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Il Geometra Lipari
Ma il tavolo delle trattative era aperto soprattutto a Pino Lipari, il braccio economico di Binnu. Si conoscevano da quando don Vito lavorava “all’assessorato ai Lavori Pubblici e lui all’Anas”. Il geometra “a volte veniva sostituito da Cannella o da altri personaggi per problemi giudiziari ma il loro rapporto è rimasto costante”. Infatti al termine del confino forzato è proprio grazie a Pino Lipari che don Vito, nonostante un divieto di soggiorno a Palermo, trova un posto sicuro in città per incontrare i suoi amici. “Nacque così l’idea che la figlia di Lipari, avvocato, potesse prendere in affitto come studio un immobile che si era liberato all’interno dello stesso stabile dove vivevamo noi all’85 R di via Sciuti”. In questo studio avvenivano gli incontri tra Lipari e Ciancimino o tra questi e Provenzano. Altre volte invece Ciancimino si incontrava col geometra dell’Anas “nell’appartamento dei suoi cugini, i D’Amico, al numero 85 H”. Con questo escamotage passando dall’interno dello stabile, senza dare nell’occhio don Vito si vedeva tranquillamente con Provenzano, Lipari e Cannella.
Per don Masino era una questione d’onore
Con quest’ultimo, nell’ ’83 circa, l’ex sindaco si era anche incontrato più e più volte per appianare un contrasto sorto dopo un “incidente” che aveva riguardato il cugino di don Masino Giovanni Mercadante.
In quel periodo la moglie del medico aveva avuto una relazione con il nipote di Pino Lipari Vincenzo “Enzo” D’Amico il quale, attraverso la sua ditta di materiale medico – ospedaliero (“nella quale vi erano gli interessi di Carmelo Gariffo, nipote di Provenzano”), riforniva da qualche tempo lo studio clinico di suo marito. La vicenda amorosa tra i due, oltre a suscitare la collera del medico (che si sarebbe voluto vendicare uccidendo l’uomo) avrebbe anche creato una spaccatura nel rapporto tra Lipari e Cannella in quanto questi la riteneva una “mancanza di rispetto” inaccettabile nei suoi confronti. Secondo il racconto infatti sarebbe stato lui ad accreditare “la ditta del D’Amico a operare e poter avere dei vantaggi attraverso queste strutture sanitarie e lo stesso non si era comportato secondo i canoni che sarebbero dovuti essere… più opportuni”. Per appianare i contrasti era dunque intervenuto don Vito che per volontà di Provenzano aveva evitato che questa storia degenerasse. Così, per il bene di tutti, e per salvare Enzo D’Amico da “un finale poco carino” decise di farlo partire in Brasile per tre anni. Poi con un piccolo indulto dopo un anno e mezzo tornò. Una storia che il teste dice di apprendere da suo padre e di averne avuto conferma dalla fidanzata di allora, la figlia dello stesso dott. Mercadante, poi costretta ad andare in Inghilterra dal padre perché contrario alla loro unione.
“Nel 1992 l’esigenza era di vedersi di più”
Retroscena questi che mettono in evidenza una serie di rapporti che coinvolgono direttamente Mercadante, accusato in questo processo di associazione mafiosa, ma soprattutto che risaltano il duplice compito che Provenzano attribuiva a don Vito: quello di mediatore e di consigliere. In entrambi i casi il capomafia lo ascoltava perchè, come affermava Giuffrè, “era la sua mente grigia”. Un rapporto simbiotico che li vedrà uniti negli anni della loro espansione, durante la residenza forzata di don Vito a Rotello e nel corso del 1992. Proprio “in quel periodo – ha raccontato il teste - c’era un’esigenza momentanea di vedere Provenzano un po’ più spesso e siamo andati due o tre volte a Palermo per incontrarlo”. Era l’anno delle stragi e Ciancimino junior sapeva bene che quei ripetuti incontri erano dovuti al ruolo attivo di suo padre nella cosiddetta “Trattativa” che alcuni uomini del Ros in quel ’92 intavolarono con Cosa Nostra. Un capitolo che rimanda alle dodici richieste di Riina in cambio della fine della strategia stragista, alcune ritenute inaccettabili dallo stesso Ciancimino padre. Ma sulla vicenda Ciancimino non va oltre “è argomento di altro processo” dice. Saranno i magistrati Nino Di Matteo e l’aggiunto Antonio Ingroia ad interrogarlo prossimamente in merito a questi episodi nell’ambito del processo in corso a Palermo contro l’ex capo dei servizi segreti Mario Mori e il tenente Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento alla mafia per la mancata cattura di Provenzano nel 1995 nelle campagne di Mezzojuso. Ciò perché l’ufficio del Pubblico Ministero intende contestualizzare le sue dichiarazioni legandole ai motivi che hanno portato a quel mancato blitz e inserendole in un «contesto causale che trae la propria origine a partire dal periodo a cavallo tra la Strage di Capaci e quella di via d’Amelio, nei rapporti intrattenuti da Mori con Vito Ciancimino». Fatti che potrebbero far emergere un accordo segreto, sfociato poi nell’apertura di un ombrello protettivo che ha permesso al capo di Cosa Nostra di vivere indisturbato questi anni di latitanza nella sua Sicilia e non solo. Infatti quando anni dopo a don Vito nel 2000 vengono concessi i domiciliari Provenzano lo va a trovare nella sua casa romana di via San Sebastianello: “si sono visti due, tre, quattro volte – ha detto il figlio - e in almeno due occasioni mio padre mi aveva messo al corrente perché avrei dovuto dire alla ragazza rumena che lavorava da noi di non venire. Mi aveva chiesto di aspettare il suo arrivo e poi di allontanarmi restando comunque nell’abitazione per vedere se c’erano movimenti strani”. “Alla fine non è che potevo fare chissà ché… mi sono solo occupato di aprirgli la porta, farlo entrare nella stanza di mio padre, chiudere le finestre e le imposte… mio padre aveva la mania delle intercettazioni telefoniche… Arrivava Provenzano e io dovevo stare giù in zona. Poi mio padre mi chiamava usando il telefono e io salivo su mentre il Lo Verde andava via senza nemmeno passare di sotto”. Le sue visite in quella casa avvennero soprattutto tra il 2000 e il 2001 ma “io lo vidi solo due volte. Una volta venni rimproverato perché invece non ero presente”.