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Nel 1973 le forze armate guidate di Pinochet rovesciarono il presidente socialista. Il paese cadde in un oblio da cui ancora fatica a tirarsi fuori

Mezzo secolo. Tanto è passato da quell’indimenticabile 11 settembre 1973 in cui, con un colpo di Stato, venne deposto il presidente socialista Salvador Allende e instaurata, in Cile, la dittatura.
Un regime che durò diciassette lunghissimi anni e vide la morte e la scomparsa di almeno 40.000 cileni, la brutale tortura di altre migliaia e persino il sequestro di bambini di prigioniere politiche. Creature poi consegnate a famiglie dei gerarchi militari e da queste cresciuti e allevati ignari delle loro origini.
Il golpe condotto dal Generale Augusto Pinochet fu feroce. E rappresentò probabilmente il punto più alto di quella strategia del terrore che negli anni sessanta e settanta portarono al potere in Sudamerica dittature militari con il sostegno della CIA; si trattava del cosiddetto “Plan Condor”, oggetto dopo alcuni decenni di un processo ai suoi protagonisti realizzato proprio in Italia e che ancora oggi sta portando avanti la sua battaglia di verità e giustizia.
Con quel golpe gli Stati Uniti, con il protagonismo del presidente Richard Nixon e del segretario di Stato Henry Kissinger, vero architetto del “Plan Condor”, nel mondo ancora diviso dai blocchi, riaffermavano con crudeltà che l’America latina restava il cortile di Washington.
Questa fetta di Mondo, infatti, all’inizio degli anni Settanta rappresentava un rischio per via del vento socialista che l’attraversava. Tanto più in Cile, dove un governo democratico guidato da un socialista, quello di Allende per l’appunto, avviava riforme sociali radicali coinvolgendo le classi subalterne.
Con non poche difficoltà dovute a ingerenze esterne, Allende venne eletto presidente nel 1970, appena tre anni prima del colpo di Stato, e aveva proposto la da lui battezzata “via cilena al socialismo”. Un’espressione che polarizzò immediatamente sia le forze interne, sia quelle estere: il suo partito, Unidad Popolar, una coalizione che raccoglieva i fronti di sinistra, si era posto da subito l’obiettivo di arrivare al socialismo in fretta, smarcandosi dalle ingerenze capitaliste degli Stati Uniti.
Del resto il socialismo e il comunismo erano sempre più emergenti e mettevano in discussione il neoliberismo, l’imperialismo USA e lo strapotere delle multinazionali.


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Richard Nixon ed Henry Kissinger


Allende fu la figura politica del momento che più rappresentava questa spinta popolare. Un leader marxista democraticamente eletto in Sudamerica. Un modello ammirato da diverse forze di sinistra in Europa. Per gli Stati Uniti, che cercarono in ogni modo di evitare che venisse eletto tramite sabotaggi sibillini nel Paese, urgeva la necessità di deporlo in ogni modo possibile. Troppo pericoloso lasciarlo alla guida del Cile.
Non vedo alcuna ragione per cui ad un paese dovrebbe essere permesso di diventare marxista soltanto perché il suo popolo è irresponsabile”, disse Kissinger, che in futuro divenne premio Nobel per la Pace, il giorno dell’elezione di Allende. “La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”. Washington, quindi, con Allende capo dello stato, bloccò gli aiuti economici, mentre i servizi segreti tentavano in ogni circostanza di fomentare un’opposizione populista e feroce.
E nonostante l’inflazione inarrestabile (350% alla vigilia del golpe) e un PIL in caduta libera (-5%), il presidente di Unidad Popular non rinunciò neppure circondato, neppure assediato e col destino già scritto a rivolgersi ai suoi, ai lavoratori e alle lavoratrici cui era destinato il suo operato.
Nei progetti di Allende c’era anche, e soprattutto, la nazionalizzazione delle industrie, la lotta ai latifondisti e il recupero della sovranità sulle risorse naturali del Cile - come il rame, per esempio, di cui il paese è ricco. Staccato dal dominio del blocco occidentale, il Cile avrebbe avuto un posto tra le democrazie contemporanee, solido e capace di reggersi sulle proprie gambe, ma la strada non sarebbe stata semplice. Troppe le opposizioni, troppe le implicazioni, troppe le mete invisibili ai miopi, tra cui rientravano anche i lavoratori che, con l’aumento dei prezzi, la paralisi produttiva e la situazione di guerriglia, morivano di fame. Gli Stati Uniti prima crearono il disagio popolare e la fame tagliando ogni possibilità di sviluppo al Paese, poi incolparono Allende di questi fallimenti. Una trappola perfettamente costruita che riuscì nel suo intento aprendo la strada al colpo di mano del golpe. Per gli Stati Uniti il Cile andava ricondotto sulla via del neoliberismo e delle dipendenze dell’impero yankee. Così, quando la dittatura venne istituita, dopo i consiglieri della Cia e gli istruttori militari del Pentagono arrivarono a Santiago, chiamati da Pinochet, i Chicago Boys, i campioni della scuola economica iperliberista di Milton Friedman. Questo fece del golpe cileno un vero e proprio modello violento per imporre il neoliberismo, attraverso le privatizzazioni di tutti i settori dell’economia e dei servizi e la flessibilità del lavoro instaurate grazie alla forza militare.


