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Si sa chi ha prelevato la borsa di cuoio di Paolo dalla sua macchina ancora in fiamme. Si sa perché esistono delle fotografie che lo ritraggono mentre si allontana tranquillamente con quella borsa in mano, ma non si sa, o non si vuole sapere, a chi ha consegnato quella borsa e da chi è stata sottratta l'Agenda Rossa che vi era contenuta. Una agenda nella quale Paolo annotava tutte le confessioni dei collaboratori di giustizia, le rivelazioni sulle infiltrazioni della criminalità organizzata all'interno dello Stato e le sue riflessioni di quei giorni tremendi in cui continuava a dire "devo fare in fretta, devo fare in fretta". In fretta, perché sapeva che sarebbe stato ucciso anche lui. Si sa, ma non si deve sapere, chi erano "alfa" e "beta", due nomi ai quali fa riferimento Paolo in un’ intervista fatta con due giornalisti francesi poco prima di essere ucciso e che è quasi un testamento, un messaggio a futura memoria, ma che proprio per questo non può essere vista, non deve essere vista, se non da quelli che caparbiamente la vanno a cercare su quello che ci è rimasto come ultimo baluardo di libertà in Italia: la rete. E su quello che non si sa, che non si può sapere, che non si deve sapere, i processi non riescono ad andare avanti, vengono bloccati, vengono depositate delle richieste di archiviazione con le quali gli stessi PM che stavano conducendo le indagini non sono d'accordo ma che vengono forzate da capi delle procure messi nel posto giusto al momento giusto o perché si trovassero in quel posto al momento giusto. E i giudici che vogliono arrivare sino in fondo, quelli che vogliono arrivare alla verità che non si deve sapere sono costretti a trasferirsi. Si sa che Paolo il 1° Luglio del 1992, mentre interrogava Gaspare Mutolo, fu chiamato dal ministro Mancino al Viminale, si sa perché fu lui stesso a dirlo, disse: "Mi ha telefonato il ministro, manco due ore e poi torno". Si sa perché la sera annotò sulla sua agenda grigia nella pagina di quel giorno, alle ore 19:30 un nome: Mancino. Si sa perché il procuratore Aliquò lo accompagnò sin sulla porta e lo vide entrare nella stanza del ministro. Si sa. Ma non si deve sapere, non si deve sapere di come Paolo sia rimasto sconvolto dalla comunicazione che doveva fermare le sue indagini, i suoi colloqui con i pentiti, perché lo Stato aveva deciso di scendere a patti con la mafia. E allora, pur di non farlo sapere si ricorre a pretese amnesie, a puerili esibizioni di calendarietti vuoti, a sostenere ignobilmente di non conoscere Paolo Borsellino, un giudice il cui viso in quei giorni era noto a tutti gli italiani, ma non evidentemente al Ministro dell'Interno che non ricorda di avere stretto, tra tante altre, anche quella mano. Per anni, per sette lunghi anni a fronte del muro di gomma contro cui si scontrava la mia ricerca di Giustizia e di Verità non sono riuscito più a parlare non ho più trovato quella forza che mi spingeva a portare ai giovani, soprattutto i giovani, nei quali Paolo riponeva la sua fiducia nel futuro, come scrisse in una lettera nell'ultimo giorno della sua vita, il messaggio mio fratello. Poi, dopo un viaggio di 800 chilometri a piedi sino a Santiago, fatto idealmente insieme a lui, quando "il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità" che ormai ammorbava l'aria nel nostro paese mi ha fatto capire che mai più sarei riuscito a sentire quel "fresco profumo di libertà" che Paolo aveva sognato fino all'ultimo istante della sua vita, la rabbia che giorno per giorno cresceva dentro di me non mi permise più di tacere. Capii che le cose dovevano essere chiamate con il loro nome, che la gente non poteva non sapere, non poteva continuare a credere che Paolo fosse stato un servitore dello Stato ucciso dall'antistato, dalla mafia. Doveva sapere che quello che era avvenuto il 19 luglio del 1992 non era altro che una strage di Stato. La gente doveva sapere che non c'erano più, forse non c'erano mai stati Stato e antistato, ma l'uno