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Depositate le motivazioni della sentenza d'appello che ha assolto le istituzioni e non Cosa nostra

Si mettano l'anima in pace detrattori e commentatori. Non si tratta di teoremi e visioni dei pubblici ministeri. La trattativa c'è stata.
Ma quegli ufficiali dei carabinieri, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, sono stati assolti perché, contattando il sindaco mafioso Vito Ciancimino, "non vollero rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato per strappare al Governo concessioni favorevoli agli interessi mafiosi, ma, semmai avrebbero voluto tali concessioni come male e come mezzo necessario per sventare una minaccia in atto". Ovvero fermare le stragi.
E' questo uno dei passaggi con cui i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Palermo, il Presidente Angelo Pellino ed il giudice a latere Vittorio Anania, entrambi estensori, spiegano i motivi per cui quasi un anno fa assolsero gli ufficiali dell'Arma “perché il fatto non costituisce reato”, così come assolsero l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri “per non aver commesso il fatto". Per il politico, già condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa, "non vi è prova che abbia veicolato al governo Berlusconi le minacce dei boss".
Gli unici colpevoli della minaccia al corpo politico dello Stato, dunque, sono i capi mafia Leoluca Bagarella e Antonino Cinà.

Operazione di Intelligence
Nelle pieghe di questa "sentenza bipolare" da una parte c'è la giustificazione dell'operato dei carabinieri ed una lettura minimalista di certi fatti, che i soliti detrattori del processo useranno a mani basse dicendo che non è stato commesso alcun reato ed osannando i propri "eroi", dall'altra vi è una valutazione grave sull'operato che il Ros ha sviluppato nel corso del tempo.
Perché al contrario di quello che proprio i carabinieri, i loro legali e certa stampa prezzolata ci hanno sempre propinato, quell'azione non "fu affatto una mera iniziativa di polizia giudiziaria, ancorché spregiudicata, ma un'operazione molto più complessa e ambiziosa, come comprovato dai contatti intrapresi da Mori e De Donno con esponenti di vertice delle istituzioni in una fase ancora embrionale di tale iniziativa per assicurarsi la 'copertura' politica che avrebbe potuto rendersi necessaria in base ai suoi sviluppi. E comunque fu un'operazione più di intelligence che non di polizia, e con l'obiettivo in effetti di disinnescare la minaccia stragista incuneandosi con proposte e iniziative fortemente divisive all'interno di spaccature già esistenti in Cosa nostra e persino all’interno dello schieramento egemone (quello dei corleonesi)".


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L'ex capo del Ros dei carabinieri, Mario Mori © Imagoeconomica


Quell'azione, però, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di primo grado, non fu "su input di esponenti politici".
Viene "scartata in partenza l'ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa e confutata l'ipotesi che essi abbiano agito per preservare l'incolumità di questo o quell'esponente politico". Per questo motivo si ribadisce "che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra, che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell'incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale - e fondamentale - dello Stato".
Ma se vi era un interesse di Stato è chiaro che i carabinieri non avrebbero potuto agire di loro semplice iniziativa o che comunque avrebbero ricevuto delle indicazioni o delle direttive da seguire. Da chi, non è dato sapere e la sentenza non lo spiega. 
Si scrive direttamente che l'intento del Ros sarebbe stato quello di tessere "un'ibrida alleanza" con la cosiddetta "componente moderata e sempre più insofferente della linea dura imposta da Riina".
Ovvero quella silenziosa e più dedita agli affari capeggiata da Bernardo Provenzano.
Rispetto alle interlocuzioni tra Ros e Ciancimino, proseguite nell'arco del 1992, viene ribadito lo stupore per il dato che “non una sola domanda fu fatta, per tutto il corso della seconda fase della collaborazione che avevano instaurato, sul conto di Bernardo Provenzano”. “Lo sconcerto è maggiore – è scritto – se si considera che Ciancimino si era detto disponibile a cooperare senza più remore criminali, invitando (De Donno, ndr) a dirgli cosa volessero da lui”. “Nulla da obbiettare che la scelta prioritaria fosse la cattura di Riina – si legge – ma non (si, ndr) comprende come tale scelta impedisse, contestualmente al lavoro di ricerca sulle mappe sulla documentazione richiesta da Ciancimino, di compulsare quest’ultimo per avere notizie utili alle indagini anche nei riguardi dell’altro corleonese. A meno che, ed allora tutto avrebbe una spiegazione plausibile, i due obbiettivi non fossero tra loro incompatibili”.
I giudici offrono una chiave di lettura nuova anche sulla mancata perquisizione del covo di Riina e sul mancato blitz a Mezzojuso, dove si nascondeva proprio Provenzano.
E poi ancora vengono definite “sconcertanti" le omissioni che seguirono alla cattura del boss Riina. La mancata perquisizione del covo del boss corleonese può essere ricondotta a questa strategia. Era un atto "simbolico". Serviva a lanciare un "segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo". Manca però la prova "che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano" per la consegna di Riina in cambio della mancata perquisizione del covo, "dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia". Una ulteriore iniziativa del Ros che "desta profonde perplessità mai chiarite".
Nella stessa misura, secondo i giudici, va interpretata la scelta di "preservare la libertà di Provenzano", cioè di non arrestarlo.
Tutto avvenne non perché ci fossero collusioni o "patti" (promesse e benefici) da onorare ma perché i carabinieri del Ros ritenevano che la leadership di Provenzano "avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato".
La mancata cattura a Mezzojuso (nel 1995) sarebbe stata dettata da “indicibili ragioni di ‘interesse nazionale a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l'egemonia di Provenzano e della sua strategia dell'invisibilità o della 'sommersione', almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l'organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso". 
L’interesse del Ros per la latitanza di Provenzano non è finalizzato alla sua cattura, ma, scrivono i giudici, “conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i Carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso”.  L'intento era semplice: “si voleva ‘proteggere’ Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft, e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo’’.
Una scelta scandalosa se si tiene conto di ciò che è avvenuto nel 1993 dove le vite umane furono tutt'altro che salvate, o ancora che Cosa nostra, sotto il regime di Provenzano ha continuato (così come continua ancora oggi) a fare affari, a chiedere il pizzo, a intimidire, minacciare e così via.
Ma tutto questo, evidentemente, per i giudici non è un segno di debolezza dello Stato.


