di Karim El Sadi
In aula l’imputato Siragusa chiede perdono ai famigliari dell’avvocato
"Chiedo perdono alla famiglia dell'avvocato Enzo Fragalà. Ho fatto molti errori che ho pagato. Ora sono rimasto solo, ma sono più sereno e ho trovato finalmente il coraggio di dire tutto e di rinnegare la mia appartenenza a Cosa nostra". Ha avuto inizio con un colpo di scena, l’ennesimo di questo lungo e complesso dibattimento, l’udienza dedicata alla requisitoria del processo contro gli esecutori dell’omicidio Fragalà, l’avvocato aggredito a bastonate a Palermo la notte del 23 febbraio 2010 e deceduto tre giorni dopo. A parlare, anticipando la requisitoria, è stato Antonino Siragusa, mafioso autoaccusatosi di aver contribuito all'omicidio del penalista e che da circa un anno collabora con i magistrati nonostante questi non gli abbiano riconosciuto lo status di collaboratore di giustizia perché ritenuto “inattendibile”. Rendendo dichiarazioni spontanee lo scorso 9 gennaio l’imputato Siragusa ha confermato quanto dichiarato finora ai pubblici ministeri chiarendo però alcuni aspetti della vicenda che lo riguarda. “Ho avuto modo di riflettere a lungo sui miei interrogatori e mi sono reso conto di aver commesso errori nell’esporre i fatti accaduti” ha detto leggendo una lettera. Pertanto “ora che ho trovato finalmente il coraggio di chiudere col passato, sento di rivelare quanto a mia conoscenza sulla vicenda”. Per cominciare l’imputato ha voluto precisare che le sue dichiarazioni “sono di prima mano, cioè quelle di una persona che è stata presente in tutte le fasi che hanno determinato la morte dell’avvocato Fragalà”, mentre quelle di Francesco Chiarello, il pentito che di fatto con la sua collaborazione ha consentito la riapertura dell'inchiesta e l'incriminazione degli imputati, sarebbero “dichiarazioni provenienti da un soggetto estraneo ai fatti per cui le conoscenze sull’accaduto sono de relato”. Per questo motivo, ha messo le mani avanti Siragusa, “se esistono delle differenze tra il mio narrato e quello del Chiarello questo non può di certo essere addebitato alla mia persona quanto invece ai racconti non diretti di cui il Chiarello è in possesso”. “Desidero quindi - ha proseguito - fare ammenda su alcune dichiarazioni che possono essere state considerate errate o addirittura false”.
Testimonianze asimmetriche
Dopo le dichiarazioni spontanee di Siragusa si è poi passato ai pubblici ministeri Francesca Mazzocco e Bruno Brucoli. A loro il compito di ricostruire l’andamento dei fatti, dalla fase preliminare a quella esecutiva, basandosi su risultanze documentate della procura e sulle varie testimonianze sin qui acquisite. Fatti che, se comparati con quelli dell’imputato Siragusa, come si è dimostrato durante la requisitoria, presenterebbero varie asimmetrie. Su questa linea il primo grande punto preso in analisi dal pm Bruno Brucoli è proprio quello delle dichiarazioni di primo livello rilasciate dal pentito Chiarello “considerato, da sentenze passate in giudicato, attendibile”. Quella di Francesco Chiarello, interrogato 5 volte dai pm, è una testimonianza de relato perché proveniente da quella dell’imputato Salvatore Ingrassia, uno dei picciotti intervenuti nell’agguato, in quanto quella sera “non vi partecipò dicendo di non sentirsela di fare un pestaggio (ancora non sapeva chi era la vittima, ndr)”. Secondo Chiarello intorno alla scena del crimine ruotavano sei persone che obbedivano agli ordini del capo mandamento di Porta Nuova Gregorio Di Giovanni, ritenuto anche da altri collaboratori il mandante del delitto, a loro volta trasmessi da Francesco Arcuri. Giuseppe Auteri, Francesco Castronovo, Salvatore Ingrassia, Paolo Cocco, Antonino Abbate e Antonino Siragusa. Ognuno di questi aveva una precisa mansione per portare a termine l’azione punitiva contro l’avvocato. Da qui partono le prime incongruenze tra le dichiarazioni di Chiarello, che hanno avuto riscontro con il delicato lavoro di indagine degli inquirenti, e quelle del Siragusa. Per Chiarello a colpire a bastonate Fragalà sono stati lo stesso Ingrassia, colui che gli riportò la dinamica del fatto, e Antonino Siragusa. Quest’ultimo “dava i colpi di mazza