di AMDuemila
Depositate le motivazioni della sentenza: “E’ stato pestato perché non conforme a Cosa nostra”
"Una punizione che, per le modalità attuative è la notorietà della vittima designata, doveva assumere una evidente valenza simbolica e dimostrativa, rivolta non già al solo professionista direttamente coinvolto ma anche all'intera avvocatura palermitana". E’ questa la ragione per cui, secondo la prima sezione della Corte d’Assise di Palermo, Cosa nostra ha aggredito l’avvocato penalista Enzo Fragalà, pestato la sera del 23 febbraio 2010 e morto tre giorni dopo in ospedale. I giudici hanno depositato venerdì le motivazioni della sentenza che lo scorso 23 marzo ha visto le condanne di Antonino Abbate, Francesco Arcuri, Salvatore Ingrassia e Antonino Siragusa e le assoluzioni di Francesco Paolo Cocco e Francesco Castronovo. Secondo la corte presieduta da Sergio Gulotta (giudice a latere Monica Sammartino), dunque, Enzo Fragalà è stato pestato per dare un monito all’avvocatura di Palermo. "Intento precipuo di Cosa Nostra, all'uopo palesato anche dal diretto coinvolgimento nei fatti di esponenti di spicco dell'organigramma criminale - si legge nella sentenza - era quello di impartire una punizione al professionista, 'reo' di avere assunto in procedimenti penali per reati di mafia posizioni non conformi agli interessi del sodalizio e perciò appellato quale 'sbirro'. Colpevole dunque di avere esercitato liberamente il proprio mandato difensivo, senza condizionamenti esterni e secondo i canoni deontologici". I giudici, che hanno dato per certa la responsabilità di Cosa nostra nel delitto, hanno sottolineato come "una siffatta azione violenta in danno di un avvocato di tale caratura e visibilità", "in un contesto come quello palermitano connotato da una pervicace infiltrazione mafiosa, non può trovare alcuna plausibile spiegazione se non proprio nel diretto coinvolgimento della stessa organizzazione criminale". Per la corte Fragalà doveva essere punito per il suo modo di lavorare, incompatibile con le regole di Cosa Nostra, "quali l'omertà e la reciproca assistenza". Una "crescente insofferenza nei confronti del legale", "anche a livelli alti della gerarchia mafiosa", alimentata dal convincimento dell'organizzazione criminale che "nell'ultimo periodo, nei procedimenti per reati di mafia, si comportasse da 'sbirro', inducendo i propri assistiti a rendere dichiarazioni ammissive". Un comportamento che, sottolinea la sentenza, "nell'ottica distorta dell'organizzazione mafiosa non poteva che apparire quale un vero e proprio tradimento". "Solo una così grave motivazione - conclude la Corte - può giustificare un così grave atto delittuoso ai danni di un avvocato di tale caratura impegnato anche in delicati processi per reati di criminalità mafiosa. Le sue scelte processuali potevano mettere in discussione l'autorevolezza dell'associazione mafiosa”.
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