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“Indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, convivenza con la mafia, alto tradimento in favore di nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna, distruzione paesaggistica ed urbanistica dell’Italia, responsabilità nella degradazione antropologica degli italiani, responsabilità della condizione paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono selvaggio delle campagne, responsabilità dell’esplosione selvaggia della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, magari oltre a tutto il resto, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori”.
Sono queste le accuse, di natura sociale, morale e culturale che Pier Paolo Pasolini, intellettuale scomodo, nel giugno del 1975 aveva il coraggio di lanciare contro i vertici della potentissima democrazia cristiana. Uno scritto in cui affermava che questi soggetti politici dovevano essere portati davanti ad un processo penale. 
Chissà cosa avrebbe detto oggi di questo nuovo governo che è intervenuto con il decreto legge 434-bis, sulla carta per "colpire" i rave party, ma con il rischio altissimo (denunciato da più componenti) che lo stesso possa essere interpretato in maniera estensiva ed applicato ad altri ambiti, come le occupazioni di edifici e perfino delle università. Abbiamo ancora negli occhi ciò che è avvenuto avvenuto di recente alla facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, con i ragazzi che protestavano contro il convegno al quale erano stati invitati Daniele Capezzone e Fabio Roscani, presidente di Gioventù nazionale. Proteste che, peraltro, sono finite con scontri e tanto di manganellate da parte delle forze dell’ordine.
No, non sarebbe contento Pasolini. 
E probabilmente non sarebbe contento nemmeno dell'idea di innalzare il tetto del contante a diecimila euro (ritenuto da molti come un favore a mafie ed evasori), o del rinnovamento senza discussioni del Memorandum di intesa sulla migrazione tra Italia e Libia, nonostante gli appelli delle Ong. 
Forse avrebbe condiviso le parole pronunciate in Senato da Roberto Scarpinato quando ha chiesto alla neo Premier Giorgia Meloni come potesse coniugare il giuramento di fedeltà alla Costituzione "con il fatto nel suo pantheon di riferimento ci fosse Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo e uno degli strateghi della strategia della tensione, e come mai definisse Gianadelio Maletti un uomo di Stato, nonostante la condanna in via definitiva per favoreggiamento degli autori della strage di Piazza Fontana".
Sicuramente non sarebbe stato in silenzio, come invece hanno fatto tanti altri intellettuali e politici "sinistroidi" che hanno scelto di anestetizzare il proprio spirito critico. 
Pier Paolo Pasolini ancora oggi è un faro che accende l'animo di chi ama la Politica e la Cultura. 
Con il suo testo "Le Ceneri di Gramsci" Pasolini aveva evidenziato il cambiamento sociale che era in corso. Fino a giungere allo sfacelo della nostra classe dirigente. 
Ecco perché ricordarlo oggi, nel giorno in cui venne scoperto il suo corpo in un campo abbandonato in via dell’idroscalo, lungo il litorale di Ostia, diventa necessario.
Anche per metterci in discussione, guardarci dentro e magari trovare quel coraggio di indignarci una volta ancora. 
La morte di Pasolini ha portato con sé un vuoto. E non solo per i troppi lati rimasti oscuri nel delitto. 
La collega Simona Zecchi, nello splendido libro "Pasolini. Massacro di un poeta" evidenziava le vicissitudini di quell'omicidio politico, la strategia del linciaggio e le mistificazioni che si sono consumate dietro all'intera vicenda.
Quarantasette anni dopo possiamo sicuramente dire che la verità ufficiale non ha dato tutte le risposte. Perché si è consumato il delitto? Chi ha voluto quel delitto? Quali sono le cause che hanno portato alla sua morte? Perché Pier Paolo Pasolini era così scomodo?
Come scrittore, regista cinematografico, poeta, narratore, filosofo, intellettuale impegnato e giornalista Pasolini era indubbiamente scomodo ed inviso ad un certo Potere. 
E lo è stato in un tempo attraversato dalla P2 di Licio Gelli; dai sequestri al nord e a Roma utilizzati come strumento di destabilizzazione del Paese; dalla strategia della tensione intrisa di terrorismo rosso e nero; dagli scandali sul petrolio sui quali anche Pasolini indagava, per usarli da sfondo nella sua ultima opera incompiuta, "Petrolio", pubblicata postuma nel 1992 in cui venivano evidenziate le connessioni tra l’ENI, la P2 e lo Stato con riferimenti sull’assassinio di Mattei e sui servizi segreti deviati.
Ma che Pasolini fosse una figura scomoda era evidente da tempo. Nel 1973 aveva iniziato a collaborare anche con il “Corriere della Sera” scrivendo articoli sulle problematiche del Paese. Come già evidenziato quei suoi scritti "corsari" erano sferzanti contro l'intero Potere del tempo, senza sconti. 
Di seguito, per onorare la sua memoria proponiamo quello che probabilmente rimane il suo più famoso scritto, pubblicato nel novembre del 1974.
Parole che sono ispirazione per tutti coloro che vogliono sentirsi liberi in mente, corpo e spirito. 





Cos’è questo golpe? Io so

di Pier Paolo Pasolini

Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum”.Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti.
Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile. Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.
Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All’intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere.
In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.
In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità.
È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro.
E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni?
È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti.
E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti.
Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori).
Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

Foto di copertina © Letizia Battaglia

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