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di Elio Collovà

Ho pensato molto in questi ultimi giorni. Ho pensato di immaginare quale poteva essere lo stato d’animo di Silvana Saguto e dei suoi familiari, tutti colpiti più o meno da condanne delle quali la comunità civile, fino ad oggi, ha atteso il responso finale. E posso assicurare che andando in giro, per la città, nelle varie occasioni che ho avuto, ho potuto rilevare, con sorpresa, che l’argomento ha interessato molti cittadini.
Superate le scadenze che hanno timbrato le condanne in primo grado e in appello, ritenevo che la città, ormai paga di quelle sentenze, avesse rimosso la questione. E invece non è stato così: la società civile, ancora memore del torto subìto, è stata attenta e, con immutato spirito di rivalsa, ha atteso anche la sentenza della Suprema Corte. Lo ha fatto quasi per volere sigillare quelle condanne in modo che nessuno possa più rimuoverle e che possano rimanere scolpite nella storia della città a memoria della offesa ricevuta e quale monito per il futuro.
Ovviamente ho pensato anche allo stato d’animo degli altri condannati: Gaetano Cappellano, Francesca Cannizzo, Carmelo Provenzano e tanti altri. Deve essere stato davvero orribile vivere quei momenti finali di avvicinamento alla comunicazione della sentenza della Cassazione. Lo penso perché si tratta di personaggi di spicco, conosciutissimi, che avevano un posto di riguardo nella società civile. E vedersi sprofondare in un inferno dantesco dal quale ormai non ne puoi più uscire, è certamente drammatico e angosciante. C’è di mezzo la propria dignità, il proprio prestigio, tutti quegli elementi valoriali che hanno a che fare con la persona: il proprio posto nella società civile, i rapporti intrattenuti con amici e conoscenti fra i quali ci saranno – come sempre capita – gli innocentisti e i colpevolisti.
L’ho scritto già in un mio precedente articolo: non bisognerebbe mai gioire quando i tribunali emettono un verdetto di colpevolezza. E non (solo) per senso di umanità nei confronti del condannato che, al di là delle sue responsabilità penali, viene privato della libertà – il più grande bene che l’uomo possiede – ma perché se c’è stata una condanna vuol dire che un collegio di giudici ha riconosciuto l’esistenza di un crimine secondo quella che chiamiamo la “verità giudiziaria”. E dunque, in presenza di fatti criminali c’è sempre qualcuno che ne rimane vittima, persone, istituzioni, perfino la società civile.
Non voglio addentrarmi nei dettagli della sentenza perché l’ho già fatto in occasione della pubblicazione dei motivi d’appello. Però non posso fare a meno di rilevare che, nel caso che ci occupa, non uno ma tre collegi giudicanti si esprimono conformemente; e allora forse vuol dire che quei dubbi che in genere circoscrivono la “verità giudiziaria”, si allontanano sempre più per dare spazio a rilevanti certezze.
A questo punto, dopo la pronuncia della Suprema Corte, non possiamo più avere dubbi. Saguto e Cappellano e tutti gli altri personaggi facenti parte del cosiddetto “cerchio magico”, al fine di accrescere il loro potere economico, abusavano della peculiare autorità derivante dal ruolo che ricoprivano, violando i doveri inerenti all’esercizio della funzione pubblica. E la questione appare ancora più grave proprio per la personalità dei soggetti condannati, per la fiducia di cui godevano nella comunità cittadina. Silvana Saguto era considerata un magistrato irreprensibile, determinato, competente e – come essa stessa si è definita – “autoritaria”. Gaetano Cappellano era un avvocato brillante, preparato – del quale la Saguto non si risparmiava di dire mirabilie – aveva uno studio composto da più di venticinque collaboratori. Carmelo Provenzano era un apprezzato docente dell’università Kore di Enna. Insomma, questa condanna vede coinvolte persone non comuni che godevano della stima della popolazione cittadina. Questo è il vero motivo per cui i loro comportamenti scellerati e delittuosi appaiono ancora più gravi di quello che sono intrinsecamente. E questo è il vero vulnus che colpisce la comunità, che cancella quel rapporto di sincera fiducia che si era creato.
Peraltro i fatti delittuosi commessi, anche con molta disinvoltura – ma forse, dopo che la Cassazione ha posto il “giudicato” su detti fatti, è preferibile dire con la consueta perenne “arroganza” – traggono origine da uno stretto rapporto esclusivo, riservato e complice, che ha dato forza a quel sodalizio che ha permesso loro di esercitare uno straordinario potere – autonomo e senza alcun controllo – avvalendosi di devoti soggetti entrati a far parte del “cerchio magico” in cambio di incarichi giudiziari.
La sentenza della Corte di Appello puntualizza in diverse occasioni come del “sistema” Saguto faceva parte anche il marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma. Si potrebbe senz'altro affermare che tale perverso sistema – attraverso un “patto corruttivo”, era in buona parte studiato per conferire legittimamente a Cappellano gli incarichi più importanti e rimunerati in modo che questi potesse a sua volta nominare Caramma all’interno delle amministrazioni giudiziarie. In buona sostanza, secondo i giudici di appello, Saguto e Cappellano avrebbero messo in atto un rapporto di scambi d’interessi e di “utilità” durato nel tempo. La nomina dell’avvocato Cappellano Seminara, sostengono ancora i giudici estensori, “prescindeva da ogni valutazione circa la convenienza e l’opportunità per la realizzazione dei fini propri della procedura e s’inseriva invece, nell’ambito del rapporto di scambio di utilità intercorso tra il magistrato e il professionista”.