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Salvador Allende con un gruppo di gente in suo sostegno


Quella mattina di settembre
Ma torniamo al colpo di Stato avvenuto cinquant’anni fa. Alle prime luci dell’alba dell’11 settembre il presidente Allende era stato informato che truppe militari avevano iniziato a marciare verso la capitale, Santiago del Chile.
Nell’arco di poco, intanto, vennero chiuse e poi distrutte le principali stazioni ed antenne radiofoniche per tagliare le telecomunicazioni. Ne vennero predisposte di nuove che consentissero solo alle Forze Armate di comunicare tra loro e in un secondo momento alla popolazione. Nelle stesse ore alcune navi della Marina militare cilena occuparono il porto chiave di Valparaíso e nella capitale, alcuni colonnelli golpisti si insediarono al quinto piano del ministero della difesa, fondamentale per coordinare il colpo di Stato. Lo stesso venne fatto nell’Accademia dell’Areonautica Militare Cilena (FACH) e nella Scuola delle Telecomunicazioni, dove a insediarvisi fu Pinochet in persona. In quelle prime ore il Presidente Allende e il ministro della Difesa Orlando Letelier non avevano idea di cose stesse realmente accadendo. Ricevettero informazioni parziali sul golpe e pensavano che solo una parte della Marina avesse cospirato contro il governo. Ma si sbagliavano terribilmente, il golpe coinvolgeva tutte le Forze Armate e a guidarlo era proprio il generale Pinochet, che Allende stesso aveva nominato un mese prima a capo dell’esercito. Allende chiamò al ministero della Difesa chiedendo spiegazioni, ma senza risultato. Passarono pochi minuti e il presidente lasciò la sua abitazione di Calle Tomás Moro per recarsi al Palazzo de La Moneda, sede del governo, da dove non fece più ritorno. L’operazione si svolse in un baleno. Con una precisione certosina gli uomini di Pinochet avevano tagliato ogni possibilità per Allende e il suo governo di ribaltare la situazione. Alle 7 di mattina il Palazzo del Governo era già circondato dalle truppe ribelli e alcuni collaboratori del presidente furono arrestati. In manette finirà subito anche il ministro della Difesa Letelier che sarà il primo detenuto di una lunghissima lista della nascente dittatura. Allende era praticamente solo e pensò di rivolgersi al Paese per informarlo del golpe tramite radio Corporación, una delle radio del partito Socialista ancora in piedi. La speranza del presidente fu che la rivolta si limitasse solo alla Marina e a Valparaíso. Di risposta i golpisti parlarono a loro volta ai cileni per radio: “Le Forze Armate e i Carabineros del Cile sono uniti nell’iniziare la storica e responsabile missione di lottare per la liberazione del Paese dal giogo marxista e il ripristino dell’ordine e delle istituzioni”, affermò il Tenente Colonnello Roberto Guillard. Seguirono i primi colpi di fucile in città. I golpisti esortarono Allende ad arrendersi e abbandonare il Paese. Ci provarono più volte, ma il leader marxista era fermo nella sua volontà. “Non lo farò”, rispose senza indugi. "Rendo presente la mia decisione irrevocabile di continuare a difendere il Cile nel suo prestigio, nella sua tradizione, nella sua norma giuridica, nella sua Costituzione". “Pagherò con la vita la fedeltà del popolo”, aggiunse. E così fece. Il Colonnello Guillard lanciò un ultimo ultimatum annunciando che alle 11 gli aerei avrebbero bombardato La Moneda con Allende dentro. Con le spalle al muro, poco prima che gli Hawker Hunter dell’aeronautica esplosero i primi colpi di artiglieria sull’edificio, Allende lanciò un ultimo toccante e indimenticabile messaggio al popolo:
Lavoratori della mia Patria: ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno il momento cupo e amaro, quel momento in cui è il tradimento a voler imporsi. Dovete sapere che presto si apriranno grandi viali dove passerà l’uomo, libero di costruire una società migliore”.
Fu l’ultima volta che Allende parlò alla sua gente. Passerà un’altra ora e La Moneda, con all’interno il presidente a alcuni uomini di scorta del  “Grupo de Amigos Personal” (GAP), venne asserragliata dalle truppe di Pinochet e poi colpita dai bombardamenti degli aerei.