mentre Ingrassia teneva la vittima”. Una circostanza, questa, respinta in toto da Siragusa sia durante le dichiarazioni spontanee, che quando è stato sentito in aula nel corso del dibattimento. “Escludo categoricamente che io abbia preso parte al pestaggio” ha detto ai giudici Siragusa il quale ha piuttosto indicato Antonino Abbate come “esecutore materiale” dell’agguato. Abbate invece, secondo Chiarelllo, avrebbe assunto la funzione di palo “gravitando nella zona” e indicando “agli aggressori la vittima una volta uscita dal porticato”. Un altro ruolo che avrebbe assunto Abbate, o quanto meno avrebbe dovuto in un primo momento assumere, è quello di portare via la mazza utilizzata per il pestaggio una volta terminata l’aggressione insieme ad Auteri. Ma invece di stare ai piani dopo il pestaggio “sono scappati via”. Sulla mazza risiede un altro punto di frizione tra la testimonianza del collaboratore di giustizia e quella dell’imputato Siragusa. A detta di quest’ultimo la mazza avrebbe dovuto portarla Castronovo ma quella sera “non essendosi ancora fatto vedere decisi di procuramene una io in un magazzino togliendo la parte metallica di un piccone”. Una volta arrivato davanti lo studio dell’avvocato a bordo della sua Smart “la consegnai ad Abbate che nel frattempo salì in macchina”. Per Chiarello invece il compito di procurare la mazza era stato assegnato all’altro imputato Paolo Cocco, genero di Ingrassia. E questo, ha affermato il pubblico ministero Brucoli, “è stato un dato inedito riferito dal Chiarello che ha avuto riscontro nelle intercettazioni”.
Le telecamere di sicurezza nella zona dell'agguato riprendono un uomo che impugna una mazza
Siragusa, prima che iniziasse in aula la requisitoria aveva inoltre affermato non solo di non aver materialmente assalito il penalista Fragalà, ma dalla sua Smart, che aveva parcheggiato nei pressi dello studio del legale in via Niccolò Turrisi, ha sostenuto di non “essere sceso sul marciapiede” nelle fasi concitate dell’agguato. “Dalla posizione in cui ero posteggiato - ha affermato - non riuscivo bene a vedere in effetti cosa accadeva, anche per la presenza di altre auto posteggiate accanto a me”. Di tutt’altro parere è il pm Francesca Mazzocco, che prendendo in analisi i filmati delle telecamere di sicurezza piazzate nella via dello studio di Fragalà, ha dimostrato, parlando di “primo dato fortemente controverso dell’imputato Siragusa”, come questi fosse in realtà fuori dalla vettura gravitando nel marciapiede attorno all’area dell’agguato. In questo senso “gli elementi a favore dell’accusa, la quale ritiene che i soggetti ripresi siano Ingrassia e Siragusa, sono molteplici. - ha detto la Mazzocco - Perché abbiamo l’andatura dinoccolata del Siragusa, che corrisponde effettivamente alla sua, il riconoscimento effettuato da Chiarello che li riconosce come tali e il riconoscimento degli abiti sequestrati a Siragusa perfettamente compatibili con quelli che indossava la persona ripresa in video”. Una versione dei fatti, quella del pm, avallata anche dalle confessioni di Ingrassia stesso il quale, vedendo le immagini delle telecamere sulla zona trasmesse dai notiziari mentre si trovava in carcere, rivelò a Chiarello che i due soggetti ripresi erano lui e Siragusa. Sempre dal periodo di detenzione in carcere si riscontra un ulteriore elemento a favore dell’accusa che metterebbe in discussione il compito che Siragusa ha ammesso di aver assunto nel corso della sua deposizione. “Ingrassia - ha spiegato il pm Brucoli riportando nuovamente le parole del pentito Chiarello - che come Siragusa dice di sentirsi ‘consumato’ a fronte degli elementi emersi a loro carico nelle indagini, durante un periodo di codetenzione con Gregorio Di Giovanni (il presunto mandante dell’agguato, ndr) commenta con questi l’omicidio di Fragalà. Di Giovanni era infastidito per l’epilogo della vicenda e rimproverò Ingrassia per aver coinvolto nell’aggressione Antonino Siragusa, evidentemente - ha affermato Brucoli - ritenuto soggetto inaffidabile”. In un’altra occasione, infatti, “Ingrassia aveva attribuito le cause del decesso a Siragusa” perché avrebbe esagerato nel colpire l’avvocato catanese.