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Il capo dei capi, Totò Riina © Shobha


Rispetto all'arresto del Capo dei capi Totò Riina, è sconcertante la valutazione che la Corte fa della famosa conferenza stampa dell'arresto di Riina, il 15 gennaio 1993. In quell'occasione infatti, l'allora Comandante della Regione Sicilia, Giorgio Cancellieri, usò per la prima volta pubblicamente la parola "trattativa" commentando proprio la cattura del Capo dei Capi: "La personalità di Totò Riina è nota. Fa parte... direi della letteratura della mafia, a lui sono riconducibili tutta una serie di gravissimi e reiterati episodi di criminalità nell'isola, nell'intera Nazione e anche fuori dal territorio dello Stato. Fenomeni che hanno aggredito, nei gangli vitali, la popolazione, il cittadino comune, qualsivoglia attività produttiva, con attacchi ripetuti contro le Istituzioni statali. E questo in un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico, addirittura potrebbe avere dell'inaudito e dell'assurdo, di mettere in discussione l'Autorità istituzionale. Quasi a barattare, a istituire una trattativa per la liquidazione di una intera epoca di assassini, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita nazionale".
Ascoltato in dibattimento il 9 febbraio 2017, Cancellieri aveva testimoniato che in quell'occasione ebbe a farsi portavoce, quale Ufficiale più alto in grado della Regione Sicilia, di un comunicato predisposto dal Ros, nelle persone di Subranni e Mori o comunque di indicazioni da questi ultimi fornitegli poco prima dell'inizio della conferenza stampa.
Scrive la Corte d'Assise d'Appello: "Quella di Mori - contrariamente a quanto ipotizza il giudice di prime cure - non era, però, una voce dal sen fuggito, ma doveva leggersi come un preciso messaggio lanciato a chi poteva intenderlo: la cattura di Riina era anche un monito per chiunque, tra i capi di Cosa Nostra (che erano ancora quasi tutti latitanti e in grado di agire) pretendesse di trattare con lo Stato nel modo in cui Riina aveva preteso farlo, e cioè dettando le sue condizioni, senza nessuna reale apertura ad un possibile negoziato. Insomma, un monito all’ala stragista; ma, implicitamente, anche una mano tesa all’ala più moderata e sensibile ad un’eventuale offerta di trattare: ovvero a quanti, all’interno di Cosa Nostra, fossero disponibili a negoziare certi favori, senza la pretesa di imporre unilateralmente con la violenza la propria volontà". E poi ancora: "Ed è persino scontato che nessuno dei presenti alla conferenza stampa potesse cogliere il senso recondito di quelle dichiarazioni, ancorché si trattasse di qualificati investigatori e valorosi magistrati, dal momento che ignoravano l’antefatto, e cioè non avevano alcuna conoscenza e il minimo sentore della complessa interlocuzione che era stata avviata tra il Ros. e Vito Ciancimino, e del tenore della proposta, anzi, delle diverse proposte che erano state fatte a quest’ultimo".
Dunque l'operato del Ros viene definito come "un disegno certamente ambizioso e che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria 'trattativa politica' e una mera 'trattativa di polizia', perché richiedeva, almeno in prospettiva, qualcosa di più che non ciò che oggi, ma non solo oggi, potrebbe definirsi favoreggiamento".


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L'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino © Archivio Letizia Battaglia


Il papello
Nelle motivazioni della sentenza, per ricostruire i dialoghi tra il Ros e Vito Ciancimino, di fatto, vi sono anche accenni al dichiarato di Massimo Ciancimino (senza il quale comunque decine di politici sarebbero rimasti nel silenzio su queste vicende ancora oggi, ndr), condividendo l'impostazione data dai giudici di primo grado sulla sua non attendibilità e quindi totale inutilizzabilità come fonte di prova.
La trattativa viene ricostruita partendo da un lungo raffronto tra le dichiarazioni delle parti in causa, ovvero Mori, De Donno e lo stesso ex sindaco mafioso di Palermo, esaminando anche alcuni documenti ascrivibili senza ombra di dubbio a quest'ultimo (in quanto ritrovati nella sua cella o periziati). Ed è così che si arriva a parlare del “papello” di Riina.
La Corte dunque arriva a parlare del papello di Riina confermando comunque che vi è la prova che Riina non soltanto accolse la “sollecitazione al dialogo”, ma concretizzò la sua risposta con la formulazione di specifiche richieste.
“Ciò che conta, ai fini del presente giudizio - si legge - è la prova che Riina colse l'occasione che gli si era offerta dell'apertura di un canale di comunicazione con quelli che riteneva essere emissari dello Stato per far sapere - e per dettare - le condizioni poste da Cosa Nostra per interrompere la campagna stragista, facendo pervenire le sue richieste a Ciancimino in risposta alla sollecitazione al dialogo proveniente dai Carabinieri. E poco importa che fossero condensate proprio nel "papello" consegnato da Massimo Ciancimino o in altro documento (mai rinvenuto) di analogo tenore; o che fossero semplicemente appuntate in un foglio o che fossero state trasmesse oralmente a Ciancimino e poi da questi annotate per iscritto anche come pro-memoria. Ebbene quella prova, a parere di questa Corte, è stata in effetti d'aggiunta, attraverso un variegato coacervo di fonti e di elementi che corroborano l'attendibilità delle rivelazioni di Brusca ("Riina mi disse di avere fatto un papello di richieste, ma che la risposta era stata negativa, erano troppe...”, ndr)”


