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I frutti scellerati della Trattativa e lo smantellamento delle leggi volute da Giovanni Falcone

La mafia è un problema che andrebbe trattato in un certo modo: i magistrati dovrebbero essere lasciati in pace a fare le loro inchieste, indipendentemente dai soggetti coinvolti (che siano alti dirigenti o spacciatori), la televisione dovrebbe riportare i risultati delle operazioni di polizia e riferire dei processi in corso (come Rinascita Scott), i politici sarebbero impegnati a fare delle norme 'ad hoc' atte a sconfiggere il fenomeno mafioso e i dibattiti pubblici su questo tema non si fermerebbero alla sola coppola o alla sola lupara.
Tuttavia la realtà è ben diversa: la mafia è diventata, col tempo, un'attrazione folkloristica; l'impianto normativo voluto da Giovanni Falcone sta venendo smantellato; in televisione ci vanno i figli dei boss stragisti, e una certa classe politica sta osteggiando ostinatamente la ricerca della verità sulle stragi del ’92 - ’93. Una verità nascosta tra le pieghe di quella scellerata Trattativa Stato - Mafia, oggetto del libro "La mafia non è cosa da adulti". "Da Falcone e Borsellino agli intrecci fra mafia e Stato: trent’anni di lotta raccontata ai ragazzi" (edito da Aliberti) di Stefano Baudino, collaboratore di “ANTIMAFIADuemila”, redattore de “L’Indipendente” e da poco approdato anche alla redazione de “il Fatto Quotidiano”.
La Trattativa, va ricordato, non è un'invenzione dei giudici palermitani o figlia dei deliri di qualche pentito, ma il tassello principale della storia repubblicana, in cui alti funzionari dello Stato hanno avuto un tête-à-tête con i vertici di Cosa Nostra mentre le bombe stragiste mietevano vittime. Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non hanno lasciato spazio al minimo dubbio. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito.
"Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un 'do ut des'. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia": così racconta uno stralcio delle motivazioni della sentenza con cui, il 5 ottobre 2011, la Corte d’Assise di Firenze aveva condannato all’ergastolo un boss di Brancaccio, Francesco Tagliavia, al processo per le stragi di mafia del 1993 e 1994 (le cosiddette “stragi nel continente”). "Essa è di portata storica - si legge nel libro - in quanto costituisce la prima sentenza in cui è stata attestata l’esistenza della 'Trattativa Stato- mafia', che, da 'presunta (come ancora molte testate giornalistiche e programmi televisivi la raccontano) è diventata ufficialmente un tassello verificato della storia del nostro Paese".
"Protagonisti di questa interlocuzione da parte istituzionale furono i vertici del ros dei Carabinieri, gruppo operativo specializzato nelle indagini di polizia giudiziaria riguardanti mafia e terrorismo: l’allora generale Mario Mori, il capitano Giuseppe De Donno e il loro superiore, il comandante Antonio Subranni”.

"Fare la guerra per poi fare la pace"
"Dal secondo dopoguerra fino alla seconda metà degli anni Ottanta, il principale referente politico di Cosa nostra, sia a livello locale che a livello nazionale, fu identificabile nella Democrazia cristiana, partito simbolo della Prima Repubblica".  Ma questo legame non sarebbe durato ancora per molto. Il 30 gennaio 1992 la Cassazione aveva condannato definitivamente all’ergastolo la Commissione di Cosa Nostra riconoscendo in pieno l’impianto accusatorio del primo maxi processo istruito dal pool di Falcone e Borsellino e conferendo, in questo modo, credibilità assoluta ai collaboratori di giustizia.
Riina per 'togliersi i sassolini dalle scarpe' aveva ordinato in seguito di punire i vecchi referenti politici della DC che non erano stati in grado di garantire l'assoluzione per gli imputati al maxi processo. Il 12 marzo 1992 a Mondello viene ucciso Salvo Lima, il più importante referente di Andreotti in Sicilia. Il 23 maggio 1992, a Capaci, esplode un intero tratto di autostrada che conduce dall’aeroporto Punta Raisi a Palermo. Moriranno, barbaramente trucidati, il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della loro scorta: Rocco Di Cillo, Antonino Montinari e Vito Schifani.
Ma la furia omicida della mafia era destinata a perdurare. Il giudice Paolo Borsellino, erede naturale nonché amico intimo di Giovanni Falcone, il 19 luglio 1992 perde la vita nella strage di Via d’Amelio assieme ai suoi 5 agenti di scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
Un colpo durissimo che aveva indotto gli italiani, tutti, ad insorgere premendo affinché il governo attuasse leggi repressive molto severe nei confronti dei mafiosi, peraltro già preparate dal giudice Falcone che, invano, aveva atteso la loro approvazione. In particolare era stato inasprito il regime del 41 bis, il 'carcere duro', che prevedeva l’isolamento per i mafiosi. Inoltre erano stati ampliati i poteri di indagine autonoma della polizia e il ricorso ai collaboratori di giustizia. Di fatto, poi, una volta convertito in legge, il decreto aveva perso alcuni elementi fondamentali rispetto alla sua stesura originaria ispirata da Falcone.
Salvatore Riina in seguito viene arrestato (13 gennaio 1993) assieme al suo braccio destro, Salvatore Biondino. Nello stesso giorno si era insediato, a Palermo, come Capo della Procura della Repubblica, Gian Carlo Caselli.
Immediata la reazione dei luogotenenti del Capo dei Capi: seguono le stragi nel continente.  Il 14 maggio a Roma, in via Fauro; il 27 maggio a Firenze, in via dei Georgofili; due mesi dopo, il 27 luglio, nella notte, a Milano un altro ordigno aveva provato sei morti e quasi contemporaneamente a Roma due bombe avevano distrutto l’una, il porticato di San Giorgio al Velabro, e l’altra la Basilica di San Giovanni in Laterano. Fortunatamente, non si sono state vittime. I magistrati preposti alle indagini sulle stragi del biennio ‘92-’93 leggeranno un piano strategico messo in atto da Cosa Nostra per destabilizzare lo Stato. Inoltre va messo l’accento sul fatto che, in base alle indagini e i processi, è emersa la presenza misteriosa di mandanti cosiddetti 'dal volto coperto' esterni all’organizzazione.
"Quando si tocca la 'zona grigia' - ha scritto Baudino - e, più specificamente, l’ambito delle relazioni (o delle vere e proprie collusioni) tra esponenti delle istituzioni e membri della mafia, è spesso molto complesso arrivare a confermare in sede processuale le potenziali responsabilità penali dei soggetti che vi partecipano". "Completamente diverso è, invece, il discorso che riguarda l’individuazione delle responsabilità morali e politiche dietro determinate condotte, che spesso possono non coincidere con le responsabilità strettamente penali".

