di Giorgio Bongiovanni e Jamil El Sadi
È passato un anno da quando è stato arrestato il boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. Ricordiamo bene quel 16 gennaio. Le cinture di sicurezza attorno alla clinica La Maddalena di Palermo, i primi video di Giovanni Luppino ammanettato dai Carabinieri - l’autista di Andrea Bonafede (come diceva di chiamarsi il boss) - e le immagini dei cittadini di Palermo che bloccarono via San Lorenzo per applaudire agli uomini e alle donne che avevano appena messo la parola “fine” alla latitanza dell’ultimo mafioso stragista di Cosa nostra. L’Operazione Tramonto del Ros dei Carabinieri era andata a buon fine. Da lì partì una corsa sfrenata per raggiungere prima la Caserma Carini, dove si pensava sarebbe stato portato il boss, e poi verso l’aeroporto di Boccadifalco, da cui Messina Denaro sarebbe stato trasferito nel carcere di massima sicurezza de L'Aquila, detenuto al 41bis.
Per le forze dell’ordine, per i magistrati ma - ci sia concesso pur con le dovute proporzioni - anche per il nostro giornale, non è stato facile inseguire Matteo Messina Denaro durante la sua latitanza. Così come non è stato facile rincorrere il plotone di auto dei carabinieri che un anno fa correvano a sirene spiegate - nonostante il traffico e la pioggia - lungo Viale della Regione Siciliana per raggiungere la stazione dei Carabinieri di San Lorenzo.
Di questa rincorsa verso “U Siccu”, com'era chiamato il capo carismatico di Cosa nostra morto lo scorso 25 settembre, sono tanti i misteri rimasti irrisolti. Domande, perplessità, buchi neri che il boss, con molta probabilità, si è portato con sé.
A partire dai soggetti che hanno garantito per 30 anni la sua latitanza. Una rete che, come abbiamo chiesto al Procuratore Maurizio de Lucia durante la conferenza stampa indetta a poche ore dalla cattura del boss, ha a che fare con la “borghesia mafiosa”. “Ibridi connubi”, per citare una celebre affermazione di Giovanni Falcone. Matteo Messina Denaro è morto senza parlare portandosi con sé i segreti degli affari, delle stragi e delle trattative dello Stato-mafia. Stagioni di misteri che hanno contraddistinto la storia del nostro Paese, come le indicibili verità dietro le stragi del '92-'94.
Che ci fosse una rete di complicità che ha permesso all'ex Primula rossa di godere della libertà per trent'anni non è un mistero. Anche l’ex pm Teresa Principato, che per anni si è occupata proprio dell'inchiesta per la cattura del boss di Trapani (oggi in pensione), quando coordinava l'inchiesta per l'arresto del boss aveva inserito nella sua rete occulta, faccendieri, politici, funzionari di Stato e persino membri della massoneria.
Soggetti che tra le altre cose, come disse lo stesso Messina Denaro, interrogato dalla Procura di Palermo, lo avevano informato delle telecamere disseminate a Campobello di Mazara e Castelvetrano.
Ed è compito di noi cittadini, prima ancora che in qualità di giornalisti, continuare a indagare, a farci domande senza accontentarci delle verità di comodo o parziali. Partendo da un assunto: la cattura di Matteo Messina Denaro rappresenta un risultato importante per la storia della nostra Repubblica. Non nutriamo dubbi sull'attività investigativa svolta dalla Procura di Palermo per giungere alla cattura del boss. Né che un passaggio decisivo siano state le intercettazioni telefoniche con i familiari che insistentemente avevano iniziato a fare discorsi su "persone ammalate di tumore" e su "interventi chirurgici".
Tuttavia, siamo assolutamente certi che quanto fu detto in un'intervista televisiva a “Non è l'Arena” (andata in onda nel novembre 2022) da Salvatore Baiardo, il gelataio piemontese di origini siciliane condannato in via definitiva per avere gestito all’inizio degli anni Novanta la latitanza dei fratelli stragisti Giuseppe e Filippo Graviano, non era affatto una strana coincidenza. Al contrario, era un messaggio della mafia rivolto alla nazione per bocca dei due boss di Brancaccio. Baiardo disse chiaramente che Matteo Messina Denaro era malato (un fatto non noto a molti) e che avrebbe potuto "farsi arrestare".
