di Davide de Bari - Video e Foto
Il direttore Bongiovanni: “I mandanti esterni delle stragi? Ancora oggi sono presenti”
“E’ un libro di testimonianza e di racconto di fronte al silenzio. E’ un atto di provocazione e diffida perché si racconta ciò che non deve essere raccontato”. E’ così che Antonio Ingroia ha esordito a Palermo alla presentazione del suo nuovo libro“Le Trattative”, scritto con il giornalista Pietro Orsatti. In una sala piena di gente, l’ex magistrato ha raccontato ancora una volta del tentativo dell’ex direttore di Repubblica, Ezio Mauro, di mediare tra la procura di Palermo e il Quirinale prima che venisse sollevato il conflitto d’attribuzione. “Pensavo che volesse fare da paciere per conto del fondatore di Repubblica che attaccava la procura di Palermo - ha spiegato Ingroia - Mi aspettavo che Ezio Mauro mi portasse un messaggio di Scalfari e non il messaggio del presidente della Repubblica”. E poi ha ricordato che ancora oggi “Ezio Mauro non ha commentato in alcun modo o nemmeno smentito questa mia rivelazione nel libro”. Ripercorrendo quel momento storico l’ex pm ha ricordato che era certo l’esito del conflitto di attribuzione fin dal momento in cui fu sollevato: “Come Gustavo Zagrebelsky aveva scritto, se ci sarebbe stato il conflitto di attribuzione la Corte Costituzionale non aveva scelta, perché aveva su un piatto l’indagine sulla trattativa e dall’altro la più altra carica dello Stato. E quindi - ha concluso Ingroia - se la corte avesse dato ragione alla procura di Palermo, avrebbe innescato una crisi politica, con le dimissioni del presidente Napolitano, in un momento delicato per la vita politica della nazione". Secondo l’avvocato quando fu sollevato il conflitto di attribuzione “il rubinetto dell’accertamento della verità è stato chiuso. Chi ha arrestato quel rubinetto ha un nome e un cognome e si chiama Giorgio Napolitano”.
Ingroia ha anche parlato del processo trattativa Stato-mafia ed ha evidenziato come questo è il primo processo in tutta la storia d’Italia in cui vengono condannati boss mafiosi e personaggi istituzionali. Nel corso della presentazione, poi, non si è parlato solo di trattativa Stato-mafia ma anche del processo Borsellino quater e dello scenario che oggi si presenta dopo la sentenza e le motivazioni rese note qualche settimana fa. Per Ingroia con la strage di via D’Amelio è stato messo in atto “il più grave depistaggio della storia del nostro paese” e tutto questo per “salvare lo Stato”. Uno Stato che “da una parte - ha continuato - ha trattato con la mafia, che l’ha aiutato a trattare con lo Stato; minacciando tre governi: Amato, Ciampi e Berlusconi. E quello stesso Stato responsabile - oggi lo possiamo dire - della strage di Stato, nella quale sono stati uccisi Paolo Borsellino e gli uomini della scorta, ha depistato le indagini, affinché la verità non venisse fuori”. E poi: "Arnaldo La Barbera, all’epoca dirigente della Squadra mobile, poi si è scoperto essere stato a libro paga dei servizi segreti (nel 1986 e nel 1987, ndr). Agli stessi servizi, al numero due Bruno Contrada, arrestato qualche mese dopo, il procuratore capo di Caltanissetta del tempo aveva affidato le indagini sulla strage di via D’Amelio”.
Per Ingroia è “impensabile che quello Stato abbia messo in atto il più grande depistaggio della storia per salvare qualche mafioso. Se l’avesse fatto, l’ha fatto solo per salvare se stesso”.
Alla presentazione, dal pubblico, è intervenuto l’ex direttore del “Giornale di Sicilia", Giovanni Pepi, che partendo dal titolo del libro ha parlato del rapporto tra società e mafia e del cambiamento di quest’ultimi negli ultimi 35 anni. E infine si è chiesto: “Perché non guardiamo ai risultati attuali nel contrasto alla mafia?”. In risposta, l’avvocato ha sostenuto che “la strada da percorere nella lotta alla mafia è ancora lunga” e si è chiesto “perché la mafia ha una storia così lunga?”. Secondo Ingroia “dallo Stato post unitario fino ad oggi, lo Stato ha sempre scelto le trattative e i patti sotto banco con i poteri criminali. Questa è la ragione del perché ancora oggi non ci siamo liberati della mafia”. E questo è successo sia “nello sbarco delle truppe anglo americane in Sicilia in cui ci fu all’origine una trattativa e un patto, intermediato da Lucky Luciano”, e nella strage di Portella della Ginestra, nel periodo del bipolarismo tra Russia e Usa, in cui la mafia fece da “guardiano armato del patto atlantico”. E per finire nel ’92 - ‘93 in cui bisognava “rigenerare e ristrutturare i rapporti con la politica di cui la mafia ha bisogno come l’ossigeno. Perché la mafia non sarebbe mafia se non avesse il rapporto con la politica. E’ questo è accaduto nel ’92 e ‘94”.
