del 1992, a San Benedetto del Tronto, Bellini incontra il maresciallo Roberto Tempesta, del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri, che gli chiede se possa rintracciare dei quadri della Pinacoteca di Modena, di un certo valore.
Gli consegna poi una busta arancione contenente le fotografie delle opere da ritrovare.
Bellini non solo garantisce che si adopererà, ma gli dice di essere nelle condizioni di potersi infiltrare all’interno della mafia siciliana.
Quindi ricontatta il Gioè che spiega subito di non poter far nulla per quei pezzi indicati nelle polaroid, ma che, invece, può consegnare opere di più elevato valore. In cambio chiede gli arresti ospedalieri o domiciliari per alcuni detenuti di suo interesse. (Bernardo Brusca, Giuseppe Giacomo Gambino, Giovanbattista Pullarà, Pippo Calò e Luciano Liggio e forse qualcun altro...)
Siamo, infatti, nel periodo posteriore alle stragi, è già stato attuato l’inasprimento del 41 bis e i mafiosi sono soggetti a restrizioni fino ad ora inimmaginabili.
E’ Giovanni Brusca a muovere le fila dietro le richieste di Gioè e, dietro di lui, Salvatore Riina.
Il Bellini riferisce al Tempesta della conversazione avuta con il mafioso. Il 28-29 agosto 1992 il maresciallo informa il suo superiore, il colonnello Mori, della trattativa in corso e gli consegna il bigliettino di richieste di scarcerazione.
La posta in gioco è troppo alta, Tempesta nega la possibilità di alcuno scambio, Bellini dice a Gioè che forse esiste una possibilità per il solo Bernardo Brusca.
Bellini cerca altre vie, ma anche l’ispettore Procaccia della DDA di Milano non accetta il compromesso.
Il 30 dicembre 1992 Gioè e Bellini si sarebbero dovuti rincontrare a Palermo. Ma temendo di essere pedinato Bellini non si reca all’appuntamento. Non si vedranno mai più.
Fin qui, nella ricostruzione generale degli eventi, i testimoni sentiti dalle varie procure concordano.
Ma sono diversi i particolari tralasciati o contraddittori che emergono e sui quali i procuratori hanno potuto approfondire le varie ipotesi di indagine.