In quell'intervista, effettuata dal conduttore Massimo Giletti, Baiardo faceva riferimento ad una possibile trattativa ("Potrebbe succedere come una vecchia trattativa che già era stata fatta nel 1993”) e poi aggiungeva: "Quando lo Stato deciderà di volerlo prendere lo prenderà. (…) Presumo che sia una resa sua (…) tutti cambiamo in 30 anni (…)”. Successivamente Giletti chiedeva a lui in maniera diretta: "Lei mi sta dicendo che siccome non sta bene… questo potrebbe essere un colpo molto forte per il nuovo governo…”. E Baiardo rispondeva: “È un fiore all’occhiello (…) può essere un… come si dice, un bel regalino”. “Questo vuol dire - proseguiva Giletti - (…) che qualcuno potrebbe dare delle indicazioni, come vennero date per la cattura di Totò Riina. (…) Lei mi sta raccontando uno scenario che potrebbe realizzarsi da qui a poco”. E Baiardo citava quel che era successo con Riina nel 1993. Caso vuole che il giorno dell'arresto di Messina Denaro sia avvenuto proprio trent'anni e un giorno dopo l'arresto del Capo dei capi corleonese. Quelle parole di Baiardo mettevano in evidenza diversi aspetti inquietanti.
In primo luogo, colpiva la tempistica in cui essa era avvenuta, ovvero mentre era in corso un forte dibattito sulle normative antimafia dell'ergastolo ostativo e sul 41 bis.
Un interrogativo gigantesco va posto sul come Baiardo abbia potuto affermare, quasi con certezza, che Matteo Messina Denaro sarebbe stato catturato da lì a poco.
Chi gli ha permesso di dire ciò che ha detto in diretta tv? Qualcuno lo ha informato delle indagini che i carabinieri, sotto il coordinamento della Procura di Palermo, stavano conducendo in maniera sempre più stringente?
Per noi la risposta a questo interrogativo è: “Sì, Baiardo è stato informato”. Non crediamo alle sue “apparizioni mistiche”. Al contrario, le dichiarazioni rilasciate a Giletti, contenenti informazioni precise, erano un messaggio chiaro. E il gelataio di Omegna può aver appreso queste informazioni solo in due modi: o da soggetti appartenenti allo Stato o da ambienti di Cosa nostra.
Se il gelataio di Omegna, che teoricamente avrebbe dovuto essere all’oscuro delle attività investigative, è stato informato da un “uccellino” di Stato, per usare un termine che lui stesso coniò durante la nostra intervista, il quadro sarebbe illogico oltre che inquietante. Perché lo avrebbe fatto? Quale sarebbe stata la ragione politica e strategica di tutto ciò, fermo restando che di condotte illogiche lo Stato ne ha compiute molte nel corso della storia?
Se, invece, come sosteniamo, le informazioni sono arrivate dalla mafia, significa che Cosa nostra, non avendo fatto nulla per impedire la cattura di Messina Denaro, aveva raggiunto un accordo con il boss al fine di abbassare il suo livello di protezione (ecco, dunque, la spiegazione per le sue condotte anomale degli ultimi anni) in modo tale da lasciare tracce utili agli investigatori per arrestarlo. E, con la sua carcerazione - che inevitabilmente non si sarebbe prolungata nel tempo a causa della malattia terminale -, Cosa nostra avrebbe chiuso un regolamento di conti con lo Stato per poter avanzare un nuovo dialogo, una nuova trattativa. Un modo per tendere una mano ad un governo che tra i partiti della maggioranza annovera anche Forza Italia, fondato da un uomo della mafia come Marcello Dell'Utri (condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa). Per abolire l’ergastolo ostativo, per esempio, o smantellare l’istituto dei collaboratori di giustizia. Come si sta facendo.
Lo Stato e la mafia dialogano e fanno trattative da secoli. Non è la prima volta che i capi mafia vengono “venduti” (arrestati) o si consegnano. È successo nel 1974 con la cattura a Milano dell’allora Primula rossa di Cosa nostra Luciano Liggio, venduto da Totò Riina. È successo nel 1993 con il “Capo dei capi” venduto, a sua volta, da Bernardo Provenzano. Ed è successo, in tempi più recenti, anche con Matteo Messina Denaro, consegnato dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano - portavoce di Cosa nostra e di tutta la criminalità organizza -, perché attendono risposte da Forza Italia e dal Governo Meloni sui patti stretti con Silvio Berlusconi durante la stagione stragista degli anni '90.
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