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Il Tribunale di Palermo


Molte volte, nel corso della mia esperienza professionale, sono stato costretto a rendermi progressivamente conto di quanto sia depistante culturalmente la presentazione corrente della mafia intesa come una minoranza di criminali costituita da personaggi come Riina, Provenzano, Brusca, i quali hanno operato ai danni della stragrande maggioranza dei cittadini onesti. Secondo questa versione culturale, esisterebbe un confine netto fra la città del male, la città dell’ombra, abitata da mafiosi brutti, sporchi e cattivi e la città della luce abitata dalla maggioranza di quei cittadini, indenni dal male della mafia; ma sarebbe una versione riduttiva del fenomeno; certo può accadere che lungo questa linea di confine, fra la città della luce e la città dell’ombra, si muovano alcuni colletti bianchi, personaggi borderline che stanno un po’ di qua e un po’ di là, e che sono collusi; e tuttavia, secondo questa visione, si tratterebbe pur sempre di alcune mele marce nel paniere delle mele buone, isolate pecore nere.
Ecco! Nonostante tutto, nonostante il racconto di questa storia scellerata e ignobile, non mi sento di condannare tutto il sistema delle misure di prevenzione. Sono personalmente assertore del fatto che questa ignominiosa vicenda sia da annettere a quella presenza di una mela marcia in un paniere di mele buone. Volere considerare la vicenda come un persistente vizio sistemico, operato dai giudici e altri soggetti condannati, non può segnare la validità e l’efficacia del sistema. La sezione misure di prevenzione, al netto di queste poche mele marce, ha operato secondo principi di correttezza, applicando la legge scrupolosamente. E per questo è riuscita ad ottenere brillanti risultati nella lotta alla criminalità organizzata. La triste questione verificatasi ha riguardato solamente un breve periodo (l’ultimo in cui la sezione è stata presieduta da Silvana Saguto); ma alle spalle di questo periodo abbiamo avuto giudici prestigiosi e onesti. Mi viene da pensare a Cesare Vincenti, a Giovanni Puglisi, a Guglielmo Nicastro, a Roberto Binenti, a Roberto Murgia, a Pier Attilio Stea e tanti altri che hanno lasciato un segno decisamente indelebilmente positivo nella storia delle misure di prevenzione.
E sento l’obbligo, in questo mio intervento, di prendere le difese a tutto campo del sistema delle misure di prevenzione e di tutti quei giudici che oggi vi lavorano e che sono stati capaci – con la massima tranquillità - di riportare la sezione di Palermo fra le più prestigiose d’Italia.
Silvana Saguto, avendo in mano la gestione della più grande impresa insulare, si è fatta attrarre dalle sirene ammaliatrici del benessere che le consentivano di potere mantenere un alto tenore di vita, quello che la Corte ha definito come lo “spasmodico desiderio di assicurare alla propria famiglia un tenore di vita molto più elevato delle proprie possibilità”.
Adesso tutti i condannati sono stati arrestati e condotti in carcere: Silvana Saguto e il marito sono stati condotti al carcere Pagliarelli, Gaetano Cappellano Seminara si è costituito presso il carcere di Bollate a Milano, altrettanto hanno fatto gli altri condannati.
Il caso “Saguto-Cappellano” è ormai un caso chiuso. Noi tutti speriamo comunque che la carcerazione che sconteranno possa avere quella funzione rieducativa e riabilitativa che con estrema chiarezza manifesta la nostra Costituzione.

Tratto da:piolatorre.it

Foto © Imagoeconomica

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