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Oggi, cosa avrebbe detto?

Il 3 marzo di quest’anno è stata presentata alla procura di Roma un’istanza per la riapertura delle indagini sulla morte di Pier Paolo Pasolini, avvenuta all'Idroscalo di Ostia il 2 novembre del 1975. A depositarla è stato l'avvocato Stefano Maccioni, a nome del regista David Grieco e dello sceneggiatore Giovanni Giovannetti: nell'atto si chiede ai pm di piazzale Clodio di approfondire in modo più compiuto la questione legata ai tre Dna individuati dai carabinieri del Ris nel 2010 sulla scena del crimine. I presentatori dell'istanza di riapertura del fascicolo aggiungono che "nella prima indagine questo si è fatto in modo parziale, vennero esaminati circa 30 Dna ma oggi è tempo di fare verifiche più diffuse tenendo presenti anche le dichiarazioni di Maurizio Abbatino, esponente della Banda della Magliana, che alla Commissione Antimafia dà una giustificazione sul perché Pasolini si recò all'Idroscalo di Ostia: non era lì per consumare un rapporto sessuale occasionale con Pino Pelosi (l'unico condannato definitivamente a 9 anni e 7 mesi, ndr), con il quale lo scrittore aveva una relazione, ma per riottenere le bobine del film 'Salò, le 120 giornate di Sodoma' che gli erano state sottratte e a cui teneva tantissimo". Per Maccioni, Grieco e Giovannetti Pasolini venne "attratto in una trappola e lì venne aggredito a morte. Nell'istanza di centinaia di pagine forniamo molti elementi, tante tessere che i magistrati devono mettere insieme".
Sul presunto coinvolgimento della banda della Magliana "c'è un'ombra importante, perché il testimone chiave, lo dico dal 2015, Ubaldo De Angeli, era il proprietario del bar dove la banda della Magliana si ritrovava", ha aggiunto il legale. "Ora confidiamo in un'attività di indagine per incrociare i dati che ci sono: le evidenze ci sono e sono moltissime ma vanno esaminate. Occorre sentire bene Maurizio Abbatino e anzi, lanciamo un appello perché chi sa parli: lui sa molto e può dare ancora importanti piste".
Nella relazione della commissione Antimafia si sottolineava che ci sono state inchieste di giornalismo investigativo che hanno “definitivamente sgretolato l’iniziale ipotesi, purtroppo allora sostenuta dai mezzi di comunicazione e da alcune pronunce giurisdizionali, secondo cui l’assassinio dello scrittore sarebbe stato solo il tragico esito di un incontro sessuale sfociato estemporaneamente in una aggressione da parte di un unico individuo e cioè Pino Pelosi”. Ripercorrendo recenti lavori di ricerca, l’Antimafia ha ricordato “omissioni particolarmente gravi” rispetto agli “accertamenti immediati che si sarebbero dovuti svolgere” come “la mancata audizione dei testimoni che abitavano nelle baracche della zona e che avevano udito quanto avvenuto quella notte e che avrebbero sin dal principio dato conto dell’evidenza che l’aggressione fu condotta da numerose persone” o “la mancanza, dopo l’omesso confinamento della zona ove il delitto era avvenuto, di approfondite perizie sulle gravi ferite riportate da Pasolini e sui mezzi con i quali queste erano state inferte”.
Tutti elementi che, rileggendoli, scuotono gli animi e riaccendono la scintilla di chi, come Pasolini, ama la giustizia, la vera Politica e la Cultura.
La sua morte ha portato con sé un vuoto. E non solo per i troppi lati rimasti oscuri nel delitto.
La collega Simona Zecchi, nello splendido libro "Pasolini. Massacro di un poeta" evidenziava le vicissitudini di quell'omicidio politico, la strategia del linciaggio e le mistificazioni che si sono consumate dietro all'intera vicenda.
Quarantasette anni dopo possiamo sicuramente dire che la verità ufficiale non ha dato tutte le risposte. Perché si è consumato il delitto? Chi ha voluto quel delitto? Quali sono le cause che hanno portato alla sua morte? Perché Pier Paolo Pasolini era così scomodo?
Certamente, e senza dubbio alcuno, ci è permesso puntare il dito contro quel sistema di potere che è stato l’artefice della strategia della tensione. Il ’tessitore’ di quel filo nero che lega le stragi in Italia: Milano (Piazza Fontana) 12 dicembre 1969, la strage della questura di Milano, 17maggio 1973, la strage di Gioia Tauro del 22 luglio '70, la strage di Peteano del 31 maggio '72, la strage della Questura di Milano del 17 maggio '73, la strage di Piazza della Loggia a Brescia il 21 maggio '74, la strage del treno Italicus del 4 agosto '74, la strage di Bologna del 2 agosto 1980, la strage del Rapido del 904 del 23 ottobre '84".
Alcune di queste hanno avuto, come dimostrato da sentenze ormai passate in giudicato, la coordinazione della mano invisibile della loggia P2.