La ricerca della verità e i mandanti esterni
All’incontro moderato dal giornalista de “Il Fatto Quotidiano”, Giuseppe Lo Bianco, è intervenuto anche il direttore di ANTIMAFIADuemila, Giorgio Bongiovanni che ha evidenziato come la lettura di questo libro a “trecentosessanta gradi” spiega “determinati eventi, come le stragi e alcuni omicidi eccellenti, che secondo gli autori, dietro a questi c’erano dei moventi ‘esterni’ e cioè la situazione della politica internazionale: la crisi politica, la guerra fredda, le grandi proteste”. E che quindi “ogni qualvolta nel nostro Paese è cambiato il clima politico, purtroppo, accadevano le stragi”. Per Bongiovanni le stragi del ’92 e ’93 sono state commesse “perché bisognava garantire determinati equilibri di potere ad alcune persone, che ancora oggi detengono. E quel sistema di potere che ha ordinato quelle stragi (’92 e ’93, ndr) ancora oggi è presente”. Successivamente il direttore ha spiegato che “i narcos più potenti al mondo sono nel nostro paese, fatturano 80 miliardi all’anno. Il fatturato delle mafia in Italia è di 150 miliardi” per poi chiedersi se la mafia, alla luce di tali numeri, può ricattare lo Stato. Una risposta affermativa se si considera anche quanto detto dal Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, da lui intervistato: "Gratteri ha spiegato dove la ‘ndrangheta sta investendo i propri capitali. Sta comprando l’informazione quindi è logico che l’informazione non può seguire determinati processi se i grandi impresari della mafia investono in essa”. Bongiovanni ha poi espresso alcune considerazioni sul neonato "governo gialloverde" ravvisando che sulla lotta alla mafia i segnali sono tutt'altro che positivi: “Nessuno, durante la campagna elettorale, ha detto che la lotta alla mafia sarebbe stata la priorità assoluta del governo, che avrebbero cercato in tutti modi di trovare i mandanti esterni delle stragi; di fare una lotta forte contro i poteri forti”. Per il direttore di ANTIMAFIADuemila, se oggi siamo davanti a un cambiamento positivo “non è possibile che pubblici ministeri che stanno facendo la lotta alla mafia siano ancora oggi minacciati. A Reggio Calabria, c’è un pm che si chiama Giuseppe Lombardo a cui hanno costruito una casa bunker. Un altro è Nicola Gratteri. Lombardo sta portando avanti il processo ‘ndrangheta stragista, mentre Gratteri è uno dei più importanti esperti al mondo di traffico di droga. Come anche il pm Nino Di Matteo”. Secondo Bongiovanni c’è “un'apparente calma che mi preoccupa molto. Se personaggi come Ingroia, Di Matteo e altri volessero andare avanti, c’è il pericolo di nuove stragi; perché non si può tagliare questo filo che ancora lega lo Stato italiano alle organizzazioni criminali. Poiché queste ultime sono lo strumento di mantenimento del potere con la violenza”. E per tagliare questo legame, lo si può fare solo spiegando “ai cittadini che quando si va a votare, bisogna andarci coscienti e convinti che chi va al potere voglia realmente tagliare i legami con le organizzazioni mafiose. Finché non lo fa nessuno significa che ancora oggi quei mandanti esterni sono ancora presenti”.
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Se l’indagine fosse andata avanti
Durante l’incontro il direttore ha sostenuto che se l’indagine della trattativa fosse andata avanti e se oggi “fosse rimasto in vita l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro sarebbe stato imputato e anche condannato. Se fossero rimasti vivi Riina e Provenzano sarebbero stati condannati. Quindi noi avremmo avuto una sentenza non storica, ma inquietante e drammatica. La condanna di un presidente della Repubblica a 10 - 12 anni di carcere, insieme alla condanna dei capi della mafia a 20 - 30 anni”.
Inoltre sull’utilizzo del conflitto di attribuzione da parte di Napolitano, il direttore ha spiegato che “un presidente della Repubblica come Napolitano ha cercato di fare carte false per tutelare quel tipo di Stato. Era logico che doveva inventarsi qualcosa per fermare i pubblici ministeri che stavano andando avanti”.
Bongiovanni ha anche ricordato una promessa che l’ex presidente avrebbe fatto durante il suo mandato: “Napolitano aveva giurato che avrebbe scoperto l’armadio dei segreti all’interno del ministero dell’Interno”.
Alla fine del suo intervento, il direttore ha evidenziato che anche l’attuale governo “non sta facendo diversamente (dai precedenti, ndr), perché avrebbe dovuto nominare al ministero dell’Interno il magistrato Nino Di Matteo, che avrebbe aperto quell’armadio dei segreti. Di Maio l’ha chiamato prima proponendogli il ministero dell’Interno e poi in un secondo momento ha fatto marcia indietro. Poi l’hanno chiamato come direttore del Dap e i mafiosi hanno espresso parere contrario dalle carceri. Dopodiché il ministro Bonafede ha cambiato idea. Dando queste risposte il Governo rischia di creare legami con le organizzazioni criminali".
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