era ormai così saldamente radicato all'interno dell'altro da averne corrotto ogni meccanismo, da renderli ormai indistinguibili. Il disegno che era già partito alla fine degli anni '80 e che aveva avuto come epilogo le stragi del '92 aveva fatto nascere una seconda Repubblica fondata sul sangue di quelle stragi. E una repubblica fondata sul sangue, nata da una scellerata trattativa tra mafia e Stato per cui delle vite avevano dovuto essere sacrificate, fondata su un disegno criminale, mantenuta in vita da chi sa e non parla, da chi è complice o ispiratore ed è divenuto intoccabile, non può che avere la terribile deriva verso cui siamo avviati. Uno Stato in cui la giustizia viene imbavagliata o asservita al potere, in cui si vilipende la Costituzione e se ne disattendono i dettami, in cui si fa scempio della divisione dei poteri che ne costituisce il cardine, in cui si scatenano volutamente dei conflitti istituzionali senza precedenti, si pretende di governare liberi da ogni vincolo e da ogni controllo, si pretende di concentrare nel potere esecutivo ogni altro potere, si cancellano le decisioni della magistratura e si scatena un conflitto col capo dello Stato al solo scopo di consolidare il proprio potere anche se questo significa ferire nel profondo del proprio animo un padre, uno come potrebbe essere uno qualsiasi di noi che ha preso l'unica decisione che poteva prendere per rispetto della persona che un giorno era stata sua figlia. Oggi questa rabbia che ogni giorno mi cresce dentro e che non mi permette più di provare delusioni e subire scoraggiamenti, è quella che mi tiene vivo. E pure a fronte dello stesso muro di gomma contro il quale continuano a rimbalzare i miei colpi, oggi dai tanti sprazzi di luce che ogni tanto illuminano la scena di quella strage e ne delineano in qualche maniera i contorni, non è morta dentro di me la speranza che, se non io, i miei figli, tutti i giovani di oggi a cui è stato sottratto quella persona così semplice e così grande quale era Paolo Borsellino, possano arrivare a vedere vincere la Giustizia e conoscere la verità. E' vero, la nostra Repubblica non è mai stata così vicina all'orlo di un baratro di cui non si conosce il fondo, ma tra i giovani ci sono tante forze vive che non si faranno soggiogare come purtroppo ha fatto la mia generazione, non accetteranno di essere un popolo di schiavi e di servi che accettano di essere tenuti con la testa bassa sotto il tacco di chi sta sovvertendo i fondamenti della nostra Repubblica. Oggi, sulle tenebre che ancora avvolgono la strage di Via D'Amelio, dei lampi di luce riescono a fare meglio intravedere quello che ancora non si era mai riuscito a vedere. Se le rivelazioni di un nuovo collaboratore di giustizia, Spatuzza, non portano nessun elemento nuovo tanto da far credere che Scarantino non fosse altro che un cavallo di troia introdotto nel processo di quella strage proprio per potere poi arrivare ad una revisione, il "processo nascosto", quello che si sta svolgendo a Palermo e in cui sono imputati Mori o Obinu può portare, grazie alle rivelazioni fatte da Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, dei fondamentali elementi di verità. In particolare sul fatto che la "trattativa" ci fu, Massimo Ciancimino ne è addirittura testimone oculare e parte attiva come corriere del padre, che iniziò dopo la strage di Capaci e non dopo la strage di Via D'Amelio come hanno sempre sostenuto i Ros, e che Don Vito Ciancimino volle essere sicuro che ne fossero informate le Istituzioni ed al livello più alto, al livello del ministro dell'Interno: Mancino. Ora per lui, che fu assegnato a quel posto d'urgenza, spostando ad altro incarico il precedente ministro, Scotti, diventa sempre più difficile tacere. Io non avrò pace finche non sarà fatta Giustizia. E finché non sarà fatta Giustizia non darò pace a chi sa e non vuole ricordare, a chi è complice e non confessa, a chi è ispiratore o mandante e non può essere processato.

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