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Il Generale Augusto Pinochet © Biblioteca del Congreso Nacional


Il presidente ucciso e gli artigli del “Condor”
Dopo mezz'ora di attacco, con il Palazzo del Governo in fiamme, i plotoni irruppero dalla porta del numero 80 di via Morandé. Allende, che nel suo ultimo discorso aveva annunciato che avrebbe pagato con la vita la lealtà al popolo. Ciononostante, Allende e la GAP, non cedettero e decisero, fucile in mano, come documentarono foto di quei momenti poi passate alla storia, di rispondere al fuoco dei golpisti guidati dal generale Javier Palacios incaricato dell’assalto a La Moneda e saliti al secondo piano dove si trovavano il presidente e la scorta. Ci fu uno scontro a fuoco durissimo, partecipato dallo stesso capo di Stato. In quella sparatoria Palacios venne ferito alla mano destra e soccorso dal tenente Armando Fernández Larios, mentre i suoi uomini avanzavano sparando. Qualche attimo più tardi, sotto il fuoco incrociato cadde un uomo in abiti civili e quando i militari si avvicinarono scoprirono trattarsi di Allende. Sarebbe stato il generale Palacios, a quel punto, a estrarre la sua pistola d’ordinanza e finire il presidente sparandogli alla testa. Un’esecuzione in piena regola e non un disperato suicidio come il regime affermava e come tutt’ora molti, purtroppo, sostengono. Del Resto, che Salvador Allende non si fosse crivellato di colpi con il suo Ak-47 lo abbiamo più volte dimostrato riportando testimonianze e perizie. Ad ogni modo, a presidente deceduto, le Forze Armate annunciarono il loro successo: "Missione compiuta. Moneda presa. Presidente morto". Erano le 14 dell'11 settembre 1973 quando le truppe al comando del generale Augusto Pinochet diedero la notizia.
Nixon e Kissinger accolsero l’esito del colpo di Stato con serena soddisfazione e non persero tempo a riconoscere il nuovo governo, al cui comando si autoproclamò il traditore Pinochet. Il “condor” aveva appena affondato gli artigli in Cile. Al Paese attendevano diciassette anni di oblio: crimini indicibili, sparizioni forzate, polizia segreta (la tristemente nota DIMA), centri clandestini di detenzione, persecuzioni e ancora persecuzioni.
Il colpo di stato mise fine a tutti i progetti politici di Allende, e diede inizio a una delle più efferate dittature della contemporaneità. Nei cento giorni che seguirono il golpe vennero fucilate 1.823 persone in caserme e postazioni militari vicino Santiago. I militari rastrellarono gli oppositori, molti dei quali vennero rinchiusi nello stadio, dove vi furono centinaia di casi di tortura. Tra questi si ricorda il cantautore Victor Jara, emblema della “Nueva Cancion Chilena”, seviziato per giorni e e poi giustiziato da alcuni militari solo recentemente condannati. Il 14 settembre, venne sciolto il Parlamento e i partiti politici furono sospesi. La giunta militare si autoassegnò il potere costituente. Nel giugno dell'anno successivo Pinochet fu nominato ''capo supremo della Nazione''. E l’11 settembre del 1980 il regime approvò una nuova costituzione. Quella carta è rimasta pressoché tale cinquant’anni dopo, nonostante un nuovo - non poco controverso - governo di sinistra, quello di Gabriel Boric e un tentativo referendario realizzato per cambiarla. Un referendum che avrebbe dovuto redigere una nuova carta, di stampo socialista, egualitaria, ambientalista e femminista che avrebbe dovuto condurre il Cile verso quel modello di Paese che Allende cercò di raggiungere.

Foto di copertina © Biblioteca del Congreso Nacional

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