A P. S. Giorgio l’incontro con Luana Ilardo, Nicola Morra, Luigi Piccirillo, Barbara Lezzi, Lorenzo Totò e Stefano Baudino
Un boss di Cosa Nostra decise di cambiare pagina e chiudere col passato iniziando a raccontare tutto agli inquirenti che, dopo avergli garantito protezione, lo abbandonarono permettendo la sua uccisione il 10 maggio 1996.
È la storia di Luigi Ilardo, confidente dell'allora colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Una storia tragica, quella dell’ex reggente di Caltanissetta.
“L’omicidio di mio padre non è altro che una delle tante offese che la nostra Repubblica ha subito”. Oggi è molto "importate capire cosa è successo trent'anni fa. Non possiamo voltarci dall'altra parte". "Sarebbe bene capire e comprendere quello che succede oggi da un punto di vista politico" con ciò che è successo "a mio padre e a tante altre persone in quel momento storico". Il periodo delle bombe, delle stragi e delle trattative.
È con estrema emozione che Luana Ilardo, figlia di Luigi Ilardo, ha raccontato la storia di suo padre al Teatro di Porto San Giorgio, la sera di domenica sei novembre nell'ambito di un evento intitolato 'Il radicamento della mentalità mafiosa nella tranquilla provincia italiana', inserito nelle attività di 'Fermo News' e del Comitato 'Io non mi uccido'. Presenti anche altri ospiti illustri: tra cui l'ex presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, il consigliere regionale e membro della Commissione Antimafia della Regione Lombardia Luigi Piccirillo, Barbara Lezzi già Ministro per il Sud e Senatrice della Repubblica, il sindaco di Porto San Giorgio Valerio Vesprini, Lorenzo Totò, Consigliere della Camera di Commercio della regione Marche, presente in sostituzione del presiedente Gino Sabatini.
La serata è stata moderata dallo scrittore e giornalista Stefano Baudino.
Sul piano fattuale l'Italia non è un Paese normale e la storia di Luigi Ilardo ne è una cruda testimonianza.
“Fonte Oriente” - questo fu il suo nome in codice - offrì negli anni un contributo fondamentale per l’arresto di vari latitanti mafiosi e al contrasto delle attività criminali. Grazie alla sua collaborazione con il colonnello del carabinieri Michele Riccio (prima applicato alla Dia, poi al Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri), nel 1995 Ilardo riuscì addirittura a condurre i Carabinieri del Ros a un passo dal covo del numero uno di Cosa Nostra al tempo: Bernardo Provenzano, latitante da oltre tre decenni, il quale, però, incredibilmente non venne catturato dai Carabinieri guidati al tempo dall’ex generale dei Carabinieri Mario Mori, che sulla vicenda venne poi assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra insieme al colonnello Mauro Obinu. Mio padre “portò i carabinieri da Provenzano. Glielo indicò, si può dire, con la manina” ha detto Luana. Nonostante la mancata cattura di Provenzano, Ilardo non si arrese e continuò a credere nello Stato volendo andare fino in fondo al proprio percorso di collaborazione con la giustizia che nel mese di maggio del ’96 doveva essere finalmente formalizzata con l’entrata ufficiale nel programma di protezione. Quel traguardo, però, Ilardo non lo vide mai. Il pentito, infatti, venne ucciso da Cosa Nostra catanese a seguito di una misteriosa “soffiata istituzionale”, come sancito dalla sentenza in cui sono stati condannati i mandanti e gli esecutori mafiosi del suo omicidio (Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola, Maurizio Zuccaro e Orazio Benedetto Cocimano).
"Mio padre ha deciso di collaborare con la giustizia da uomo libero. Collaborando con i grandi dell’epoca come il dottore De Gennaro. Il suo terrore era uscire dalla galera e riprendere a fare quello che faceva" ha ricordato Luana. Trentuno ottobre del 1995: "Mio padre aveva fatto un accordo ben preciso con il colonnello Riccio”: “Sarebbe uscito dalla galera in maniera nomale ma" sarebbe stato poi "infiltrato dentro Cosa Nostra per conto dello Stato". Fece "fare degli arresti" ma quando decise di alzare il tiro, “toccando i fili dell’alta tensione”, guidando i carabinieri fino a Bernardo Provenzano, "è stato fermato”.
Qualche giorno prima di morire, Ilardo, anticipò che avrebbe fornito all’autorità giudiziaria anche scottanti rivelazioni sulla strage di Pizzolungo, sul caso Agostino-Castelluccio, sui mandanti occulti delle stragi del 1992-1993, che ritenne essere connesse agli ambienti della destra eversiva e dei servizi deviati che negli anni ’70 avevano posto in essere la “strategia della tensione”, e sulle scelte politiche della mafia palermitana, che nel 1994 aveva trovato in Forza Italia il progetto politico su cui puntare dopo il maxi scandalo di Tangentopoli e il sostanziale “azzeramento” dei suoi ex referenti politici.
Trame occulte che si sta cercando, con molte difficolta di portare alla luce.
Agganciandosi alle parole di Luana l'ex presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra ha ricordato un fatto noto a pochi: alla presenza di Gian Carlo Caselli (allora procuratore di Palermo), Giovanni Tinebra, procuratore capo di Caltanissetta e Teresa Principato, ex procuratore aggiunto di Palermo, si accordò l’entrata in vigore del programma di protezione per Luigi Ilardo, ma, ha ricordato, “non esiste alcuna verbalizzazione di quell’incontro. L’unica che prese appunti fu Teresa Principato. “Il 2 maggio 1996 è per me una data indimenticabile - disse il magistrato nel marzo 2017 durante una udienza del processo Trattativa. “Io presi degli appunti ma non furono fatti verbali. Purtroppo questi appunti non li ho più ritrovati”.
