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Il boss trapanese attacca il concorso esterno

Settanta pagine. Tanto è lungo l'interrogatorio di Matteo Messina Denaro con il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e l'aggiunto Paolo Guido. Un documento finito agli atti con cui la procura ha chiesto la chiusura delle indagini per il medico Alfonso Tumbarello, accusato di avere favorito la sua latitanza. Il verbale è stato depositato lo stesso giorno in cui le condizioni di salute di Messina Denaro, in peggioramento, hanno reso necessario un ricovero all'ospedale dell'Aquila al reparto di chirurgia. Nelle scorse settimane aveva subito un piccolo intervento.
"Escludo di pentirmi" ha detto ai magistrati palermitani lo scorso 13 febbraio, ma non si è tirato indietro nel rispondere ad alcune domande. “Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia" ha detto.
E tra le righe ha anche raccontato alcuni dettagli della propria latitanza ("La mia vita non è che è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata") affermando di aver rinunciato alla tecnologia finché ha potuto: "Voi avete una tecnologia inimmaginabile… E io come dovevo difendermi? Fu così che iniziai a vivere da caverna, perché la tecnologia con la caverna non si potranno mai incontrare".
"Io telefonini non ne avevo - spiega -, perché sapevo che non appena nasceva un telefonino, non appena mi mettevo con la modernità, andavo a sbattere in un 3 per 2. Anche perché la nostra generazione non è che aveva il telefonino da giovane, quindi sapevamo come vivere anche senza". 
Eppure quando fu arrestato di telefonini con sé ne aveva ben due. Erano "necessari" a suo dire, per mantenere il contatto con la clinica La Maddalena. 
Ai magistrati ha negato rapporti con gli uomini delle istituzioni ("Io, durante la latitanza, non ho mai avuto rapporti con appartenenti alle istituzioni, completamente") e per nascondersi con l'arrivo della malattia ha deciso di farsi “albero nella foresta”, ovvero mimetizzandosi come persona tra le persone, esponendosi comunque al rischio di essere catturato: "Era giusto che io andassi in carcere, se mi prendevate. E ci siamo arrivati. Ma una domanda così, che lascia il tempo che trova: ma cosa è cambiato secondo lei? C’è una corruzione fuori, c’è una corruzione fuori indecente… si sono concentrati sempre tutti su di me e quello che c’è fuori forse voi pensate di immaginarlo tutto ma non lo sapete tutto”.
E poi ancora sulla latitanza: "Dicevo 'ora che ho la malattia, non posso stare più fuori e debbo ritornare'. Qua mi gestivo meglio, nel mio ambiente". Così ha raccontato: "Non potevo fare alla Provenzano, dentro una casupola in campagna, con la ricotta e la cicoria, con tutto il rispetto per la ricotta e la cicoria, ma io devo uscire, dovevo mettermi in mezzo".
A Campobello di Mazara lo conoscevano tutti ("Allora se voi dovete arrestare tutte le persone, che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta"), ma come Francesco, mentre a Palermo era Andrea. 
Si è anche dimostrato spavaldo palando di un appuntamento col fiancheggiatore Andrea Bonafede, l'uomo che gli prestò l'identità: "Io - ha detto ai pm - ci sono andato al posto di lavoro, anche perché se ci andavo a casa mi arrestavate, perché c'era la telecamera che guardava a casa sua". Ha chiesto il procuratore de Lucia: "E lei lo sapeva". Risposta: "Tutte le telecamere di Campobello e Castelvetrano le so, primo perché ho l'aggeggio che le cercava, che non l'avete trovato e poi perché le riconosco". Ovviamente alla domanda su dove si trovi, il detenuto ha replicato in modo vago, per poi andare subito nello specifico, anche in maniera raggelante: "Lo tenevo in un altro posto. E poi perché le riconosco, le telecamere. Le spiego come funziona: c'era pure un'altra cosa. Molte di queste telecamere quando le piazzavano, perché all'inizio quando iniziarono erano tutte di notte, poi anche di giorno, c'era un segnale: il maresciallo dei Ros (ne dice il cognome, ndr), c'era sempre lui appena si vedeva ... con due, tre fermi in un angolo già stavano mettendo una telecamera, anche se ancora non avevano messo mano". I pm non hanno potuto far altro che prendere atto della conoscenza, da parte della consorteria mafiosa e della cerchia del latitante, persino dei nomi degli investigatori di punta dei carabinieri del Ros: cosa che dimostra i pericoli corsi da chi ha indagato in prima linea. Cercano così di capire meglio: "Vabbè, ma lei non è che era sempre in giro". Risposta: "No, me lo dicevano". Chi? "Amici miei che non dico". Ovviamente amici che sapevano chi era Messina Denaro.Nel verbale Messina Denaro ha anche negato di aver fatto parte di Cosa nostra: "Non sono uomo d'onore. Io mi sento uomo d'onore ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali". "E lei non ha mai avuto a che fare con Cosa nostra?", gli hanno chiesto i magistrati. "Non lo so magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra", ha poi risposto.
Quindi ha affermato di non avere commesso reati. "Non ho commesso i reati di cui mi accusano: stragi e omicidi. Non c'entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare". 
Ai pm nega anche di aver mai ordinato delitti. "Non è allora per rispondere in un altro modo a quello che ha detto lei all'inizio, alla domanda se io faccio parte... Io non faccio parte di niente, io sono me stesso ma se devo essere un criminale, mi definisco un criminale onesto". "Questo è un ossimoro, lei sa cosa significa naturalmente..." ha ribattuto il Procuratore de Lucia. E il capomafia, manifestando il proprio narcisismo e ponendo l'accento sulla sua istruzione, che ne fa una persona diversa dalla media degli appartenenti a Cosa nostra, ha risposto: "Sì, l'ossimoro, la gelida fiamma. Facevano sempre questo esempio, a scuola".
Tornando alle risposte del boss trapanese non mancano anche quelle sulle proprie "fortune": "Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d'arte", ha detto parlando di Francesco Messina Denaro, padrino di Castelvetrano, morto da latitante e ritenuto uno dei fedelissimi dei corleonesi di Totò Riina. "Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire - ha aggiunto - poi mio padre era mercante d'arte e dove sto io c'è Selinunte".
Su un punto il boss torna più volte: "Una cosa fatemela dire. Forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo... ma con l'omicidio del bambino non c'entro", spiega negando di aver partecipato al delitto del piccolo rapito per indurre il padre a ritrattare le accuse. Per Messina Denaro il responsabile fu Giovanni Brusca. Ma tiene anche a precisare che in un audio choc diffuso nei mesi scorsi "non volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa... Il punto qual è? Che io ce l'avevo con quella metodologia di commemorazione". 
Nel suo dialogo esprime giudizi anche sul “concorso esterno”, secondo il boss reato “farlocco”. Un giudizio espresso dal boss pochi mesi prima che le dichiarazioni del Guardasigilli, Carlo Nordio, lo ponessero al centro del dibattito politico.
Intanto, dopo l'operazione di ieri, Messina Denaro è stato trasferito nel reparto di Rianimazione, luogo nel quale dovrebbe restare per alcuni giorni. Allo stato è difficile stabilire se il detenuto ristretto al regime del 41bis venga poi trasferito nella cella ospedaliera dell'ospedale dell'Aquila, oppure riportato direttamente nel carcere di massima sicurezza di Preturo (in cui sono ospitati circa 120 mafiosi ristretti al 41bis) che dista sette chilometri circa dallo stesso nosocomio.

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