Le confessioni di Cocco a Chiarello
Nei vari interrogatori con i magistrati Chiarello ha anche parlato di quanto a lui riferito da Paolo Cocco, il genero di Ingrassia. Cocco ha rivelato al collaboratore di giustizia altri aspetti strettamente inerenti la fase esecutiva del pestaggio dell’avvocato penalista. Secondo Cocco, come ha riportato l’accusa durante la requisitoria, “Antonino Abbate e Giuseppe Auteri avevano ricoperto una funzione di copertura a bordo di uno scooter Honda Sh di colore bianco e Abbate aveva indicato ai complici la vittima. Ingrassia e Siragusa, presenti nelle immediate vicinanze dell’aggressione avrebbero ricoperto fisicamente la funzione di “schermo” mentre Castronovo e Cocco avevano materialmente aggredito a bastonate il penalista portandosi poi il bastone che loro stessi si erano procurati per infine disfarsene nella zona di Borgo Vecchio”. Queste confessioni Chiarello le ha rese solo più avanti, durante l’ultimo interrogatorio coi pm in data 1° ottobre 2015. Il motivo di questa reticenza è dovuta al fatto che Cocco disse al Chiarello “vedi che anche il tuo compare ‘Coccodrillo’ è ‘consumato’”. Coccodrillo, ha spiegato Brucoli, “è Francesco Castronovo, l’amico fraterno di Chiarello”. Per questo motivo il pentito “confessa di non aver parlato prima, proprio per quel legame intercorso tra i due e soprattutto con la madre di Castronovo, consderata (considerata) da Chiarello addirittura come una seconda mamma”.
La scena del crimine in via Niccolò Turrisi
Il movente: “Quello fa il carabiniere”
Ma perché l’avvocato catanese Francesco Fragalà è stato ucciso? A rispondere a questo quesito fondamentale è stato il pm Francesca Mazzocco che in maniera puntuale ha descritto le ragioni che hanno portato i boss a compiere un atto così crudele. L’omicidio Fragalà è un “fatto gravissimo per il suo significato - ha detto il pm Mazzocco - perché si è aggredito un uomo di legge e un professionista visto da Cosa nostra come un ostacolo perché nel caso di alcuni soggetti ammetteva tra le possibili strategie difensive anche quella di poter collaborare con la giustizia. Cosa che va in contrasto con gli interessi e l’impostazione omertosa di Cosa nostra”. Queste circostanze sono emerse a dibattimento anche “tramite l’esame del collaboratore di giustizia Vara che ha riportato un malcontento all’interno dell’organizzazione criminale verso l’avvocato, e quella del collaboratore Prestigiacomo”, entrambi assistiti da Fragalà quando era ancora in vita. Prestigiacomo, difeso da Fragalà, aveva riferito a processo, ha rammentato la Mazzocco, di aver “fatto proprio con Fragalà le prime ammissioni prima di diventare collaboratore” quindi quando chiese di “essere sentito dagli inquirenti nel periodo della sua carcerazione, gli altri detenuti gli dicevano che 'l’avvocato Fragalà ti porterà a collaborare' e lo 'insultavano per questo'”. Uno di questi detenuti che tentò di dissuadere Prestigiacomo a non collaborare fu “Giuseppe Casella che era con me detenuto, cercava di convincermi di cambiare avvocato sostenendo che Fragalà poteva indurmi a collaborare con la giustizia. Anche Filippo Bisconti e altre persone detenute mi dicevano di cambiare avvocato perché lo ritenevano ‘sbirro’ e a furia di farmi interrogare mi dicevano che mi avrebbero fatto pentire della mia scelta”. Lo stesso Antonino Siragusa, come ha fatto notare il pm, aveva ammesso che “Fragalà doveva essere colpito perché era un carabiniere”.