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L'ufficiale dei carabinieri, Giuseppe De Donno © Imagoeconomica


La “pistola fumante”
La Corte d'Assise d'Appello ricostruisce vari passaggi asserendo in conclusione che Ciancimino ed i Carabinieri concertarono la spiegazione che l'ex politico Dc avrebbe dato in pasto ai referenti mafiosi (“avrebbe riferito che la trattativa per il momento doveva intendersi congelata, perché le richieste erano eccessive, o la controparte istituzionale doveva vagliarle”).
“Ma se questa fu la spiegazione concertata con i Carabinieri, questi ultimi dovevano essere al corrente del fatto che Cosa Nostra in effetti aveva fatto pervenire a Ciancimino delle richieste specifiche. Si spiega allora per quale ragione sia Mori che De Donno siano stati tanto evasivi e sfuggenti nel dire cosa Ciancimino fosse andato a raccontare ai propri referenti mafiosi per giustificare l’improvvisa interruzione della trattativa, lasciando tuttavia aperto uno spiraglio ad un’eventuale riapertura del negoziato. Nessuno dei due vuole ammettere di avere avuto in mano il 'corpo del reato', ovvero di avere avuto effettiva contezza delle richieste avanzate dal capo di Cosa Nostra”.
Alla luce di una tale osservazione “è difficile dare torto al giudice di prime cure, a proposito dello scarso credito che merita l’assunto del Gen. Mori secondo cui egli non avrebbe ricevuto alcunché da Ciancimino (tranne una copia del libro “Le Mafie” che fu poi spedito all’A.G.), neppure indicazioni informali su ciò che Cosa Nostra chiedeva in cambio della cessazione delle stragi, e tanto meno il famigerato 'papello' ('non è mai passato per le mie mani, perché altrimenti sarebbe agli atti in qualche Procura')”.


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Il figlio di Vito Ciancimino, Massimo © Giorgio Barbagallo


L'oscura vicenda Bellini
La Corte dunque mette in evidenza come il generale Mori abbia taciuto anche su altre vicende, come ad esempio il contatto con Cosa Nostra avviato tramite l'ex estremista di destra Paolo Bellini, per il recupero di alcune opere d'arte. Una vicenda intricatissima che processualmente è stata definita più volte come un secondo “piano di trattativa”. “Fosse stato per Mori - scrivono i giudici di secondo grado - nulla si sarebbe saputo della vicenda Bellini e di alcuni retroscena di quella vicenda, tra cui proprio il particolare rivelato dal M.llo Tempesta di avere egli (personalmente) consegnato all’allora Col. Mori un foglietto - che lo stesso Tempesta aveva a sua volta ricevuto dal Bellini - su cui erano scritti i nominativi di cinque boss mafiosi cui procurare la concessione degli arresti domiciliari o almeno ospedalieri; e ciò per consentire al Bellini di accreditarsi all’interno di Cosa Nostra e nei riguardi degli uomini d’onore con cui risultò effettivamente avere instaurato contatti in quell’estate del ‘92 (tramite quel Nino Gioè che già da tempo Bellini conosceva e con cui aveva anche affari di droga), in modo di poter dare corso al disegno di infiltrarsi tra di loro come una sorta di agente sotto copertura per conto dello Stato”. “Una vicenda - è scritto - che nonostante lo sforzo dello stesso Mori e della sua difesa di banalizzarne la portata - riducendola al tentativo avventuroso di un personaggio inaffidabile di millantare una collaborazione investigativa per trarne profitti personali, processuali o monetari - presenta aspetti oscuri, anche perché nei colloqui tra Gioè e Bellini sarebbe germinata l’idea di riprendere e intensificare la campagna di attentati e delitti eclatanti, ma con un radicale mutamento di target; un’idea che avrebbe messo radici fino ad essere condivisa e poi varata concretamente dal Gotha Cosa Nostra, nel corso delle riunioni seguite alla cattura di Riina”.


