La Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con la sua sentenza del 27 Aprile 2023 ha messo un punto definitivo in merito alla questione “Trattativa Stato Mafia”.
Bisognerà ora attendere la pubblicazione delle motivazioni ma, ormai, dopo anni, decenni, durante i quali l’argomento è stato trattato e affrontato in vario modo e in differenti sedi, sviscerato in tutti i suoi aspetti e dinamiche più particolari, il cittadino comune, al quale mai passerà per la testa di andare a leggere le centinaia di pagine del dispositivo di una sentenza, in merito a certe vicende un’idea se l’è fatta.
L’idea è che una Trattativa Stato Mafia c’è stata e, pur nel rispetto di ogni sentenza, piaccia o meno, è impossibile negarle caratteri di disvalore non solo sotto un profilo giuridico.
L’autorevolezza indiscussa dell’organo che ha emesso la sentenza definitiva sul capitolo trattativa non potrà mai comunque mortificare l’intelligenza degli italiani pretendendo che resettino le loro convinzioni spazzando via anni e anni di informazioni, evidenze e certezze acquisite grazie al certosino lavoro di tanti uomini e donne di varia estrazione professionale che hanno fatto della ricerca della verità su questo argomento la loro missione.
La Corte di Cassazione, come ha recentemente ribadito l’ex Giudice Ingroia in una intervista, non è soltanto il luogo di definizione giuridica dei processi ma anche quello di indirizzo di politica giudiziaria e, da questa sentenza, arriva il chiaro segnale che lo Stato non può processare sé stesso.
Potremmo addirittura affermare che lo Stato non tollera proprio di essere processato.
A margine di quanto fin qui detto, un’altra “sentenza” che sembra quasi una appendice alla recente decisione della Corte di Cassazione merita alcune riflessioni. L’aspetto anomalo è però che quest’ultima sentenza è stata emessa da un giornalista che, indossata la toga, o, per meglio dire, l’ermellino (considerato il contenuto e tenore del suo articolo), ha condannato senza appello l’operato di quelli che lo stesso “giornalista togato” definisce “quei nomi ben noti come Antonio Ingroia, Nino di Matteo e Roberto Scarpinato - che negli ultimi anni hanno sposato le tesi della trattativa Stato-mafia".
Mi riferisco all’articolo “Trattativa stato-media. Il guaio di un Paese indifferente di fronte ai PM disinteressati alle prove” scritto da Claudio Cerasa (in foto di copertina) il 29 Aprile scorso sulle colonne de “Il Foglio”, giornale da lui diretto.
Già il titolo può essere sufficiente per capire quale tesi si vada a sostenere nelle colonne seguenti nelle quali viene definito “incredibile farsa rappresentata dall’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia” il lavoro svolto da quello che Cerasa chiama “un modello di magistrato di cui vale la pena non fidarsi”.


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L'avvocato Antonio Ingroia


Questo magistrato
, sempre secondo quanto riportato da Claudio Cerasaè facilmente riconoscibile”.
Riconoscibile perché, a suo dire, “ha scelto di mettere la giustizia non al servizio della legge ma di una causa più grande, più profonda, più etica, quasi divina: la riscrittura della storia.
Riconoscibile perché “impegnato con costanza a illuminare nella sua brillante attività mediatica ciò che non si vede, che si nasconde e che non risulta evidente nemmeno nelle prove e, non essendo le sue prove solide è costretto a corredare le sue indagini con tutto ciò che il circo Barnum dei media mette a disposizione dei magistrati che vogliono evidenziare le zone d’ombra”.
Riconoscibile perché “ciò che per lui conta in una inchiesta non è la sentenza ma ciò che l’inchiesta ha scoperchiato”.
Illustrissimo Dott. Cerasa, ho letto più volte il suo articolo, cercando di capire e dare un senso a quello che la sua mente ha partorito.
Sicuramente è stato fatto con l’intento (mal riuscito) da parte sua di offrire un contributo importante per la causa della legalità, della giustizia e della ricerca della verità.
Giustizia e legalità, il cui significato e valore, a quanto pare, dal suo punto di vista, certi magistrati non avevano ne hanno ben chiari nel “servirsi per dare forza alle loro idee, di consulenti tirati fuori dal circo Barnum e, sempre a suo dire, arrecando gravi danni al sistema giudiziario delegittimando non solo loro stessi ma una intera categoria".
Ho riletto ancora il suo articolo, pensando che, forse, la profondità dei concetti da Lei espressi rendesse difficile a una mente semplice di coglierne il significato, ma, ancora una volta, non sono riuscito a trovare spunti costruttivi. Più che un articolo degno di un giornalista del suo valore, Direttore di un apprezzato quotidiano, è sembrato avere le parvenze di una scarpa rotta dalla quale “finalmente” era riuscito a togliersi dei sassolini che proprio non riusciva più a tollerare.
Avrebbe potuto togliersi il disagio prima e pubblicare questa sua raccolta di epiteti e perle di saggezza, indipendentemente dalla sentenza del supremo organo della Cassazione che, sicuramente, l’aiuta a sostenere con maggior disinvoltura tesi che oltre che senza fondamento appaiono talvolta anche denigratorie.
Mi chiedo inoltre se questo articolo lo avrebbe pubblicato ugualmente se la Corte di Cassazione si fosse espressa in maniera diversa.
Avrebbe potuto pubblicarlo anche in occasione della sentenza di appello o in un qualsiasi altro momento negli scorsi anni in cui aveva percepito la presenza di queste “derive inquietanti” attivate da chi, in qualità di “magistrato ha dominato la scena rincorrendo farfalle mentre gli altri magistrati, quelli di cui non conosciamo la voce davano la caccia ai mafiosi”.
Egregio Direttore Cerasa, fra le varie cose da lei evidenziate è forse giusto anche ricordare che, quell’uomo che ha scelto di fare il magistrato e cui lei sa unicamente riconoscergli un profilo da collezionista di farfalle, ha dedicato la sua intera vita privata e professionale alla ricerca della verità dei fatti, ispirato da ideali di giustizia e legalità.
Ha scelto di fare della propria vita una rinuncia, destinato a scontare una condanna alla totale privazione della libertà propria e dei propri familiari, senza che vi fosse alcuna sentenza che lo avesse decretato, ma, semplicemente, perché le verità che stava perseguendo o, come lei preferisce, ciò che” le sue inchieste stavano scoperchiando”, facevano male, ed erano difficili da ammettere anche da parte di quello Stato che avrebbe dovuto sostenerlo e tutelarlo.
Questo uomo, cui diamo il nome di Nino Di Matteo, la cui passione per i lepidotteri non appare in nessuna sua biografia, popolata da ben altre gesta, è il "modello di magistrato di cui, a suo dire, vale la pena non fidarsi". Nino Di Matteo è in realtà un uomo sulla cui testa è stata emessa ed è ancora attiva una condanna a morte decretata da Toto Riina.
Questa condanna, confermata dallo stesso Matteo Messina Denaro, avrebbe dovuto essere stata già eseguita, nella maniera piu brutale e eclatante, ormai da tempo e fortunatamente mai realizzata.