Il movente: “Mi voleva proteggere, oltre che difendere”
Ma c’è un’altra “vicenda significativa” che ha portato Cosa nostra a “trasformare questo collettivo malcontento in un omicidio efferato”. L’accusa è riuscita ad individuarla cronologicamente “a pochi giorni dall’agguato”, ha spiegato la Mazzocco. Fragalà aveva avuto come suoi assistiti due imputati, Salvatore Fiumefreddo e Vincenzo Marchese, “accusati di riciclaggio e intestazione fittizia di beni a favore di Antonino Rotolo, anche lui imputato”. Fiumefreddo aveva reso un interrogatorio “molto significativo riportato addirittura sui giornali in cui sostanzialmente affermava di essere stato tirato dentro in buona fede in questa operazione di riciclaggio” accusando, pertanto, Rotolo di averlo coinvolto. La vicenda è importante, ha voluto sottolineare l’accusa, perché “il legame Antonino Rotolo con il processo è fortissimo in quanto questi è a capo del mandamento di Pagliarelli che al tempo si muoveva in modo congiunto con quello di Porta Nuova”. L’uomo di fiducia di Ruotolo, ha aggiunto il pm, “è Nicchi e questi si appoggiava ad Arcuri per la sua latitanza. Per cui il legame Rotolo-Nicchi-Arcuri è strettissimo. E come sappiamo a capo del mandamento di Porta Nuova in quel momento abbiamo Gregorio Di Giovanni, quindi un legame che coinvolge tutti questi soggetti”, ha commentato la Mazzocco. “Ma ancora più significativa”, hanno sostenuto i magistrati, è la vicenda che riguarda l’altro imputato difeso da Fragalà, Vincenzo Marchese. In breve “era successo che Marchese aveva investito delle somme di denaro, che gli era stato detto provenire da una vincita al lotto, per conto di Antonina Sansone, moglie di Rotolo. Egli non aveva quindi compreso che fossero da ricondurre al marito e quando venne colpito dalla misura cautelare si rese conto che in realtà quelle somme non provenivano da una vincita ed era stato quindi coinvolto in un episodio di riciclaggio”. “Il Marchese - ha continuato il magistrato - aveva trovato una lettera scritta, come depositò Loredana Lo Cascio collaboratrice di Fragalà, dalla moglie di Rotolo in cui si confermava che il Marchese avesse agito sostanzialmente in buona fede”.
“E’ importante anche - ha continuato il pm - che nel processo sono emerse le perplessità iniziali dell’avvocato riferite dal Marchese”. Fragalà infatti, come ha riportato il magistrato, “diceva al Marchese di volerlo difendere ma anche proteggere in quanto l’utilizzo della lettera (in aula, ndr) era qualcosa che esponeva sia Marchese che Fragalà a delle precise ritorsioni”. Di lì a poco all’udienza del 19 febbraio 2010, quindi a distanza di quattro giorni dall’aggressione in via Niccolò Turrisi, “fu letta la lettera e furono pronunciate parole dure nei confronti di Antonino Rotolo che aveva esposto il Marchese a delle conseguenze gravi derivanti dall’investimento di quelle somme di denaro - ha detto in aula il pubblico ministero -. In quel momento l’avvocato Fragalà si è messo proprio in contrasto con gli interessi dell’organizzazione mafiosa e ha probabilmente determinato la decisione irrevocabile di dargli una punizione esemplare per aver osato contrapporsi agli interessi mafiosi”. In questo senso il pestaggio va letto come “un segnale che viene mandato non solo a Fragalà ma all’intero Foro degli avvocati di Palermo come per segnalare anche a loro di non permettersi di sollevare critiche all’operato dei vertici mafiosi come Antonino Rotolo”. In ultima analisi l’accusa ha spiegato che “a fronte di questo movente articolato e condiviso da più fronti, incluso quello dei collaboratori di giustizia, appaiono risibili gli altri moventi avanzati nel corso del processo. Come la tesi del delitto d’onore spesso utilizzato - ha concluso la Mazzocco - per giustificare fatti di sangue commessi dalla mafia che in questo caso non regge assolutamente”.
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