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L'ex estremista di destra, Paolo Bellini


Quell'idea, ricostruiscono i giudici, “aveva radici molto profonde e risalenti agli ambienti dell’eversione neofascista”. Sul punto richiamano la testimonianza del Colonnello Giraudo, che svolse importanti indagini sulle trame nere e le stragi di matrice neofascista. Questi ha riferito in aula le dichiarazioni dell'ex membro dell'organizzazione eversiva di destra “Ordine Nuovo”, Umberto Zamboni (deceduto) il quale aveva raccontato che nel quadro delle attività eversive di cui si discuteva all’interno di Ordine Nuovo c'erano anche progetti di attentati a opere d’arte e beni culturali e infrastrutture. A proporre questi piani sarebbe stato uno dei quadri della cellula veneta dell'organizzazione, Massimiliano Fachini, già imputato per la strage Bologna e per la strage di P.zza Fontana, cui sono stati accertati (grazie a un documento rinvenuto nel corso della perquisizione dell’abitazione del Capitano La Bruna) contatti con il Sid (caso vuole che negli anni Settanta Mori lavorava proprio per il Sid, ndr).
I giudici della Corte d'Appello proseguono nell'analisi: “Mori non ha potuto negare di avere ricevuto (dal M.llo Tempesta) quel foglietto (che a dire di Bellini era stato redatto di proprio pugno dal Gioè), ma non ha avuto alcuna remora a sbarazzarsene, senza neanche preoccuparsi di fare una relazione di servizio, di informare I’A.G. delle circostanze e delle ragioni per cui era entrato in possesso e senza neppure farne annotazione per lasciare memoria del fatto. Anzi, fece di più, dissuadendo lo stesso Tempesta dal presentare lui una relazione di servizio (come poi il M.llo Tempesta si risolse a fare 4 anni dopo), ed omettendo di svolgere qualsiasi indagine volta ad individuare l’autore di quello scritto e i suoi sodali che ne supportavano l’iniziativa volta a favorire alcuni dei mafiosi di maggiore spessore all’epoca detenuti in carcere: indagini che avrebbero potuto puntare al cuore di un territorio e di una famiglia mafiosa, quella di Altofonte, che era stata protagonista della stagione stragista e stava 'lavorando' ad altri progetti criminosi. Una simile indagine certamente avrebbe interferito (il contatto tra Mori e Tempesta sarebbe dell'agosto 1992, ndr) con l’iniziativa che in quel frangente stava a cuore dello stesso Mori, e cioè la trattativa intrapresa con i vertici di Cosa Nostra attraverso i contatti con Ciancimino, rischiando di pregiudicarne gli ulteriori sviluppi”.


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Il boss Leoluca Bagarella © Archivio Letizia Battaglia


Il dialogo che rafforza la minaccia
E' un dato di fatto che i Carabinieri non informarono l'autorità giudiziaria di quel contatto con Ciancimino (neanche Paolo Borsellino che, secondo la Corte d'Assise d'Appello fu tenuto all'oscuro dai Carabinieri anche nell'incontro che ebbero del 25 giugno 1992), né redassero alcuna informativa. Ma i giudici evidenziano anche un altro aspetto.
Pur mancando la prova del ruolo propulsivo di Calogero Mannino e "nella certezza che i Carabinieri non ebbero alcuna autorizzazione da parte di esponenti di Governo ad esplorare la possibilità di un negoziato con Cosa Nostra" secondo i giudici resta accertato "sul piano oggettivo, l'apporto che l'improvvida iniziativa dei Carabinieri, attraverso la sollecitazione a trovare un'intesa, trasmessa da Vito Ciancimino - per il tramite di Cinà - ai vertici mafiosi e la conseguente apertura, agli occhi dei medesimi vertici, di un canale di comunicazione con un'Autorità di Governo, sovraordinata a quelli che essi ritenevano suoi emissari, ebbe nel far sì che prendesse corpo e poi si rafforzasse, con il progredire dell'interlocuzione tra gli ufficiali del Ros e il Ciancimino, il proposito non più di una generica intimidazione, qual era quella che poteva rinvenirsi nei primi eclatanti delitti che scandirono lo sviluppo della strategia di contrapposizione frontale allo Stato iniziata con l'omicidio Lima, ma di un vero e proprio ricatto allo Stato. Un rafforzamento che ulteriore alimento avrebbe tratto persino dal "congelamento" della trattativa (e più esattamente della prima fase della trattativa che certamente vi fu tra Ciancimino e gli ufficiali del Ros), creando le premesse per il protrarsi e il rinnovarsi della condotta di minaccia, sino alla sua effettiva consumazione (almeno in danno in particolare del Governo Ciampi)".
E su questo punto la Corte "condivide le conclusioni cui è pervenuto il giudice di prime cure secondo cui il reato può dirsi consumato in ragione della ricezione della minaccia da parte dell'allora, Ministro della Giustizia Giovanni Conso".
Per la Corte anche quelle revoche del "carcere duro" decise nel ‘93 dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, miravano anch’esse a dividere Cosa nostra (una decisione presa, secondo i giudici, accogliendo il suggerimento di qualcuno che ben conosceva le dinamiche e che potrebbe individuarsi nell'ex vice direttore del Dap, Francesco Di Maggio, ndr).
“Non si può del tutto escludere - si legge in sentenza - che le richieste estorsive di Cosa Nostra abbiano raggiunto il Governo in carica, naturale destinatario, nella persona del ministro competente per materia, per una via diversa e autonoma rispetto all'interlocuzione iniziale, incentrata sull'intermediazione di Ciancimino e Cina'. E cioè con l'intervento di un fantomatico suggeritore del Di Maggio, diverso da Mori; o direttamente attraverso il messaggio intimidatorio contenuto negli attentati di Milano e Roma del 27-28 luglio che si saldavano alle strage di via dei Georgofili in un disegno unitario, condensato nell'espressione connotata da Luciano Violante 'bombe del dialogo': che nelle intenzioni dei vertici mafiosi, volevano essere una rinnovazione della minaccia che essi ritenevano essere già pervenuta al Governo attraverso il canale di comunicazione sperato”.


