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L'intervento del sostituto procuratore nazionale antimafia a 'Porta a Porta'

Anche la Cassazione ha dovuto riconoscere un dato incontrovertibile: "Mentre in Italia c'erano le strade sporche del sangue delle prime stragi, della strage di Capaci ancora prima dell'omicidio Lima, una parte significativa dello Stato", alcuni ufficiali dell'Arma dei Carabinieri, "hanno per il tramite di Vito Ciancimino, un condannato mafioso all'epoca agli arresti domiciliari, contattato Riina e chiesto ai vertici dell'organizzazione mafiosacosa volete per fare cessare le stragi?' È un dato di fatto che è emerso da quel processo sul quale io credo, non sto commentando la sentenza, che forse il Paese si sarebbe dovuto interrogare un po' di più".

Sono state queste le parole del sostituto procuratore nazionale antimafia e già membro togato del Csm Nino Di Matteo durante lo speciale di 'Porta a Porta' andato in onda ieri su Rai 1 dedicato alla mafia e alle sue vittime.

Rispondendo alle domande del conduttore Bruno Vespa, Di Matteo ha più volte ribadito la sua intenzione di non voler commentare la sentenza della Cassazione in merito al processo Trattativa Stato-Mafia; tuttavia alcuni fatti non possono essere ignorati. "Mentre ci sono le stragi, una parte dello Stato cerca Riina per capire cosa volesse per far cessare quella strategia appena iniziata" e "questo è un dato innegabile", ha detto osservando che questo non lo dice soltanto la "sentenza di condanna, né quella di assoluzione, né la sentenza di Cassazione: per primo questa versione l'ha data il generale Mori, che ha detto di essere andato da Ciancimino e avere pronunciato queste parole: 'non si può parlare con questa gente? Cosa è questo muro contro muro tra lo Stato e la mafia? Cosa vogliono questi per far cessare le stragi?' E ha anche detto che al successivo incontro Ciancimino disse che avevano accettato il dialogo.


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Noi sappiamo, dal pentito Brusca e da altri, che Riina era molto contento di questa interlocuzione indiretta con lo Stato. Ed è un dato di fatto
" che "questo avveniva nel '92 e che nel '93 Cosa nostra ha organizzato ed eseguito delle stragi assolutamente anomale nella storia dell'organizzazione mafiosa: quelle di Roma, Firenze e Milano. I vertici importanti dello Stato, ricordo in quel momento per esempio il presidente della commissione antimafia dell'epoca, che era un grande esperto della materia, parlò di bombe del dialogo. Questi sono dati di fatto. Quelle interlocuzioni non fecero cessare le stragi. Le stragi continuarono", ha sottolineato il magistrato.

Quindi il periodo delle stragi è definitivamente concluso?

In base alla "conoscenza della storia della mafia, di Cosa nostra in particolare, che è una storia fatta di corti di ricorsi, in cui i periodi di attacco frontale alle istituzioni si sono alternati con periodi in cui la mafia ha preferito adottare una tecnica" di "sommissione, di minore clamore", non "mi sento di poter dire che Cosa nostra abbia abbandonato la strategia stragista. Ci sono ancora dei cinquantenni, dei sessantenni, che sono stati condannati anche per le stragi del 92, del 93, che non credo che si rassegnino a morire in carcere".

Secondo Di Matteo "la storia ci dovrebbe insegnare un po' di prudenza nell'affermare che per sempre la mafia delle stragi è finita".


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Responsabilità politica e responsabilità penale

Il sostituto procuratore in forza alla Dna ha ribadito durante la trasmissione l'assenza della politica nella lotta alla mafia. Assenza che nel corso del tempo è diventata una costante.

"Oggi - ha detto - quando c'è la possibilità di indagare una situazione di rapporti eventuali tra la mafia e la politica, tra la mafia e il potere, assistiamo a due tipi di reazione: da una parte c'è chi grida al complotto della magistratura; dall'altra parte, e forse mi preoccupa di più, c'è chi afferma sempre 'aspettiamo le sentenze definitive della magistratura'. Questo può diventare un alibi perché confonde due tipi di responsabilità, quella penale e quella politica, che dovrebbero essere indipendenti rispetto a fatti e situazioni accertate. Io penso che la responsabilità politica, questo ci hanno insegnato La Torre e Mattarella, dovrebbe scattare prima e a prescindere dell'affermazione definitiva della responsabilità penale".


dimatteo latorre pap


Eppure ci fu un tempo in cui l'azione della politica superava quella della magistratura: a testimoniarlo è la "relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia del 1976" di cui Pio La Torre fu primo firmatario. Dentro quella relazione, ha ricordato, "c'erano i nomi, i cognomi, i fatti, le prove, le circostanze delle collusioni tra gli allora astri nascenti corleonesi e il potere siciliano, politico, imprenditoriale e finanziario. E quei nomi ancora non erano nelle sentenze della magistratura e neppure nei rapporti di polizia e carabinieri".