Lo Stato rinnega Giovanni Falcone
Ampio spazio è stato dedicato allo smantellamento di quelle norme antimafia volute da Giovanni Falcone: "Lo scorso 31 marzo - si legge - uno dei due rami del Parlamento italiano, la Camera dei Deputati, ha approvato la riforma dell’ergastolo ostativo, per poi 'passare la palla' al Senato. Sulla scia di quanto sancito dalla Corte Costituzionale, il provvedimento passato alla Camera prevede che i benefici carcerari potranno essere concessi anche ai detenuti e agli internati che non collaborano con la giustizia".
Sul punto, viene specificato, si era espresso anche il magistrato, e oggi consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita: "Senza una legge chiara e una procedura snella, se l’ergastolo ostativo cade, la colpa sarà del Parlamento: i margini, in queste condizioni, per far diventare la maglia un buco enorme, ci sono tutti" aveva detto davanti alla Commissione Antimafia commentando il testo. "In particolare, il magistrato ha messo in luce come, di fatto, la 'prova positiva' richiesta ai condannati per mafia (quella che dovrebbe escludere i legami del detenuto con la cosca di appartenenza e il loro possibile ripristino) sia 'pressoché impossibile' e che quindi i giudici potranno essere fisiologicamente portati a concedere i benefici nel momento in cui troveranno che 'la positività sia comprovata da tutte le altre richieste della norma'. Inoltre, 'se guardiamo all’aspetto risarcitorio', ha proseguito Ardita, 'chi ha interrotto i rapporti con la mafia è sul lastrico, mentre chi ha i soldi per risarcire le vittime, i rapporti con Cosa nostra non li ha interrotti'. Un paradosso assai indicativo.
Secondo Ardita, un'altra importante lacuna della norma è la mancanza della previsione di un tribunale unico di sorveglianza a Roma che si esprima sui benefici, così come accade per il 41-bis: "a essere investiti della decisione saranno infatti, come detto, i vari tribunali di sorveglianza presenti sul territorio. Il magistrato ha illustrato i possibili effetti problematici di tale scelta servendosi di un ipotetico esempio concreto, affermando che 'su centocinquanta arrestati', magari anche facenti capo alla stessa cosca mafiosa, detenuti in diverse carceri, saranno chiamati a giudicare più tribunali di sorveglianza, dunque 'la conseguenza sarà che il più garantista dei ventisei farà prevalere la sua posizione e l’ergastolo ostativo cadrà'".
Tirando le somme la difesa e il mantenimento della legislazione antimafia sarà la vera battaglia dei prossimi anni. "L’ergastolo ostativo è un 'fine pena mai' che deve continuare a costituire il principale strumento contro un 'fine reato mai' come quello dell’associazione mafiosa, che si esaurisce solo quando ha luogo una collaborazione effettiva tra lo Stato e l’ex mafioso (che diventa 'ex' proprio nel momento in cui si pente, perché, a patto che le sue confidenze siano considerate credibili e risultino funzionali alle indagini, non avrà più la possibilità di tornare indietro). È questo l’unico modo per onorare davvero la memoria e l’impegno di Giovanni Falcone. Il resto è, semplicemente, uno squallido teatrino in cui va in scena la solita operazione politica di distrazione di massa".

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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