Morra: "Borsellino ammazzato dallo Stato"
“Siamo arrivati al Borsellino quater e sono passati trent’anni e ancora brancoliamo nel buio” ha detto l'ex presidente della commissione parlamentare antimafia. “Io dò cento volte ragione alla vedova Borsellino, Angnese, che decise di non accettare i funerali di Stato. Perché Paolo Borsellino è stato ammazzato dallo Stato”.
"Come Aldo Moro!” ha gridato una voce dal pubblico.
Come dimenticare infatti quel 9 maggio 1978? Data incancellabile nella storia della nostra Repubblica. Il corpo del Presidente del Consiglio Aldo Moro venne trovato in via Caetani, nel centro della Capitale, al termine di 55 giorni di prigionia.
L'uomo simbolo dell'unione politica nazionale venne trascinato in trame sinistre dove ancora oggi, malgrado le numerose inchieste condotte a livello giudiziario e parlamentare, permangono incoerenze e zone d’ombra, che non trovano piena risposta nella versione riferita dai brigatisti che parteciparono alla strage di via Fani e alle successive fasi del sequestro.
Non solo. Aldo Moro durante la sua carriera politica venne avvicinato anche da personaggi come l'allora segretario di Stato Americano Henry Kissinger, il quale gli disse durante un incontro formale, "Presidente lei la deve smettere di seguire le sue linee politiche o la pagherà cara. Questo è un avvertimento ufficiale".
Parole profetiche.
“Vorrei dire un’altra cosa su Aldo Moro” ha detto Morra ricordando la peculiare vicenda di Filippo Barreca, collaboratore di giustizia di ’Ndrangheta. Quest'ultimo dichiarò che “Rocco Musolino (boss di Sant’Eufemia dell’Aspromonte ndr) mi disse che aveva salvato un compaesano a lui legato che era il personaggio chiave della scorta di Aldo Moro, facendogli sapere che quel giorno egli non doveva andare a lavorare. Fu proprio quello il giorno dell’eccidio”.
Queste parole furono trascritte in un verbale l’otto settembre del 2016 e sono riferite al vicebrigadiere Rocco Gentiluomo di Sant’Eufemia d’Aspromonte, capo-scorta degli agenti che seguivano Aldo Moro. Questo verbale si va ad aggiungere ad altri elementi, come la presenza del boss Antonio Nirta (classe 1947) in via Fani, la cui immagine immortalata quel giorno sul luogo della strage è stata riconosciuta dal Ris come aderente al 99% a quella del boss “Ma cosa c’entra la ’Ndrangheta con l’omicidio di Aldo Moro?” ha domandato Morra.
Un mistero, anche questo, che fino ad ora non ha ancora trovato risposte.
Luigi Piccirillo: "Mafia non spara ma fa affari"
La mafia, dopo le stragi, si è inabissata, prediligendo altri mezzi meno 'invasivi'. Si parla di una mafia che "non spara più ma che fa affari. E se fa affari non ha bisogno di sparare", ha detto Luigi Piccirillo ricordando l'ascesa continua del potere (economico e politico) delle organizzazioni criminali.
"Siamo al trentennale delle stragi. Sono morti molti membri delle forze dell'ordine, molti cittadini" ha detto.
Ma questo evento, del sei novembre, quanto ha smosso i cittadini che vi hanno partecipato?
Piccirillo si è augurato che questo evento non sia stato solito "rituale autocelebrativo". "Se voi non uscite di qua e non siete delle sentinelle di legalità" questo "evento è stato inutile".
Come ha detto il procuratore della repubblica Nicola Gratteri, ha ricordato, noi "siamo cinquant'anni indietro nella lotta alla mafia".
Quindi "servono persone attive. Non è solo un dovere degli addetti ai lavori. Ognuno di noi può e deve farlo".
Colletti bianchi impuniti
I colletti bianchi "hanno più possibilità di rimanere impuniti grazie allo strumento dell'improcedibilità introdotto dalla legge Cartabia". E il grido di magistrati come "Nino Di Matteo e Nicola Gratteri" è rimasto inascoltato, il che ha finito per mortificare "tutto il loro lavoro" ha sottolineato con forza la senatrice Barbara Lezzi.
A questo si aggiunge anche la crisi economica, come riportato da Lorenzo Totò Consigliere della Camera di Commercio della regione Marche. Come "camera di commercio non siamo atti a fare dei controlli sul territorio. Ma possiamo registrare le imprese e capire l'andamento economico del territorio". "Nel 2014 - ha detto - c'è stato il primo embargo verso la Russia, questo è un territorio manifatturiero e esportavamo molto in Russia; nel 2016 c'è stato il terremoto; nel 2020 la pandemia; nel 2022 di nuovo le sanzioni contro la Russia e l'alluvione a Pesaro e Urbino". Tutto questo ha posto gli imprenditori in una condizione di estremamente precaria. "Quindi ci sono state, e si prevedono, delle infiltrazioni mafiose nel contesto di 'aiuti' a questi imprenditori che sono in difficoltà".
Per concludere. In un Paese normale, a trent’anni dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, la magistratura avrebbe già condannato con sentenza definitiva i mandanti esterni. La politica avrebbe già fatto un’opera di pulizia profonda al suo interno. I giornali avrebbero riportato i fatti in maniera certosina senza guardare agli interessi di quello o quell’altro personaggio, si sarebbero fatte tante di quelle modifiche normative che delinquere e andare a braccetto con il mafioso non sarebbe stato più conveniente e la retorica sarebbe stata di casa solo al teatro.
Ma questo, purtroppo, non è un Paese normale. E a pagarne le spese è sempre il popolo e le persone oneste che vivono dei frutti del loro lavoro.
Foto © ACFB
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