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L'ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro con l'allora capo della Polizia, Vincenzo Parisi, ai funerali delle vittime della strage di via D'Amelio © Imagoeconomica


La stoccata
La Corte critica i giudici di primo grado rispetto a ciò che la sentenza scrisse nei riguardi dell'ex ministro Conso e soprattutto l'ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Secondo i giudici d'appello fu "ingeneroso e fuorviante", nonché "frutto di un errore di sintassi giuridica", insinuare cedimenti alla mafia da parte di entrambi.
Eppure è un dato di fatto che in particolare Scalfaro ha mentito quando dichiarò ai pm di non saper nulla né della trattativa né rispetto all’avvicendamento di Amato ("Non ho alcun ricordo di Amato. Nessuno mi ha mai messo al corrente su presunte trattative o mancata proroga del 41 bis’").
Va ricordato, infatti, che nel corso del dibattimento di primo grado emerse in particolare un documento che, scriveva il Presidente Montalto, "smentisce inequivocabilmente ed incontestabilmente la negazione del Presidente Scalfaro": l'annotazione del 6 giugno 1993, rinvenuta sull'agenda dell'allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi. In questo appunto è scritto: "rappresenta di preoccupazioni per il seguito della successione di N. Amato alla Dir. Carceri; Conso avrebbe nominato anche un vice, troppo duro (Giuseppe Falcone, ndr). Suggerisce che gli venga affiancato Giudice Di Maggio: fa capire che è stato interessato da Parisi. Chiamo quest'ultimo, che conferma quanto sopra. Chiamo allora Conso che, al contrario, mi riferisce che tutto procede nel miglior modo; gli suggerisco di mandare messaggio che politica carceraria non cambia. E' d'accordo. Domani verrà da me. Riferisco a Scalfaro (il tutto fra 22 e 22,30)".
A tutti gli effetti una "conferma che il presidente Scalfaro, contrariamente a quanto aveva dichiarato al pm nel 2010, ebbe un ruolo attivo nella fase di sostituzione del direttore del Dap".


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Strage di via D'Amelio © Shobha


Strage Borsellino, nessuna accelerazione. Ucciso per "mafia-appalti"
Assolutamente discutibile è l'analisi che viene fatta nelle motivazioni della sentenza in merito all'esecuzione della strage di via D'Amelio laddove si parla di un'accelerazione del delitto inesistente. Per i giudici di primo grado quell'accelerazione, emersa anche in precedenti sentenze, è da ascrivere alla trattativa Stato-mafia.
I giudici di primo grado avevano accertato che Riina, nel luglio 1992, avesse cambiato i piani decidendo di eliminare Borsellino anche se quella strage non era nei programmi. E i giudici d'appello lo ricordano: “La Corte (nella sentenza di primo grado, ndr) reputa certamente provato, all’esito dell’istruttoria dibattimentale compiuta, che il generico e generale progetto di uccidere Borsellino … abbia subito una improvvisa accelerazione ed esecuzione, ancora una volta per volere di Salvatore Riina, proprio nei giorni immediatamente precedenti quello cui, poi, avvenne la strage di via D’Amelio”. Una ricostruzione basata sulle ricostruzioni di Giovanni Brusca (a cui fu chiesto di interrompere la preparazione dell’omicidio dell’ex ministro Calogero Mannino) e Salvatore Cancemi che raccontò quanto Riina disse a Raffaele Ganci (“La responsabilità è mia. Si deve fare ora. Sarà un bene per Cosa Nostra”).
Per la Corte d'Assise d'Appello non vi è mai stata alcuna accelerazione nell'esecuzione della strage del 19 luglio 1992 ("L'operazione Borsellino era già in itinere") ed anzi sostenere che l'intervallo temporale di soli 57 giorni "sia troppo esiguo, per non pensare all’intervento di uno o più fatti nuovi che abbiano imposto di abbreviare i tempi" rischia "che si annidi una suggestione psicologica collettiva del tutto legittima ben inteso ma che può inquinare il ragionamento", "come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l’altra per cui, pur disponendo dei mezzi, degli uomini delle capacità organizzative e tecnico-logistiche, nonché del potenziale bellico necessari all’impresa, Cosa Nostra avrebbe dovuto attendere più di due mesi (ma quanto di più, naturalmente, nessuno dei convinti assertori dell’accelerazione lo dice), prima di replicare un delitto altrettanto eclatante della strage di Capaci".


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Il magistrato Paolo Borsellino © Shobha


