Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Così i boss si trincerano nel silenzio

Aveva solo undici anni, il piccolo Giuseppe Di Matteo, quando fu rapito. Dopo 779 giorni di prigionia fu strangolato e sciolto nell'acido. Quell'azione così bestiale aveva uno scopo: convincere il padre, Mario Santo, a tacere.
Era stato il primo collaboratore a confessare il proprio coinvolgimento nella strage di Capaci del 23 maggio 1992 e a indicare i soggetti che con lui avevano contribuito alla sua realizzazione, permettendo di ricostruire, diversi momenti significativi delle fasi preparatorie ed esecutive dell'attentato.
Una forma micidiale di pressione che ebbe anche i suoi frutti. Il 13 dicembre 1993 Santino, preoccupato per l'incolumità del figlio, valutò la possibilità di interrompere la collaborazione e provare a salvarlo, avvalendosi della facoltà di non rispondere durante un'udienza in cui era chiamato a deporre.
Fermare i pentiti era un tarlo per la mente di Riina. La riforma della legge sui collaboratori di giustizia (assieme all'abolizione del 41 bis e dell'ergastolo) era tra i punti inseriti nel papello (l'elenco delle richieste che Cosa Nostra aveva presentato per porre fine alle stragi) quando uomini delle istituzioni “si erano fatti sotto” dopo Capaci.
Il capo dei capi era disposto a tutto. Me lo disse chiaramente Totò Cancemi quando lo intervistai: “Riina diceva che era disposto a giocarsi pure i denti. L'ordine era chiaro: 'Dobbiamo cominciare dai bambini di 6 anni, basta che sono parenti e sono pentiti li dobbiamo ammazzare, fino al ventesimo grado di parentela li dobbiamo ammazzare'”.
E in quegli anni la violenza della mafia si è abbattuta sulle famiglie dei collaboratori.
Furono di fatto sterminate le famiglie di Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia e Totuccio Contorno. E venne ucciso, simulando un suicidio, il padre di Gioacchino La Barbera.
Mentre Cosa nostra si impegnava sul piano militare anche la politica, come da richiesta, è “scesa in campo”.
Così, ogni volta che qualche collaboratore osava alzare il tiro con le proprie dichiarazioni, ecco che subito partiva la campagna di delegittimazione.
Ma non accade solo questo.
Nel corso del tempo ci sono stati diversi interventi legislativi che hanno depotenziato la normativa.
C'è un combinato di leggi che anziché incentivare le nuove collaborazioni riduce il programma di protezione ad un colabrodo.


dimatteo giuseppe tratto da repubblica palermo it

Giuseppe Di Matteo

A “volto scoperto”

Basti pensare che la precedente Commissione antimafia, che aveva avuto modo di sentire le doglianze di oltre sessanta tra collaboratori e testimoni di giustizia, parla senza mezzi termini nella relazione di “inadeguatezza del Servizio centrale di protezione”.
Decine di testimoni e collaboratori di giustizia hanno denunciato le difficoltà quotidiane: dalle questioni legate alla sicurezza, all'insufficienza e più in generale inadeguatezza del sistema delle misure adottate per il sostegno economico e il reinserimento lavorativo. E poi ancora le difficoltà connesse all’utilizzo dei documenti di copertura e all’accesso alla misura del cambio di generalità.
Proprio questo è uno degli argomenti cardine che non si vuole mai affrontare.
Al fine di consentirne il reinserimento sociale e di sottrarre loro ed i familiari a rappresaglie spesso sanguinose, ai collaboratori di giustizia vengono attribuite nuove generalità. Ma su tali generalità vengono poi trasferite le risultanze del casellario giudiziario e del centro elaborazione dati istituito presso il Ministero dell'Interno.
Il Procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli nel suo libro “Pentiti”, mette in evidenza tutte le criticità che oggi ha la legge sui collaboratori di giustizia, svilita nel suo contenuto rispetto a quelle che erano le volontà di Giovanni Falcone.
E sulla questione delle generalità mette in mostra un quadro a dir poco agghiacciante: “I trasferimenti di tali dati alle nuove generalità in concreto, impediscono l'attuazione dell'obiettivo del reinserimento sociale del collaboratore, dal momento che ogni datore di lavoro, per procedere all'assunzione di propri dipendenti, richiede il certificato del casellario giudiziario. Si è verificato, infatti, che più collaboratori, in stato di libertà, dopo aver espiato le condanne loro inflitte, hanno dovuto rinunciare a lavorare proprio per impedire che chi aveva dimostrato disponibilità o che li aveva assunti venisse a conoscenza dei suoi precedenti. Conoscere le imprese criminali compiute significa disvelare la loro vera identità e far rivivere il loro passato, vanificando lo scopo del cambio delle generalità, esponendo a pericolo il collaboratore di giustizia e i suoi familiari”.
Parimenti “l'attuale normativa non assicura l'anonimato se un collaboratore viene fermato per strada e sottoposto a un normale controllo di polizia, come è già avvenuto. La verifica routinaria compiuta attraverso la consultazione della banca dati, tenuta presso il Ministero dell'Interno (SDI), fa emergere la sequela dei precedenti. Si pensi a cosa può accadere se un carabiniere si trova di fronte a un soggetto, che risulta aver commesso stragi, omicidi, estorsioni, che passeggia con persone e conoscenti ignare del suo passato: arrivo di pattuglie, trasferimento del collaboratore in ufficio di polizia per approfondire la situazione, disorientamento delle persone che si trovano in sua compagnia, compromissione della sua copertura, ecc...”.
Episodi simili sono stati raccontati da diversi collaboratori di giustizia.


