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di Aaron Pettinari

La mattina del 2 Novembre 1975, in un campo abbandonato in via dell’idroscalo, lungo il litorale di Ostia, una donna scopre il cadavere di Pier Paolo Pasolini.
L’unico colpevole riconosciuto per quello che può essere definito come un "massacro" ad oggi è Giuseppe Pelosi, il diciassettenne che venne fermato dai carabinieri in quella tragica notte, prima del ritrovamento del cadavere, alla guida di una Giulietta 2000.
L’auto è quella di Pasolini, soltanto dopo averla tradotta presso il cortile della caserma del luogo, come indicato nei verbali, uno dei carabinieri si accorse del dato.
In un primo momento Pelosi confesserà solo il furto dell'auto e in un secondo momento l'omicidio. Il Pelosi raccontò che Pasolini l’avrebbe aggredito violentemente con un bastone per aver rifiutato un approccio sessuale e che lui, a quel punto, si sarebbe difeso.
Una versione che non ha mai convinto del tutto. Perché Pasolini non era un violento.
Durante il processo, l'avvocato Guido Calvi, nell’arringa finale, lesse una descrizione autobiografica scritta dalla stessa vittima: “In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza, né fisica, né morale. Non perché io sia fanaticamente per la nonviolenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anche essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza, né fisica né morale, semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura, cioè alla mia cultura…”
Nella sentenza di primo grado Pelosi venne condannato per omicidio, ma i giudici scrissero che ciò sarebbe avvenuto “con il concorso di ignoti”. Nel tempo le indagini su questi ignoti non hanno mai avuto corso e la sentenza in Appello non ha in alcun modo spiegato i motivi per cui il pestaggio fosse stato così efferato e portato al limite estremo.
La sentenza di Cassazione del 26 Aprile del 1979 ha chiuso la vicenda dichiarando Pino Pelosi quale unico colpevole del delitto, ma le molteplici anomalie emerse hanno rafforzato il convincimento che la verità non è stata ancora scritta.
Troppi i lati rimasti oscuri.
La collega Simona Zecchi, nello splendido libro "Pasolini. Massacro di un poeta" evidenziava le vicissitudini di quell'omicidio politico, la strategia del linciaggio e le mistificazioni che si sono consumate dietro all'intera vicenda.
E nei giorni scorsi anche l'avvocato della famiglia Stefano Maccioni è tornato a porre degli interrogativi e chiedendo la riapertura delle indagini, guardando in particolare alle tracce di Dna rimaste fin qui ignote e rinvenute in una serie di reperti.
Perché si è consumato il delitto? Chi ha voluto quel delitto? Quali sono le cause che hanno portato alla sua morte?
Quarantacinque anni dopo l'unico dato certo è che la verità ufficiale fin qui decantata non è credibile.
Perché era così scomodo?
L'essere di Pier Paolo Pasolini ha avuto un'evoluzione nel corso del tempo attraversando il ruolo dello scrittore, del regista cinematografico, poeta, narratore, filosofo, intellettuale impegnato e giornalista.
E lo è stato in un tempo attraversato dalla P2 di Licio Gelli; dai sequestri al nord e a Roma utilizzati come strumento di destabilizzazione del Paese; dalla strategia della tensione intrisa di terrorismo rosso e nero; dagli scandali sul petrolio sui quali anche Pasolini indagava, per usarli da sfondo nella sua ultima opera incompiuta, "Petrolio", pubblicata postuma nel 1992 in cui venivano evidenziate le connessioni tra l’ENI, la P2 e lo Stato con riferimenti sull’assassinio di Mattei e sui servizi segreti deviati.
Ma che Pasolini fosse una figura scomoda era evidente da tempo. Nel 1973 aveva iniziato a collaborare anche con il “Corriere della Sera” scrivendo articoli sulle problematiche del Paese. Quei suoi scritti "corsari" erano sferzanti contro l'intero Potere del tempo, senza sconti. Nel giugno del 1975, ebbe il coraggio di puntare il dito contro i vertici della potentissima democrazia cristiana, affermando che dovevano essere portati davanti ad un processo penale con una serie di accuse di natura morale: “Indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, convivenza con la mafia, alto tradimento in favore di nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna, distruzione paesaggistica ed urbanistica dell’Italia, responsabilità nella degradazione antropologica degli italiani, responsabilità della condizione paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono selvaggio delle campagne, responsabilità dell’esplosione selvaggia della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, magari oltre a tutto il resto, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori”.
Di seguito, per onorare la memoria di uno dei più grandi intellettuali rivoluzionari che abbiamo avuto nel corso della storia, proponiamo quello che probabilmente rimane il suo più famoso scritto, pubblicato nel novembre del 1974.
Parole ancora oggi contemporanee e che indicano la coraggiosa via che si dovrebbe seguire se si vuole essere liberi cittadini e pensatori.


pasolini copyright letizia battaglia 3


Cos’è questo golpe? Io so
di Pier Paolo Pasolini

Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).

Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum”.

Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.

Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti.

Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile. Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.

Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.

A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.

Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.

Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.



Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere.

In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.

È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.

In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità.

È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.

La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.

Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro.

E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni?

È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.

L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.

Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.

Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.

E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti.

E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.

Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.

Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti.

Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori).

Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

Foto © Letizia Battaglia

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