Per la Corte Borsellino, come del resto Falcone, erano stati condannati da tempo a morte. Ma l’attentato del 19 luglio 1992 “fu studiato alla giornata” come confermato dallo stesso capo dei capi intercettato in carcere a Opera nell’agosto del 2013. Parole, che per i giudici, rappresentano “un eccezionale riscontro”.
Poco importa se nei fatti quella strage non convenisse, in quanto in Parlamento erano in discussione proprio quei provvedimenti antimafia temuti da Cosa Nostra e fortemente voluti da Falcone. Provvedimenti che saranno approvati soltanto dopo la morte di Borsellino.
Dunque perché andare contro sé stessi? Delirio di onnipotenza. Cosa Nostra, o meglio, Riina, aveva già in piano di uccidere il giudice. Senza suggerimenti.
Per i giudici d'appello, eventualmente, "si può concedere che l'essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare non ebbe l'effetto di dare la precedenza all'attentato a Borsellino, sconvolgendo un'ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani", scrive la Corte. Semmai, si può credere che l'ordine di Riina per l'attentato di via D'Amelio "possa avere trovato origine nell'interessamento di Borsellino al rapporto mafia e appalti".
“Sono stati acquisiti – scrivono i giudici a supporto dell’ipotesi – elementi che comprovano l’intendimento del dottor Borsellino di studiare il fascicolo relativo rapporto 'mafia appalti' nel periodo compreso tra strage di Capaci e la strage via D’Amelio".
E poi spiegano che "ben si comprendono le perplessità di Paolo Borsellino a fronte dell'opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla Procura di Palermo nell'ambito di quello specifico filone investigativo". I giudici ricordano anche le "doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros". E fanno riferimento a quanto accadde nell'affollata assemblea plenaria che si tenne in Procura con i pm il 14 luglio del 1992, cioè appena cinque giorni prima della strage di via D'Amelio. "Il dottor Borsellino lo disse espressamente in quella assemblea", dicono, come "ben rammenta Luigi Patronaggio". I giudici poi, però, aggiungono nelle motivazioni: "Borsellino tenne un atteggiamento che non tradiva affatto sfiducia e diffidenza nei confronti dell'operato dei colleghi titolari del procedimento, ma, al contrario denotava la volontà di aprire un confronto sincero sul tema in discussione, come aperte e trasparenti furono le critiche e le perplessità e le richieste di chiarimenti esternate in quella sede (nell'assemblea in Procura del 14 luglio 1992 ndr)".
Nella sentenza vi è una lunga parte in cui si parla di tutto il caso mafia-appalti e viene anche smentita l'impostazione che fu data con il decreto di archiviazione del Gup di Caltanissetta Gilda Lo Forti, in particolare laddove si afferma che non vi fu una doppia informativa del rapporto.


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L'ex senatore, Marcello Dell'Utri © Imagoeconomica


Dell'Utri "implicato" nell'antefatto, ma non c'è prova
Per quanto riguarda l'ex senatore Marcello Dell'Utri (condannato in primo grado a 12 anni) i  giudici ribadiscono che "non si ha prova" che questi "nonostante le sue ramificate implicazioni nell'antefatto", "abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano". "Muovendo dalla posizione di Marcello Dell'Utri - scrivono- si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era Presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato - prosegue la Corte d'Assise d'Appello - come 'l'ultimo miglio' percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione… 'Al di là' del pieno coinvolgimento di Dell'Utri nell'accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita), sul quale sono state raccolte plurime e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello non si ha prova che - è scritto nelle motivazioni - a questa fase, qualificabile come un antefatto o antecedente non punibile, abbia fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione della minaccia a Berlusconi in qualità di parte offesa e di Presidente del Consiglio per ottenere l'adempimento, appunto sotto la minaccia mafiosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell'Utri nella precedente campagna elettorale".
E ancora: "Non risulta provato che oltre alla interlocuzione Mangano (Vittorio, ndr) Dell'Utri vi sia stata una interlocuzione di Dell'Utri con Silvio Berlusconi su questa tematica, tanto meno dopo l'insediamento del Governo Berlusconi, dovendo al riguardo ribadire, come fatto nei paragrafi che precedono (ed ai quali continua a farsi rinvio), la differenza tra un accordo politico-mafioso tout court (per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole) e la veicolazione della minaccia al Governo della Repubblica, soltanto questa capace di integrare la fattispecie delittuosa di cui all'art. 338 c.p. sotto il terribile ricatto della ripresa (o della prosecuzione) della stagione stragista che aveva insanguinato gli anni 1992 e 1993".

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L'uomo d'onore di Cosa nostra, Vittorio Mangano


Ma il tentativo di minaccia, in quel 1994 segnato dal fallito attentato allo stadio Olimpico e dalle morti dei carabinieri in Calabria, vi fu.
A idearlo in particolare Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca i quali, sfruttando i rapporti di conoscenza tra Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri volevano porre in essere un'iniziativa che, per la Corte “non era finalizzata a porre in essere nell’immediato l’ennesima 'prova di forza' minacciando il Governo della Repubblica, una compagine governativa che, per di più, in quel momento non era neppure rappresentata da Silvio Berlusconi, ma invece tesa a trovare un compiacente interlocutore per assicurare determinati risultati da tempo auspicati dalla compagine mafiosa in tema di ammorbidimento della legislazione antimafia e di modifiche ordinamentali del sistema penale e penitenziario paventando, quale funesta alternativa, il riprendere delle stragi”.
Dell’Utri, dunque, rappresentava una sorta di trampolino per assicurare, nel prossimo futuro, un’attenzione normativa alla questione caldeggiata da Cosa Nostra.
In conclusione scrive la Corte che è “indubbio che il progetto ricattatorio ripreso nel marzo del 1994 da questi soggetti (Bagarella e Brusca, ndr), dopo gli arresti prima di Riina ed a seguire dei fratelli Graviano (che avevano un loro canale di comunicazione con Dell’Utri), non sia stato portato a compimento, contrariamente alla volontà degli stessi Bagarella e Brusca, soltanto perché Dell’Utri non ha veicolato (rectius: non vi è la prova che lo abbia fatto) la minaccia fino al governo, in specie fino a Berlusconi quale presidente del Consiglio dei ministri”.