pentiti tescaroli pb


La nuova legge sull'ergastolo ostativo

Un'altra spallata all'istituto dei collaboratori di giustizia è stato dato anche recentemente dopo il  pronunciamento della Consulta sull'ergastolo ostativo che in qualche maniera aveva “aperto” ai riconoscimenti premiali per i condannati per mafia che non collaborano con la giustizia.
Con il decreto legge n.162, del 31 ottobre 2022, convertito in legge il 30 dicembre dello stesso anno, il Governo Meloni avrà anche evitato il “liberi tutti”, ma è un dato di fatto che ormai lo squarcio è stato aperto e i boss hanno già iniziato a chiedere i permessi premio.
Ci aveva provato, ad esempio, il boss di Brancaccio Filippo Graviano, fratello di Giuseppe, condannato all'ergastolo per essere stato tra i mandanti per le stragi di mafia del '92 e del '93 e per l'uccisione di don Pino Puglisi. Recluso dal 1994 in regime "differenziato", il capomafia aveva fatto ricorso in Cassazione dopo il no a febbraio 2022 dal tribunale di sorveglianza di L'Aquila. Il “No” della Suprema Corte era giunto nonostante "la regolare condotta carceraria e il percorso scolastico". Nel provvedimento si rilevava che "il detenuto aveva sottoscritto una dichiarazione di dissociazione, cui non aveva fatto seguito una collaborazione con gli inquirenti" inoltre Graviano "aveva mantenuto i rapporti con i familiari, tra i quali vi erano anche soggetti pure coinvolti in logiche associative".
Lo stop, per il momento, è stato dato. Ma quanto ci vorrà prima che anche gli stragisti potranno godere di questi benefici?
“Da ultimo - scrive sempre Tescaroli - va evidenziato che mentre per il collaboratore di giustizia è previsto l’obbligo di specificare dettagliatamente tutti i beni posseduti o controllati, per gli irriducibili non è previsto un analogo dovere, ma solo quello di far fronte agli obblighi risarcitori e riparatori a favore delle vittime”.
Così è lampante come collaborare con la giustizia non sia più conveniente neanche in termini economici e, così come evidenziato da più addetti ai lavori, si avrà “un effetto deflattivo sulle collaborazioni di livello con la giustizia degli uomini di onore”.


