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Rapito, segregato per tre anni e poi ucciso come la mafia comanda: prima strangolato e poi sciolto nell'acido. Un delitto che mostra il vero volto della brutale violenza mafiosa contro il falso mito secondo cui Cosa nostra "non uccide donne e bambini". È la storia del piccolo Giuseppe Di Matteo ucciso a quindici anni l'11 gennaio 1996. È la storia di un'infanzia rubata la sua. Figlio di Mario Santo Di Matteo, boss del mandamento di Altofonte che da poco era diventato collaboratore di giustizia, il piccolo dodicenne venne prelevato dal maneggio di Villabate dove andava a cavallo. Cosa nostra voleva ricattare il padre per evitare che parlasse ai magistrati di Palermo in un periodo difficile per Cosa nostra che vedeva molti dei suoi affiliati tradire l’organizzazione e collaborare con lo Stato. In quell’anno diversi testimoniarono sulla strage di Capaci. Così il 23 novembre del 1993 i boss Fifetto Cannella, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone Barbanera, Salvatore Grigoli, Cosimo Lo Nigro Bingo e Francesco Giuliano Olivetti si recarono al maneggio spacciandosi per poliziotti. “Siamo della protezione, dobbiamo portarti da tuo padre”, disse Grigoli al piccolo Giuseppe. E il bambino rispose: “Sì, sangu di me patri”. Riferirà Gaspare Spatuzza, nel 2008, quando iniziò anche lui a collaborare con la giustizia: “Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. Lui era felice, diceva ‘Papà mio, amore mio’”. Il sequestro venne architettato il 14 novembre 1993, in una fabbrica di calce di Misilmeri, da Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Giovanni Brusca. Una volta rapito, Giuseppe venne consegnato ai suoi carcerieri. Brusca, la mente del rapimento, aveva già preparato la cella. Giuseppe Di Matteo rimase prigioniero 778 giorni. A nulla sono serviti gli sforzi degli investigatori, del padre, e persino dei collaboratori di giustizia Gioacchino La Barbera e Balduccio Di Maggio. Il piccolo veniva tenuto al buio, ogni tanto veniva incappucciato e legato, veniva infilato dentro al portabagagli di un’auto, per spostarlo in un’altra prigione nelle viscere della Sicilia.


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A processo, uno degli assassini, Vincenzo Chiodo, fece una ricostruzione agghiacciante: "Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muovesse. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…) il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. (…) io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire". Parole inumane, come la mafia d’altronde.

Giuseppe Di Matteo era solo un bambino. La sua vita - innocente - è diventata un esempio per molti giovani ragazzi. Una società civile che, crescendo, ha compreso sempre più come l'idea secondo cui la mafia “non uccideva le donne e i bambini” era solo un mito. Un racconto romanticizzato di un fenomeno criminale più complesso e radicato, che non ha colore politico né orientamento religioso. È solo una piaga di questo Paese, da più di un secolo e mezzo.

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