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La proposta marchiata Forza Italia mira a vanificare la normativa antimafia

Il 30 aprile 1982 venne ucciso il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre mentre il 3 settembre dello stesso anno fu la volta del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo.
Solo dopo questa duplice tragedia il legislatore approvò la legge Rognoni-La Torre che introdusse il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso nel codice penale italiano e le relative norme di prevenzione patrimoniale e di repressione del fenomeno mafioso.
Come sottolineò lo stesso Pio La Torre nella relazione di minoranza della commissione antimafia da lui firmata, quando si parla di mafia non si può parlare solo dell'organizzazione criminale poiché “la mafia sorge e ricerca subito i suoi collegamenti con i pubblici poteri della nuova società nazionale, e i pubblici poteri accettano, a loro volta, di avere collegamenti con la mafia, per scambiarsi reciproci servizi”. Questo sistema criminale nel corso del tempo ha voluto, promosso ed ordinato anche delitti eccellenti e stragi - come quelle di Capaci e di Via D’Amelio - per garantire la sua stessa esistenza, servendosi anche di consistenti capitali illeciti. Da qui la necessità di una normativa che riuscisse a togliere la ricchezza alle mafie privandole della loro forza economica, che è già in sé pericolosa perché inquina il sistema economico annientando la libera concorrenza. In tale scenario sarebbe auspicabile che le leggi antimafia venissero potenziate ad aggiornate alla realtà criminale odierna.
Ad oggi, tuttavia, a trent’anni dalle stragi nel nostro Paese è in corso una vera e propria campagna demolitoria della legislazione antimafia tanto che il consigliere togato Nino Di Matteo aveva detto che “guardando certe riforme ho il timore che si realizzi il papello di Riina’’,di cui al punto numero 2 fu scritto “annullamento decreto legge del 41 bis” mentre al punto numero 3 “revisione della legge Rognoni-La Torre”.
La circostanza che il ‘papello’ si possa realizzare è tutt’altro che impossibile.
In Italia non c'è giorno che passi in cui non vengano effettuate delle misure di prevenzione patrimoniali in forza della legge La Torre-Rognoni. Ad oggi questa stessa legge, che prevede "la possibilità di sequestrare e confiscare i beni, anche solo sulla base di un giudizio di pericolosità sociale, senza che prima sia intervenuta una sentenza penale di condanna", sta rischiando di essere vanificata con la proposta di legge n. 3059, marchiata Forza Italia, presentata il 26 aprile 2021 alla Camera dei deputati. Secondo quanto riportato dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli su Questione Giustizia- di fatto ove dovesse diventare legge la proposta di FI si vanificherebbe “l’assetto normativo vigente” delle misure di prevenzione patrimoniale, privando così la magistratura di uno dei più importanti strumenti alla lotta al crimine organizzato di stampo mafioso.

Perché mantenere l’impianto normativo
“Il punto - scrive Tescaroli su Questione Giustizia - sul quale è utile ragionare è sul perché è indispensabile mantenere l’assetto normativo”. “La normativa - ha spiegato il magistrato - è nata da una doppia convinzione: che l'accumulazione della ricchezza fosse, unitamente a un potere sempre maggiore, il primo scopo e la vera ragion d'essere delle organizzazioni mafiose; che i beni accumulati dalle cosche fossero un simbolo della loro potenza e, specie nel caso di attività economiche, un prezioso strumento di riciclaggio” di conseguenza “il sequestro e la confisca sono divenuti strumenti essenziali nel contrasto al crimine mafioso ed è imprescindibile che si possano applicare sulla base di presupposti indipendenti dalla condanna in sede penale (cioè senza prima ottenere una sentenza penale di condanna) e dall’esistenza di un nesso di collegamento diretto tra reato e bene”; inoltre ha specificato Tescaroli “la pericolosità può sussistere anche di fronte ai casi di proscioglimento e di assoluzione stante l'autonomia del procedimento di prevenzione rispetto al procedimento penale”.
Invece i firmatari forzisti auspicano di ottenere l’approvazione di una norma che invece si basi totalmente sulla sentenza penale: “la confisca - hanno scritto nella proposta di legge - è revocata con efficacia retroattiva nel caso in cui, successivamente all’applicazione della misura, i fatti accertati con sentenza penale definitiva escludono i presupposti per l’applicazione della misura, ovvero intervenga sentenza penale irrevocabile di proscioglimento perché il fatto non sussiste o la persona non lo ha commesso, quando gli elementi di fatto valutati ai fini dell’applicazione sono correlati all’imputazione nel processo penale”.