graviano filippo giuseppe da ilfatto

Filippo e Giuseppe Graviano

Legge falsa e farsa

E' facile immaginare che il Graviano di turno, ma lo stesso può valere per tutti gli altri boss irriducibili, alla luce di questi fatti non potrà far altro che rispondere al mittente qualsiasi proposta di collaborazione con la giustizia. Perché si è di fronte ad una legge “falsa” e “farsa” che anziché proteggerli manda i pentiti al patibolo.
E pensare che in questi anni segnali di possibili cedimenti non sono mancati.
Anni fa Filippo Graviano, definito dai pentiti come la "mente finanziaria" della famiglia di Brancaccio, al collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza durante la detenzione a Tolmezzo disse: "E' bene far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare qualche cosa è bene che anche noi cominciamo a parlare coi magistrati".
Così era accaduto che nel 2020, per svariate udienze, il fratello Giuseppe aveva deciso di rispondere alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel processo 'Ndrangheta stragista.
Deposizioni in cui "Madre Natura" ha di fatto lanciato messaggi all'esterno, parlando dei rapporti economici che la sua famiglia avrebbe avuto con Silvio Berlusconi e di "imprenditori che non volevano che le stragi si fermassero". Ma aveva anche lasciato intendere di nutrire speranze.
Il “balletto” del “parlo-non parlo” non si concluse in quel momento. Infatti anche nel 2021 Giuseppe Graviano rispose alle domande dei pm di Firenze che indagavano su Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri come mandanti esterni delle stragi.
Anche Matteo Messina Denaro prima di morire, pur mettendo in chiaro di non voler collaborare con la giustizia, ha risposto a qualche domanda dei pm di Palermo che erano andati ad interrogarlo.
Per “saltare il fosso” serve di più, molto di più.
In questo senso, forse, si dovrebbe guardare a ciò che avviene oltre Oceano.
Giovanni Falcone, in un’intervista rilasciata, nel 1990, a Michele Santoro nel corso di una puntata di Samarcanda, evidenziava l'efficienza del programma di protezione dei testimoni degli Stati Uniti d'America.
Istituito nel 1971, il programma WITSEC, è stato sicuramente pionieristico sulle garanzie e la protezione dei testimoni che entrano volontariamente nel programma.
Un esempio lampante è il caso di Sammy “The Bull” Gravano, braccio destro del boss storico della famiglia Gambino John Gotti.
Le dichiarazioni di Gravano, una figura che può essere paragonata a Provenzano quando Riina era ancora il Capo dei capi, furono decisive per la sua incriminazione.


gravano sammy pd

Sammy “The Bull” Gravano


Gravano diede importantissime informazioni non solo contro Gotti, ma contro l'intero sistema.
In cambio lo Stato Americano non riconobbe solo una riduzione di pena, ma l'immunità per i procedimenti giudiziari aperti sui crimini compiuti fino a quel momento.
Negli Stati Uniti i pentiti vengono valorizzati e protetti durante tutta la durata del processo e in prigione.
Quando escono i testimoni ricevono una nuova identità e un nuovo alloggio, ma anche un percorso professionale e una storia medica reinventati.
Possono scegliere tra più luoghi dove poter vivere e se non si trova un luogo appropriato, vengono trasferiti all'estero.
Viene dato loro un nuovo passaporto e viene garantita la protezione dell'U.S. Marshals.
Non solo. All'inizio, le autorità garantiscono loro anche un apporto finanziario e li aiutano a trovare un impiego e viene fornito anche un supporto psicologico (in Italia, seppur previsto, non è adeguato). Non è facile, infatti, tagliare completamente i ponti con il passato, ma il sistema prevede, in caso di recidiva nel compiere delitti, una risposta ferma e immediata.
Tuttavia, anche in quel caso, se si commette il delitto, non viene rivelata l'identità del collaboratore.
Il procedimento viene aperto con il nome di copertura.
Cosa accadrebbe se misure simili fossero adottate anche nel nostro Paese?
Non cadrebbe solo Cosa nostra, ma tremerebbero tutti quei sistemi di potere criminale ai quali aderiscono istituzioni deviate dello Stato (lo Stato-mafia).
L'aver svilito la legge sui collaboratori di giustizia, strumento senza il quale non sapremmo nulla sulle stragi o sui rapporti tra le mafie ed il potere, è un chiaro segno che quella trattativa avviata negli anni delle stragi, seppur lentamente, sta andando in porto.
Con questi presupposti i sacrifici di martiri come Falcone, Borsellino e tanti altri, sarebbero vani.
E a vincere non sarà solo la mafia, come diceva Buscetta al giornalista Saverio Lodato. Ma lo Stato-mafia.

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

ARTICOLI CORRELATI

Così lo Stato-Mafia uccide la legge sui collaboratori di giustizia

L'allarme di Luca Tescaroli: i collaboratori di giustizia in pericolo

Tescaroli: ''Incentivare le collaborazioni con la giustizia garantendo l’anonimato''

Giuseppe Di Matteo: un'infanzia rubata da Cosa nostra per colpire i collaboratori di giustizia

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos