Pagina 2 di 4
Appuntamenti al vertice Baida, Palermo, Mondello e Roma
Così Massimo Ciancimino rovista tra i ricordi che lo legano al passato e alle domande più incisive del pm Nino Di Matteo risponde con un pizzico di emotività. D’altra parte questa volta non viene chiamato a difendersi ma a raccontare fatti che coinvolgono direttamente suo padre e il capo di Cosa Nostra che, in questa udienza, recita la parte del grande assente.
L’esposizione continua sulla scia delle domande che gli vengono poste con intransigente rigore. All’età di nove anni Ciancimino junior conosceva già l’uomo più ricercato d’Italia sotto il falso nome “dell’ing. Lo Verde”. “A casa mia Provenzano è venuto tante volte – ha detto - sin dalla casa di Baida”, la residenza estiva dei nonni usata per le vacanze negli anni ’72 -’73 e anche ’74. “Veniva con una certa frequenza, una volta al mese, o ogni due, accompagnato da altri soggetti” e così faceva “anche nell’abitazione in via Sciuti a Palermo e poi in seguito in quella di Mondello in Via Dane”. All’epoca don Vito era già un uomo delle Istituzioni legato alla politica regionale. A casa aveva 3 o 4 linee telefoniche. Una di queste era funzionante 24 ore su 24 ed era riservata solo a pochissimi personaggi che erano “Salvo Lima, l’on. Ruffini, l’on. Gorgone, il dott. Zanghì (suo segretario) e l’ing. Lo Verde”.
Poi un giorno dei primissimi anni Ottanta sulle pagine di Epoca uscì un identikit molto fedele al volto di Provenzano… quell’ingegnere molto amico di suo padre. Fu lì che il figlio scapestrato di don Vito capì che Lo Verde e quell’uomo erano la stessa persona. “Ho chiesto a mio padre conferma, se poteva soddisfare la mia curiosità. Ricordo benissimo come non mi rispose. Lui mi reputava un megalomane, un po’ sbruffone e siccome in quel periodo (…) c’era quasi il fatto di volersi vantare di conoscere…” temendo che questo comportamento lo mettesse nei guai gli disse: ‘Ricordati che da questo tipo di situazioni non ti posso proteggere nemmeno io’. ‘Per cui stai attento a come ti muovi a quello che dici e a quello che fai’. Da quel momento non toccammo più questo argomento”. Fino agli ultimi anni della vita di don Vito.
Poi il giorno dell’arresto del capo di Cosa Nostra nella masseria di Montagna dei Cavalli il volto di Zu Binnu compare in tutte le televisioni. Quella faccia la “conoscevo bene - ha detto Ciancimino, lì - ho avuto la conferma delle sue ricostruzioni plastiche”. “L’avevo visto di persona fino a qualche mese prima della morte di mio padre, nel 2002, in una o due occasioni e alla fine mi rendevo conto come il suo volto era sempre quello”.
Gli ospiti preferiti di casa Ciancimino
Ciancimino parla e ci si rende conto di quanto una parte importante della storia di questo nostro Paese sia passata anche attraverso casa sua. Provenzano, Riina, Cinà, Lipari, Cannella, Bonura e i fratelli Buscemi Franco e Nino. Erano loro quelli accreditati ad entrare a casa di don Vito. Con Franco Bonura per esempio, oltre a condividere affari nell’ambito delle costruzioni, si vivevano insieme momenti di vacanza in estate nella casa dei nonni a Baida o fuori nei periodi di Natale.
“Cinà - invece - era una delle persone che mio padre stimava di più”, “uno degli interlocutori più fidati nel contesto di Cosa Nostra (…) veniva considerato una persona di spessore superiore al geometra Lipari sia per l’atteggiamento, sia per il modo di fare e di ragionare”. La conoscenza con “papà” risale “agli anni ’70 quando era emersa l’esigenza da parte di Luciano Liggio e Riina di cercare di ottenere un intervento su quella che era la sentenza definitiva di condanna dell’allora capobastone. “In quella occasione avevano pensato di contattare un magistrato o persone di grande esperienza giuridica che potesse vedere se c’erano presupposti per avanzare una richiesta di revisione del processo”. “Il dott. Cinà era un signore distinto – ha commentato il teste - mio padre lo chiamava Iolanda perché abitava vicino a casa nostra, a Mondello in via Principessa Iolanda”. Con lui (come con Provenzano, Totò Riina, Pino Lipari e Tommaso Cannella) la corrispondenza era epistolare. Per questo Massimo Ciancimino si recava nel suo studio medico di S. Lorenzo. E siccome don Vito non era uno sprovveduto “aveva voluto che rimanessi schedato o quantomeno che rimanesse una prova del mio ingresso all’interno dei laboratori di analisi” perciò, in comune accordo tra Cinà e Ciancimino, “due o tre volte feci le analisi del sangue”. Ogni volta poi che il giovane Massimo recapitava i messaggi, l’obbligo era che tornassero nelle sue mani per poi essere distrutti. Una precauzione per evitare “grane”.