Gli incontri tra Dell'Utri ed i mafiosi
La Corte comunque, nella sentenza conferma che nel corso del processo sono emersi “elementi tali da far ritenere che in quel periodo, tra il 1993-1994, Dell’Utri abbia effettivamente incontrato personaggi mafiosi (non solo siciliani) per intessere un patto politico-mafioso nel quale si inserivano anche e, anzi, soprattutto, per quanto emerge in questo processo, gli incontri di Mangano con Dell’Utri per ricapitargli i desiderata di Cosa Nostra”.


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L'ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi © Imagoeconomica


Tuttavia, per la Corte, “non si dispone della prova altrettanto solida e completa circa il fatto che questo meccanismo di comunicazione sia andato a termine fino alla fine, cioè che Dell’Utri abbia a sua volta trasmesso tale messaggio, con la sua terribile carica intimidatoria, a Berlusconi né, tantomeno, si ha prova delle modalità di una possibile interlocuzione, qualora davvero intervenuta, tra Dell’Utri e Berlusconi dopo l’assunzione dell’incarico di governo da parte di quest’ultimo”.
Se, dunque, la condotta, che si è articolata anche dopo l’insediamento del Governo Berlusconi, rimane allo stadio del reato tentato, tuttavia rispetto alla pronuncia irrevocabile sopraddetta si ha adesso la consapevolezza di un passaggio ulteriore, per quanto non ultimo, nel senso che si ha prova dei contatti Mangano-Dell’Utri rimanendo, invece, indimostrati quelli ulteriori Dell’Utri-Berlusconi”.

L'appoggio elettorale di Cosa nostra a Forza Italia
Nella sentenza viene espresso in termini di certezza che Cosa Nostra aveva puntato sulla nuova forza politica rappresentata dal partito di Forza Italia e che c’era stata la decisione di appoggiarla nella convinzione che avrebbe garantito l’ottenimento dei benefici voluti dall’organizzazione mafiosa (“Cosa Nostra si era determinata in quel senso perché aveva ottenuto garanzie, per mezzo di Marcello Dell’Utri, che consentivano ai capi dell’organizzazione di spendersi verso gli associati chiedendo loro di appoggiare il nuovo partito scommettendo sul suo successo”).
Secondo i giudici, dunque, “si è registrata una convergenza di interessi tale da portare a votare Forza Italia sempre per il tornaconto dell’organizzazione mafiosa secondo un deplorevole accordo politico-mafioso siglato con Dell’Utri, ma non per questo tipo minaccioso-stragista.
In quella tornata elettorale vi fu chi, come appunto Marcello Dell’Utri, tramava (anche in ambito calabrese per come si vedrà appresso) per assicurare certi risultati dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi”. E Dell'Utri “portò avanti, su input, tra gli altri, di Bernardo Provenzano e Giuseppe Graviano, quest’opera di mediazione per canalizzare il voto mafioso in previsione di assicurare dei vantaggi all’organizzazione. Un’iniziativa che, come visto, atteneva all’antefatto del reato di cui all’art. 338 c.p. e che restava, soprattutto, diversa da quell’azione, che interessa questo processo, assunta su diretta iniziativa di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, per veicolare la minaccia stragista al Governo della Repubblica insediatosi dopo il 1994”.


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L'ex ministro della Giustizia, Alfredo Biondi © Imagoeconomica


Il decreto Biondi
Uno dei punti chiave nella sentenza di primo grado si fondava sul decreto Biondi, anche noto come “Salvaladri” che il governo Berlusconi voleva varare nel luglio 1994.
Con quella normativa si vietava la custodia cautelare in carcere (trasformata al massimo in arresti domiciliari) per i reati contro la Pubblica Amministrazione e quelli finanziari, comprese corruzione e concussione. Un decreto che avevano evidenziato i giudici della Corte d'Assise di Palermo e interveniva sull'articolo 275 del codice di procedura penale.
Scrivono i giudici d'appello: “È stato effettivamente riscontrato che tra le pieghe nascoste del decreto 14 luglio 1994 n. 440, v’era anche una piccola modifica dell’art. 275 c.p.p. nella parte in cui stabiliva che per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. dovesse essere sempre applicata la misura della custodia cautelare in carcere salvo che non fossero acquisiti elementi tali da escludere la sussistenza delle esigenze cautelari. Si trattava in sostanza di quella presunzione di legge che, di fatto, imponeva il carcere per gli indagati di mafia arrestati”. Anche se si è ritenuto che Cucuzza abbia appreso da Mangano di tale piccola modifica riguardante il 416bis, questa non può arrivare ad “asseverare anche l’interlocuzione finale di Dell’Utri con Berlusconi in qualità di Presidente del Consiglio dei ministri e soprattutto quale destinatario del reato aggravato di cui all’art. 338 c.p.”
E poi ancora: “La conoscenza in anteprima di questa modifica normativa da parte di Mangano per tramite di Dell’Utri non esaurisce la tematica della consumazione del reato in danno del Presidente Berlusconi”, trattandosi solo di un antecedente causale.
In conclusione, “si ritiene che all’esito dell’istruttoria siano emersi degli elementi in grado di confermare il racconto di Cucuzza con specifico riferimento a questo contatto collocabile nell’estate del 1994 tra Mangano e Dell’Utri e nel quale Mangano ha appreso, in assoluta anteprima, della modifica del regime processuale dell’arresto per il reato di cui all’art. 416 bis”.


