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di Silvia Cordella - 20 maggio 2009
Il figlio minore di don Vito racconta quarant’anni inediti del rapporto tra don Vito e il capo di Cosa Nostra. È comparso per la prima volta in qualità di testimone, come imputato di
reato connesso, in un processo di mafia.
L’esordio per Massimo
Ciancimino è avvenuto il due maggio scorso in una trasferta milanese
del Tribunale di Palermo che sta processando Bernardo Provenzano,
Antonino Cinà e l’ex deputato di Fi Giovanni Mercadante nell’ambito del
processo “Gotha”. La Corte ha accolto la richiesta del pm Nino Di
Matteo e per un’esigenza di sicurezza del teste, destinatario in
questi ultimi mesi di lettere e atti intimidatori, ha raggiunto il
capoluogo lombardo per ascoltarlo. Per più di quattro ore Ciancimino ha
risposto alle domande del magistrato e del giudice Bruno Fasciana che
ogni tanto è intervenuto per capire meglio la natura di quel rapporto
che per trent’anni ha vincolato in modo viscerale don Vito a Bernardo
Provenzano. Nessuna interruzione da parte della difesa viene ammessa,
si valuta l’attendibilità del teste perché Ciancimino Junior è già
stato condannato a 5 anni e 8 mesi in un processo per riciclaggio e
intestazione fittizia di beni, tuttora pendente in fase di appello a
Palermo. Le domande del pubblico ministero sono precise come precise
devono essere le risposte. Dunque il testimone parla dei suoi trascorsi
familiari, del periodo in cui il padre lo aveva trascinato con sé quasi
per preservarlo da quella vita da scavezzacollo che lui amava fare.
Tolto dalla strada, appena presa la patente, don Vito lo aveva voluto
come autista personale. Una vicinanza che aveva finito per saldare
irrimediabilmente la sua vita a quella di un padre padrone,
intransigente e tutto d’un pezzo, finendo poi per stargli accanto
durante la lunga trafila giudiziaria: dall’arresto dell’84 fino al
confino forzato nella zona di Campobasso, alla nuova detenzione tra il
’92 ed il ’99. Ed ancora i domiciliari ottenuti nel 2000 scontati nel
suo appartamento romano di via San Sebastianello, durante gli ultimi
due anni della sua vita. Don Vito morirà il 19 novembre 2002 a causa di
un malore, ma prima di andarsene (reduce da un ictus e un problema al
femore) era stato autorizzato dal medico a fare delle passeggiate
giornaliere e a parlare per ricordare e mantenere vive le sue funzioni
mnemoniche. È stato così che è nata l’idea di scrivere un libro. Ciò
che venne fuori invece fu un memoriale in cui il vecchio corleonese
soddisfava finalmente tutte le domande del figlio, scrivendo di suo
pugno le risposte. Lì – ha confessato Massimo Ciancimino – ho capito
“in modo più ampio la natura del rapporto di mio padre in questa
organizzazione”.
La maledizione del Sindaco

Don Vito era la quintessenza del pensiero provenzaniano e della vecchia
borghesia mafiosa democristiana dell’isola. Aveva ‘sposato’ sin dagli
anni cinquanta la filosofia della ‘mimetizzazione’ nelle file
dell’Azione Cattolica avviata dal dottore Michele Navarra, con cui
condivideva la parentela acquisita con i fratelli Maiuri, suoi
luogotenenti. Il mantello dello scudo crociato gli portò bene e in nome
di quello ottenne molti successi fino a diventare assessore ai Lavori
pubblici di Palermo (dal 1959 al 1964) e Sindaco della stessa città
(1970-71). Ma quello con la famiglia era un rapporto distante. Con suo
figlio Massimo soprattutto era “molto contrastato” perché, ha detto
lui, “non rispecchiavo i canoni e le impostazioni di mio padre. Per i
miei atteggiamenti venivo considerato un figlio, un po’ così… fuori
regola. Poi – precisa - , non per scelta ma nemmeno per colpa, avevo
assunto questa posizione di stargli accanto perché ero il figlio meno
impegnato in studi o in attività lavorative”. Alla fine però don Vito
riconosce al figlio “il merito” di saper tenere contatti con l’ambiente
della magistratura e con quello degli avvocati per cercare di
“beneficiare di qualche piccolo vantaggio per la causa” del padre. Così
da quando don Vito finisce a Rebibbia anche lui si trasferisce a Roma
“ero l’unico che faceva regolarmente i colloqui con lui”. I suoi
fratelli infatti, su ordine dello stesso padre, si erano allontanati
dall’Italia per “un presunto reato” di trasferimento “di capitali
all’estero”. Massimo Ciancimino diventerà da quel momento custode dei
molti segreti del suo genitore. Lo segue, come un fedele
accompagnatore, ma dice di non assistere mai di persona agli incontri
privati fra don Vito e Provenzano e nemmeno quelli tra loro e Tommaso
Cannella, Pino Lipari e Nardo Greco. A certi discorsi, in realtà, “non
prendevano parte” neanche questi, e capitava che alla fine Provenzano e
Ciancimino restavano a parlare per ore da soli dentro la ditta di pali
di “ don Masino” Cannella, all’uscita di Bagheria, mentre gli altri se
ne andavano a mangiare da “Franco il Pescatore”. Riunioni che negli
anni Ottanta avvenivano frequentemente nella zona di Ficarazzi,
Bagheria, Porticello ma anche in quella di Alcamo, all’hotel Ops di
Mazara del Vallo. Un rapporto stretto quello che legava Ciancimino a
Provenzano che fonda le sue radici al tempo in cui Luciano Liggio
preparava la scalata dei corleonesi alla conquista di Palermo, allora
sotto il controllo di Stefano Bontade e, ancora prima, quando don Vito
da professore di matematica impartiva lezioni al giovane Binnu, il
futuro “Ragioniere di Cosa Nostra”. Tra i due vi era stima. Di lui don
Vito apprezzava e condivideva la strategia politica, “la sua lucidità”
e la sua “attenzione” nella valutazione di certe situazioni. Lo
riteneva “meno irrazionale e meno istintivo” di altri capimafia con cui
invece “aveva sempre dichiarato un malessere per la loro poca
lungimiranza”. Il riferimento è puramente rivolto a Salvatore Riina con
cui l’ex sindaco di Palermo non avrebbe mai avuto un buon feeling. Si
frequentavano meno e anche quando “Totò il corto” lo andava a trovare a
casa don Vito alzava quasi sempre la voce. “Lo riteneva troppo
impulsivo e suscettibile, per questo facilmente condizionabile”. In
realtà – chiosa il teste - a Riina mio padre “imputava la sua
maledizione di aver fatto il sindaco di Palermo. Era stata quasi
un’imposizione, una volontà da parte del gruppo dei corleonesi di avere
un sindaco a Palermo”. Quella scelta, “voleva essere un riconoscimento,
una presa di posizione a livello politico della città” e alla fine,
come conseguenza, don Vito, sebbene sia rimasto in carica “solo per 19
giorni” (approvando una serie di concessioni edilizie che hanno
devastato il paesaggio artistico della città), diventerà il primo
cittadino più famoso e contestato degli ultimi tempi. Un episodio che
lo allontanerà maggiormente da Riina e lo legherà indissolubilmente a
Provenzano, come lui, più incline a lavorare in seconda linea.