Che Pasolini fosse una figura scomoda era evidente da tempo. Nel 1973 aveva iniziato a collaborare anche con il “Corriere della Sera” scrivendo articoli sulle problematiche del Paese. Come già evidenziato quei suoi scritti "corsari" erano sferzanti contro l'intero Potere del tempo, senza sconti.
L’ultima sua opera incompiuta, "Petrolio", pubblicata postuma nel 1992, evidenziava le connessioni tra l’ENI, la P2 e lo Stato con riferimenti sull’assassinio di Mattei e sui servizi segreti deviati.
Era questo lo Stato di quel tempo attraversato dall’ombra di Licio Gelli e di un partito, la Democrazia Cristiana, il cui referente per eccellenza, Giulio Andreotti, aveva avuto rapporti con i cugini Salvo, con la corrente andreottiana della Dc in Sicilia e Cosa Nostra, con Vito Ciancimino, il faccendiere e criminale Michele Sindona (definito, all’interno della sentenza, un uomo “legato ad autorevoli esponenti dell’associazione mafiosa, per conto dei quali svolgeva attività di riciclaggio”) e con membri di grande peso di Cosa Nostra tra cui l’allora capomafia Stefano Bontate.
Verrebbe da chiedersi cosa avrebbe detto Pasolini in questo tempo attraversato da scandali di ogni tipo e da guerre una più sporca dell’altra.
Sicuramente non sarebbe stato in silenzio, come invece hanno fatto tanti altri intellettuali e politici "sinistroidi" e “perbenisti” che hanno scelto di anestetizzare il proprio spirito critico.
Forse avrebbe ripetuto in faccia a tutta la classe politica quella sua celebre accusa lanciata nel giugno del 1975 contro i vertici della potentissima DC: “Indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, convivenza con la mafia, alto tradimento in favore di nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna, distruzione paesaggistica ed urbanistica dell’Italia, responsabilità nella degradazione antropologica degli italiani, responsabilità della condizione paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono selvaggio delle campagne, responsabilità dell’esplosione selvaggia della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, magari oltre a tutto il resto, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori”.
Chissà cosa avrebbe detto oggi ad un governo che ha esautorato il Parlamento, minacciato la Costituzione, imbavagliato la Stampa, messo alla gogna la magistratura riducendone l’indipendenza e varato una delle peggiori riforme della giustizia, dopo quella Cartabia, e di contrasto alle mafie. Cosa avrebbe detto davanti alla “dilagante imbecillità” (parafrasando Gaber) in certi ambienti della politica e della società? Cosa avrebbe detto davanti al massacro dei bambini di Gaza?
No, non sarebbe stato in silenzio. E forse - riprendendo il suo più famoso scritto, pubblicato nel novembre del 1974 che riproponiamo integralmente - avrebbe detto “Io so. E HO LE PROVE”.





Cos’è questo golpe? Io so


di Pier Paolo Pasolini
Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).

Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum”. Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.

Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti.

Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile. Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.

Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.

A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.

Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.

Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All’intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.

Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere.

In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.

È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.

In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità.

È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.

La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.

Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro.

E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni?

È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.

L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.

Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.

Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.

E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti.

E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.

Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.

Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti.

Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori).

Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

Foto di copertina © Letizia Battaglia

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