La rete diretta da Freccero ipocrita e democristiana
di Giorgio Bongiovanni
Finalmente, a sei anni dalla sua presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia, l'ottimo film di Sabina Guzzanti, “La Trattativa” è stato trasmesso sulle reti della Tv di Stato. Un film "scomodo" che ha visto una "censura” cinematografica senza precedenti, superato soprattutto grazie all’impegno di associazioni e liberi cittadini che hanno organizzato oltre 750 proiezioni in tutta Italia. Cittadini che si sono anche adoperati con una raccolta firme, sottoscritta da oltre ventimila persone, proprio per chiedere alla Rai di mandare in onda la pellicola. Appena un anno fa l'allora dg Mario Orfeo mostrò il proprio ostracismo bollandolo come un "film vecchio, che non ha avuto successo” ma dopo la sentenza di primo grado, che ha visto la condanna mafiosi, politici e figure istituzionali, e con il deposito delle motivazioni della stessa proseguire con il divieto non aveva alcun senso.
Così Carlo Freccero, direttore di Rai 2, si è adoperato per rompere il "muro" e mandare il film in onda. Peccato che il "coraggio" della seconda rete della tv di Stato si è ipocritamente dissolto con il dibattito che ha seguito il film. Una trasmissione, quella condotta da Andrea Montanari, che ha avuto uno stampo ampiamente "democristiano", con colpi al cerchio e alla botte, più impegnato a mostrare un volto di uno Stato trionfante ed esente da responsabilità, con una mafia meramente sconfitta, che a rappresentare le evidenze dimostrate nel corso del processo.
Erano stati invitati il sostituto procuratore nazionale antimafia, Antonino Di Matteo (assieme a Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia membro del pool che ha condotto l'accusa in primo grado) e gli avvocati di Marcello Dell’Utri e del prefetto Mario Mori, ma tutti, per ragioni diverse, hanno declinato l’invito.
Così, ospiti in studio vi erano Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, Giuseppe Sottile de Il Foglio, Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia e in collegamento Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano.
Al di là delle ottime esposizioni di quest'ultimo, nonostante le poche volte in cui è stato interpellato, e la ricostruzione di Bianconi ricordando alcuni passaggi chiave del processo e delle motivazioni della sentenza, abbiamo assistito ad una bolgia di interventi mono direzionali, compresi i servizi con le interviste a monsignor Fabbri e al colonnello Sergio De Caprio (alias capitano Ultimo).
Proprio nell'intervento del militare viene trasmesso un messaggio pericolosissimo volto a minimizzare le indagini, che continuano, sulle stragi e sui mandanti esterni. "Si rischia sempre di minimizzare il ruolo di Cosa nostra nelle stragi e negli eventi criminali" ha detto Ultimo rispondendo alla domanda di Montanari. Il giornalista ha incalzato: "Magari dando responsabilità a poteri superiori ed esterni". E De Caprio ha risposto: "Questo meccanismo è pericolosissimo perché facciamo vincere quelli che hanno perso, ovvero la mafia". All'uomo che ha messo le manette ai polsi del "Capo dei capi", Totò Riina. Non sono state fatte le domande più scomode, a cominciare dal perché, senza avvisare la magistratura, decise di staccare le telecamere che sorvegliavano il covo e che così facendo restò incustodito per 18 giorni. Come ha ricordato Bianconi anche le sentenze di assoluzione sulla mancata perquisizione del covo nei confronti di Mori e De Caprio evidenziano una serie di azioni poco limpide.
A difendere il Ros, addirittura andando contro a ogni evidenza processuale, il senatore Maurizio Gasparri che accetta la trattativa solo laddove è il Governo Ciampi, in particolare nella figura del ministro della Giustizia Conso, ma anche con l'intervento dell'ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Per il resto quelli del politico di Forza Italia sono per lo più sproloqui volti a demolire la figura di Massimo Ciancimino (la sentenza di primo grado spiega chiaramente che ci sono parti vere e parti false nelle sue dichiarazioni, scegliendo comunque di non considerarle per il giudizio) colpire Michele Santoro, l'ex pm Antonio Ingroia e spulciare presunti successi del centrodestra nella lotta alla mafia. Come abbiamo consigliato nei giorni scorsi alla vice presidente della Camera Mara Carfagna, anche Gasparri, prima di parlare di certi temi, farebbe meglio a dimettersi da quel partito fondato da un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Una sentenza che Gasparri evita di pronunciare e che definisce chiaramente i ruoli dell'ex senatore Marcello Dell'Utri e dell'ex premier Silvio Berlusconi.
Ma evidentemente per Gasparri non è un problema il fatto che “la sistematicità nell'erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell'Utri a Cinà (Gaetano Cinà, boss mafioso, ndr) sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all'accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”.
Con tutto il rispetto per l'anzianità di decani del giornalismo come Giuseppe Sottile e Francesco La Licata, anche le loro esternazioni sono state zeppe di preconcetti. Ma se sulle esternazioni democristiane di Sottile (addirittura ha sostenuto a sostenere che "la mafia ha perso ed è morta murata nel'92" e che oggi vi è un "rimasuglio di mafia", in barba alla stima dei 180 miliardi di euro l'anno che ogni anno le criminalità organizzate mettono in piedi), basate più su valutazioni esterne ai fatti del processo, non potevano esserci dubbi, può stupire la posizione di Francesco La Licata. Lo storico giornalista de La Stampa è arrivato anche a contraddire sé stesso, lui che è stato autore con Massimo Ciancimino del libro Don Vito, a lungo nelle classifiche e che è stato tradotto anche all'estero. Addirittura è riuscito ad attribuire a Giovanni Falcone un giudizio "post mortem" sul processo Stato-mafia dicendo che il giudice "non avrebbe voluto un processo così". E per rafforzare questo convincimento ha evidenziato che Falcone "non volle, quando finì l'istruzione del maxi processo, mischiare la mafia con la politica. Non perché lui volesse proteggere la politica da chissà quali accuse ma perché capiva che questo miscuglio, tra mafia e politica, avrebbe portato inevitabilmente all'annullamento di tutti gli sforzi fatti per mandare alla sbarra i mafiosi".
Una considerazione del tutto "gratuita" in primis perché bisogna sempre contestualizzare i momenti storici e al tempo del maxi processo si viveva una stagione dove, fino a quel momento, la mafia l'aveva sempre fatta franca. La musica cambiò a partire da quel momento e, grazie anche al contributo dei collaboratori di giustizia e alle ulteriori indagini, anche i rapporti di potere, alti ed altri, tra mafia, politica ed economia, furono disviati.
Inoltre sostenere che Falcone ritenesse che il rapporto tra mafia e politica non dovesse entrare nei processi, o non dovesse essere discusso, è assolutamente pretestuoso. Già nell'aprile 1986, in un convegno a Courmayeur dal titolo "La legislazione premiale", il magistrato, ucciso a Capaci il 23 maggio 1992, parlava dell'esistenza di “realtà estremamente inquietanti e particolarmente complesse, fatte di ibridi connubi fra criminalità organizzata, centri di poteri extraistituzionali e settori devianti dello Stato, che hanno la responsabilità di avere tentato ad un certo punto perfino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di avere ispirato crimini efferati”.
Già allora Falcone aveva intuito il "gioco grande" e nel 1989, vi è stata la seconda conferma quando, commentando con il giornalista Saverio Lodato l'attentato subito all'Addaura, parlò chiaramente dell'esistenza di "menti raffinatissime".
Ma su questi fatti, spesso, si preferisce far finta di dimenticare.
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