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La strage dei Georgofili a Firenze tra la notte del 26 e 27 maggio 1993


La ricerca della verità
Una cosa è certa questa sentenza “Trattativa” farà discutere e potrebbe avere effetti anche in altre inchieste. Ci sono tanti e troppi argomenti su cui vi è un forte alone di mistero. Ed alcuni di essi vengono affrontati nel prologo dalla stessa Corte d'Assise d'Appello laddove si afferma che "le vicende oggetto di questo processo lasciano intravedere una dimensione che va ben oltre i limiti accessibili ad una verità modesta qual è la verità processuale, la cui ricerca si snoda lungo un sentiero stretto".
Si fa riferimento alle indagini sui contatti ed i legami tra le organizzazioni criminali mafiose e esponenti dei Servizi segreti ed ai rapporti con personaggi al contempo intranei alla ‘Ndrangheta e vicini a o membri di organizzazioni gravitanti nell’area dell’eversione neo fascista (in riferimento al racconto dei collaboratori di giustizia nel processo 'Ndrangheta stragista).
E poi ancora la Falange Armata, sigla con cui sono stati rivendicati numerosissimi episodi delittuosi (dall’omicidio Lima al gesto dimostrativo dell’obice di mortaio fatto trovare al Giardino dei Boboli a Firenze; e poi l’attentato di via Fauro a Roma, la strage di via dei Georgofili a Firenze, i successivi attentati di Roma e Milano nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993).
Ancora la Corte indica che "le indagini sui c.d. mandanti occulti delle stragi, sia quelle siciliane del "92 che le stragi in continente dell’anno successivo. E la vicenda della mancata strage allo Stadio Olimpico di Roma, prevista per il 23 gennaio 1994, che, nei propositi vagheggiati da Giuseppe Graviano, avrebbe dovuto coronare una strategia destabilizzante volta a ridurre lo Stato in ginocchio e cambiare per sempre il volto e le sorti del Paese".
Ed ugualmente accenna ai "buchi neri" su alcuni casi specifici a cominciare dal "suicidio" di Antonino Gioé (il primo degli esecutori della strage di Capaci ad essere arrestato in quel “covo” di via Ughetti dove si nascondeva, pur non essendo attinto da ordini di custodia cautelare insieme al suo sodale, Gioacchino La Barbera, arrestato qualche giorno dopo nel nord Italia: e in quello stesso stabile erano ubicati appartamenti in uso ai servizi), trovato cadavere, e appeso per le stringhe delle scarpe da ginnastica a una sbarra della cella romana di Rebibbia dove era detenuto.


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Il Tribunale di Palermo © Paolo Bassani


La Corte fa riferimento anche al duplice omicidio di Vincenzo Milazzo e della fidanzata, Antonella Bonomo "che vide mobilitati in prima persona, nella deliberazione e poi nell'esecuzione del duplice delitto, lo stesso Salvatore Riina e alcuni dei capi corleonesi a lui più vicini, e che venne commesso nei giorni in cui fervevano i preparativi per la strage di via D'Amelio; il ruolo di Paolo Bellini, (proveniente dalle fila dell’eversione nera, divenuto killer della 'Ndrangheta, sospettato dagli stessi mafiosi cui era in contatto, ma non solo da loro, di trescare con i Servizi e recentemente condannato in primo grado come esecutore della strage di Bologna), quale suggeritore dell’opportunità, per Cosa Nostra, di mutare target nella scelta degli obbiettivi degli attentati da realizzare, e che sarebbero stati lumeggiati già a partire dalla fine estate - autunno del ’92". "Sarebbero tutti temi meritevoli di approfondimento - si legge - mentre questa Corte non ha potuto dedicarvi nulla di più che qualche fugace cenno".
Ovviamente, in particolare tenendo conto delle nuove considerazioni su Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi, il processo potrebbe influenzare anche l’inchiesta della procura di Firenze che vede indagati come mandanti esterni delle stragi del 1993 l’ex senatore Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.
La Corte dice che l’esponente politico avrebbe avuto rapporti con esponenti mafiosi fino al 1994 e non fino al 1992, come stabilito dalla sentenza che ha condannato Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. Un'invasione di campo, nel momento in cui non sono state acquisite agli atti del processo, sembrerebbe essere la considerazione sulle più recenti esternazioni rilasciate (tra memoriali ed esame in aula) del boss stragista Giuseppe Graviano nel processo 'Ndrangheta stragista (dove è imputato ed è stato condannato all'ergastolo in primo grado). Un fiume di parole su presunti rapporti con l’ex premier e fondatore di Forza Italia, Berlusconi. Per i giudici sarebbero "di dubbia valenza", poiché rese da un "soggetto enigmatico" che "non ha intrapreso alcun percorso di collaborazione né ha fornito corretti segni di dissociazione", ma è chiaro che la valutazione è in corso.
La procuratrice generale Lia Sava, interpellata sulla sentenza, ha annunciato: "Leggeremo con attenzione le tremila pagine della sentenza e valuteremo gli spazi per il ricorso in Cassazione". La storia del processo trattativa Stato-mafia, dunque, potrebbe non essere chiusa. Per rassegnare le ragioni alla Suprema Corte c'è tempo fino al 15 ottobre.

*Hanno collaborato Luca Grossi, Marta Capaccioni e Jamil El Sadi

In foto di copertina: rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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