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Il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo


Non vogliamo credere che sia stato l’inseguimento di innocue farfalle a suscitare una reazione così violenta e spropositata da parte dell’intera cupola mafiosa.
Siamo convinti che ben altri siano stati i fatti che hanno portato a decretare quella sentenza la cui esecuzione avrebbe rasserenato gli animi e fatto dormire sonni piu tranquilli a tanti personaggi, mafiosi e non, cittadini di quello che Saverio Lodato definisce il “Nuovo Mondo” fautori e protagonisti di quella trattativa e dialogo di cui ora si nega l’esistenza con le sue nefande ripercussioni considerate giuridicamente irrilevanti.
Direttore Cerasa, nel sostenere le sue tesi negazioniste, sarebbe stato più corretto se avesse ricordato che altre sentenze, di pari dignità e autorevolezza, hanno parlato dell’esistenza della trattativa e, in altre aule giudiziarie, alcuni degli imputati ora assolti (e non solo loro) hanno fatto ad essa riferimento.
Un particolare, questo, che dovrebbe fare ulteriormente riflettere.
Allo stesso tempo, fanno riflettere, lasciando molto perplessi, le conclusioni cui addiviene nel finale del suo “articolo sentenza” ove trapela tra le righe la necessità che quel modello di magistrato che proprio non le aggrada, dovrebbe quasi chiedere scusa o addirittura, come lei più esplicitamente riporta “il circo Barnum della giustizia avrebbe (a suo dire) ora il dovere di denunciare con forza i danni prodotti dalla trattativa Stato media”.
L’attività e il modus operandi di certi magistrati così fortemente esposti nella lotta alla Mafia può essere condiviso o meno ma, nella libertà di ognuno di muovere osservazioni e critiche in merito, sarebbe opportuno ponderare i termini usati perché il passaggio dal dissenso alla delegittimazione è molto facile.
La delegittimazione è il peggiore, il più pericoloso messaggio che in questi casi e in certi contesti può essere lanciato.
Egregio Direttore, proprio per allontanare qualsiasi dubbio in merito oggi dovrebbero essere altri a chiedere scusa a quel magistrato, etichettato come inseguitore di farfalle, e omettendo però di ricordane le singole tappe di un lungo e difficile percorso, di una carriera dedicata interamente alla lotta alla Mafia.
Con l’occasione, sarebbe altresì doveroso prendere le distanze da quel brutto concetto da lei espresso, fortemente denigratorio, secondo il quale certi uomini rappresentano "un modello di magistrato di cui vale la pena di non fidarsi”.
Lo si deve anche a tutti gli italiani onesti che cercano verità e giustizia nelle vicende di Mafia, in uno Stato che da questo punto di vista è a debito nei loro confronti, e dal quale da anni aspettano risposte chiare e convincenti ai tanti misteri ancora irrisolti che hanno popolato e popolano non solo la Sicilia ma l’intero nostro Paese.

Foto © Imagoeconomica

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