Le ragioni di FI
Nel documento della proposta di legge i deputati d Forza Italia hanno avanzato alcune loro ragioni per cui sarebbe necessario rivedere l’impianto normativo delle misure di prevenzione. In prima battuta gli onorevoli lamentano che la misura di prevenzione “costituisce una ‘scorciatoia’ attraverso la quale si perseguono, con elusione dei princìpi garantistici propri della materia penale, intenti punitivi e afflittivi” inconciliabili quindi “con le garanzie espresse dalla Costituzione”. Tale ricostruzione invalida la sentenza della Corte Cedu-Grande Camera del 23 febbraio 2017 (De Tommaso c/Italia) e la sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 2019 in cui, ha spiegato Tescaroli, è stato stabilito che “nessuna misura di prevenzione può essere applicata ove manchi una congrua ricostruzione di fatti idonei a determinare l’inquadramento del soggetto preposto in una delle categorie specifiche di pericolosità”. Inoltre i deputati azzurri nel testo scrivono che “la minaccia sempre costante dell’applicazione di sequestri e di confische, specie nel meridione, sommata al rischio di impresa e alla crisi economica, costituisce un potente deterrente a investire in questi territori, incrementando la povertà e il degrado sociale, che costituiscono proprio gli elementi di cui si alimentano le mafie storiche intese come fenomeni sociali e criminali”. Anche qui forse gli onorevoli nelle loro considerazioni non hanno tenuto conto del rapporto redatto dall’Unità di Informazione Finanziaria (Uif)secondo cui la deterrenza nell’investire nelle regioni del meridione non è data dalla “minaccia” dell’erogazione delle misure di prevenzione ma dalla scarsissima rete di controlli proprio su quei flussi di denaro  (come nel caso del Pnrr) che potrebbero finire nelle casse delle mafie.  Infatti tra il 2018 e l’estate del 2021 la Guardia di finanza e le procure regionali della Corte dei Conti hanno contestato 15,6 miliardi di danni erariali imputabili a 19.417 persone, tra i quali alcuni dipendenti della stessa Pubblica Amministrazione e imprenditori compiacenti. Dove per ‘compiacenti’ non si intende solo le imprese totalmente assoggettate al volere della mafia. “L’esperienza di questi anni - ha scritto il procuratore fiorentino - ha evidenziato che la realtà economica non si esaurisce nell'alternativa tra impresa sana e impresa mafiosa o collusa” poiché “si registrano casi, sempre più numerosi, di imprese mafiose o colluse che risultano avere rapporti occasionali con la mafia, così come ci sono imprese che non vivono solo di corruzione, ma che accettano anche di proliferare con il supporto della corruzione. In tali casi è preferibile ricorrere a strumenti diversi dal sequestro e dalla confisca e più mirati e adeguati. Il codice antimafia si è dato carico di tali esigenze prevedendo due specifiche misure applicabili alle imprese e non ai soggetti, se l'attività economica non si trova già nella disponibilità del mafioso, ma sussiste il rischio che questi se ne appropri, sempre che possano essere curate (per esempio con la rimozione degli amministratori e/o di dirigenti collusi, cambiando fornitori e subappaltatori e così via, ovvero intervenendo sul modello organizzativo dell'impresa) e le imprese siano intenzionate a rimuovere i presupposti di quel pericolo”. “L’art. 20 ha previsto, infatti” che il tribunale, anche d’ufficio, disponga la nomina di “un amministratore giudiziario che assuma la gestione dell'impresa” disponendo “misure di controllo per vigilare sull'attività degli amministratori esistenti, ove ricorrano i presupposti ivi previsti.  Situazioni nelle quali l'amministrazione giudiziaria ha consentito nel risanare in un congruo lasso temporale l'attività, dopo averli ripuliti dai legami con le cosche”.

Conclusioni finali
Al di là di tutti questi aspetti tecnici, quando si affrontano certi temi, come la revisione della legge sulle misure di prevenzione, è bene ricordare il prezzo con cui “sono stati pagati” gli “strumenti di cui disponiamo e di cui discutiamo e per raggiungere i risultati che oggi abbiamo” ha scritto Tescaroli.
“In un Paese come il nostro - si legge nel documento di QG - nel quale la pandemia accresce la paura degli italiani e la piena ripresa economica si appalesa ancora incerta ,l'azione invisibile della criminalità, soprattutto mafiosa, trova linfa vitale ed è pronta a drenare le risorse che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) porterà con sé, sfruttando la fragilità del tessuto economico e sociale nel quale opera. Anche le alte Corti europee, da molti citate a intermittenza, secondo le mutevoli convenienze del momento, hanno riconosciuto la particolarità della realtà fenomenologica criminale italiana. Nella fase di crisi economica in cui versa il nostro Paese è interesse generale evitare non necessarie distruzioni di ricchezza e la perdita di posti del lavoro, offrendo alle attività imprenditoriali insidiate dalla mafia l'opportunità di rientrare nel mercato in condizioni di legalità e cercando di immettere nel mercato le imprese e i beni confiscati” ha concluso il magistrato.
Purtroppo, (re)esistono solo poche voci isolate a ricordare che l’Italia è un Paese che ha pagato e paga un dazio di sangue altissimo per il contrasto alla criminalità organizzata, in ogni sua forma.  Tra queste voci vi sono certamente quelle di Luca Tescaroli, Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, Roberto Scarpinato, Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo e tanti altri coraggiosi operatori del diritto o altri membri della società civile. Sono magistrati che danno fastidio, come danno fastidio gli strumenti che ci ha lasciato Pio La Torre.

Fonte: questionegiustizia.it

Foto © Paolo Bassani

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