"Ecco, lì ho capito una cosa. Ho capito, così com'è stato per Piersanti Mattarella, da parte democristiana, che c'erano uomini politici che stavano veramente in prima linea, che sapevano con la loro azione di denuncia precedere l'azione della magistratura".

"Oggi questa politica antimafiosa, da un po' di tempo a questa parte, è scomparsa", ha concluso.


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I mandati esterni della strage Chinnici

Le indagini sulla strage in cui venne assassinato il giudice istruttore Rocco Chinnici, mentore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vennero condotte principalmente dal pubblico ministero Nino Di Matteo e dalla collega Annamaria Palma.

Nel 2000 la Corte di Assise di Caltanissetta (presieduta da Ottavio Sferlazza e Giovambattista Tona giudice a latere) emetteva una storica sentenza per tutta la 'Cupola' di Cosa Nostra: il 14 aprile vennero condannati all’ergastolo storici capi come Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Francesco e Antonio Madonia, Vincenzo Galatolo e Stefano Ganci. Condanne poi successivamente confermate in appello il 24 giugno 2002 (con l'eccezione di Matteo Motisi e Giuseppe Farinella, assolti) e poi in Cassazione nel novembre 2003.

"Nell'indagine del processo Chinnici, che ho seguito dal 1996 in poi - ha ricordato il magistrato - sono stati condannati definitivamente 16 tra esecutori e organizzatori dell'attentato. Il primo attentato con metodo di guerra a Palermo".


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"L'input venne da fuori": "Venne dato, così ricostruiscono le sentenze, dai famosi esattori delle tasse in Sicilia, Nino e Ignazio Salvo, che in quel momento costituivano un significativo trade union, anello di collegamento, anche con la politica romana, in particolare con l'ala andreottiana della democrazia cristiana. Questa è dimostrazione del fatto che molte volte anche delitti eccellenti nella storia di Cosa nostra non devono essere visti soltanto nell'ottica dell'ala militare di Cosa nostra. Ma molto spesso l'ala militare di Cosa nostra ha concepito dei delitti anche sulla base di motivazioni più ampie e sulla base di rapporti in contesti più ampi". A riprova di questo il magistrato ha ricordato l'omicidio del giudice Antonino Saetta, "forse il primo o tra i primi giudici del dibattimento ad essere uccisi dalla mafia. Prima erano stati uccisi giudici istruttori o pubblici ministeri, cioè coloro i quali facevano le indagini. Saetta ebbe, agli occhi di Riina e degli altri, una grande colpa. Ribaltando il giudizio di primo grado, che era stato di assoluzione, condannò gli autori imputati per l'omicidio del capitano Emanuele Basile nel 1980, capitano dei Carabinieri a Monreale. Lo avevano intimidito, avevano tentato di minacciarlo, avevano tentato di avvicinarlo. Saetta resistette a quelle pressioni e condannò gli esecutori materiali, dopo qualche mese venne ucciso" perché avrebbe da lì a poco "presieduto il maxiprocesso di Palermo in appello e certamente aveva dato prova di essere un giudice rigoroso e inavvicinabile".


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Gratteri: ricchezza della 'Ndrangheta supera quella di una finanziaria

Nella serata di ieri è intervenuto anche il procuratore della repubblica di Napoli Nicola Gratteri il quale ha spiegato che la 'Ndrangheta in questo "momento è l'unica mafia presente in tutti i continenti. È l'unica mafia che è in grado di andare alla foresta amazzonica e comprare un chilo di cocaina con un principio attivo del 98-99% a mille euro, mentre le altre mafie lo comprano a duemila euro. Questo dato è importante non per un fatto economico, ma per far capire il livello di credibilità che il brand della 'Ndrangheta ha nei confronti delle altre mafie, soprattutto sudamericane. È una mafia asciutta, cruda, senza fronzoli e lascia, rispetto al numero degli 'ndranghetisti e rispetto alle altre mafie, pochi collaboratori di giustizia".

La 'Ndrangheta in questo periodo storico non ha "bisogno di uccidere, ormai è più facile morire in casa che non per mano delle mafie. Le mafie non uccidono più perché oggi è più facile, se c'è bisogno di penetrare la pubblica amministrazione" che "si fa corrompere facilmente. Oggi non ha bisogno più di uccidere".

Gratteri ha ribadito che la ricchezza della 'Ndrangheta supera "una finanziaria, sostanzialmente. Si parla anche di 50 miliardi di euro" di affari annui "e la cocaina è l'affare in assoluto più redditizio perché ancora c'è molta richiesta in Europa e soprattutto nel mondo occidentale".

Una mafia estremamente ricca e evoluta anche sul piano tecnologico "in grado di costruire delle piattaforme come un nuovo whatsapp, un nuovo telegram e quindi parlano sopra le nostre teste. Noi non le ascoltiamo perché purtroppo i governi che si sono succeduti non hanno investito in informatica, non hanno investito in quello che stava accadendo, in quello che accade oggi e che accadrà", ha concluso il magistrato.

Riguarda la puntata: Porta a Porta

Foto © Imagoeconomica

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