“Al di sopra della legge: come la mafia comanda dal carcere”: presentato a Palermo il libro del consigliere togato del Csm
“Il mondo del carcere è un universo veramente sconosciuto e per poterlo capire non basta frequentarlo, neanche con una funzione istituzionale di magistrato o avvocato. Devi essere qualcuno che, mentre lo frequenta, non se ne può andare, o perché iscritto al circuito penitenziario oppure perché ci svolge la propria funzione dentro”. Sono state le prime parole del consigliere Sebastiano Ardita alla presentazione del suo ultimo libro “Al di sopra della legge: come la mafia comanda dal carcere”, tenutasi alla libreria “Tante Storie” a Palermo. Un incontro semplice, carico di umanità e senso di collettività, vicino alle persone della città, a chiunque volesse fermarsi ad ascoltare anche solo per un momento. A sorpresa era presente anche Nino Di Matteo, membro togato del Csm, che è intervenuto al fianco di Ardita. I temi toccati sono stati diversi: dal racconto della drammatica realtà penitenziaria in tutta la sua dimensione sociale e istituzionale all’assenza sconcertante dello Stato nella progettazione degli spazi e delle risorse umane e materiali. Poi ancora, si è parlato di ergastolo ostativo, dell’istituto dei collaboratori e infine del lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, i quali si trovano, nell’abbandono quasi totale, a dover gestire un mondo che precipita sempre di più dentro un baratro, nel silenzio e nel disinteresse generale.
“Il carcere è una struttura totalizzante che non ammette deroghe e non c’è mai uno spazio vuoto. Se lo Stato fa un passo indietro e non regolamenta qualcosa quello spazio viene preso in carico da qualcuno che darà le sue regole. E i detenuti si danno regole non in base ad un codice scritto, ma ad una gerarchia criminale. Se si regala qualcosa alla popolazione detenuta tutta intera, stai regalando qualcosa a chi prenderà il posto dello Stato nel regolamentare quel diritto”, ha spiegato Ardita facendo riferimento alla questione delle cosiddette “celle aperte”, cioè al fatto che da qualche anno si è deciso di “allargare la dimensione degli spazi detenuti, consentendo di circolare liberamente nella realtà penitenziaria. Una scelta che non è stata legata alla buona condotta né alla discrezionalità attenta della sicurezza penitenziaria, ma è stata concepita come un diritto per tutti, che prescinde dal comportamento individuale, dalla pericolosità, dal grado criminale di appartenenza del detenuto. È un diritto della popolazione detenuta”. Tutto ciò ha comportato conseguenze disastrose dentro il mondo penitenziario e i danni più grandi li stanno subendo “i detenuti che si vogliono fare il carcere in pace”.
Gli effetti di questa decisione si vedono da alcuni indicatori “che consentono di capire la qualità della vita in carcere. Questi si sono impennati negli ultimi anni, proprio in coincidenza con queste norme, che hanno fatto passare nelle mani delle gerarchie criminali il controllo delle realtà all’interno della vita penitenziaria”. Questi dati riguardano, per esempio, il numero degli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio dei detenuti, le aggressioni agli agenti e agli altri operatori penitenziari, i rapporti disciplinari, i reati commessi in carcere e molto altro ancora. Quindi, dove c’è assenza di Stato c’è presenza di mafia. È stato sempre così, da più di 150 anni, sia fuori sia dentro il mondo carcerario. “La mafia”, ha precisato Ardita, “è un soggetto organizzato che storicamente dal carcere ha fatto tante cose brutte: ha comandato e ha mandato ordini all’esterno. E se viene lasciato un carcere completamente allo sbando, la mafia comanderà dal carcere anche rispetto alla struttura istituzionale dello stesso”. Non possiamo dimenticarci, infatti, che prima dell’entrata in vigore del 41 bis, il penitenziario di Palermo veniva chiamato il “Grand Hotel Ucciardone”, un’espressione che lascia intuire già molto. Da qui è nato il regime speciale per i condannati per mafia.
Come ha spiegato il consigliere togato Nino Di Matteo, “le dinamiche più importanti, soprattutto nella criminalità mafiosa, passano inevitabilmente anche dal carcere. Già dal lavoro di Giovanni Falcone e dal Maxi processo abbiamo capito che i mafiosi dal carcere continuavano a rappresentare gli interessi di vertice dell’organizzazione mafiosa, a far passare ordini di morte, a vivere la propria mafiosità dentro il carcere come la vivevano fuori”. E quando è stato introdotto il regime del 41 bis, ha continuato Di Matteo, “abbiamo capito come l’introduzione di quelle regole fosse stato colto immediatamente dai vertici dell’organizzazione, in particolare da Salvatore Riina, come un momento di svolta epocale, che avrebbe cambiato per sempre la vita dei mafiosi in carcere”.
Erano i primi anni ’90 e in quel periodo non si capiva ancora bene cosa fosse il 41 bis e “i nostri agenti non venivano tutelati, anzi i mafiosi che erano stati detenuti nelle isole accusavano i nostri agenti di aver fatto violenze e torture e violazione di libertà contro la legge. C’era uno spirito di vendetta nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, addirittura c’era una lista di agenti a Pianosa che dovevano essere uccisi in un programma di vendetta”. L’omicidio del giovane trentenne Giuseppe Montalto, avvenuto il 23 dicembre del 1995, si inserisce proprio in questo contesto storico, politico, sociale e criminale in cui stava vivendo l’Italia. La colpa di Montalto era stata quella di aver bloccato “un biglietto proveniente dall’esterno, che sarebbe servito a commettere un reato, era la commissione di un reato. Denunciò gli autori di questo passaggio illecito, i quali autori erano soggetti che stavano al vertice di Cosa nostra e naturalmente impedì che questo accadesse”.
In quegli anni, nel momento in cui vennero arrestati tutti gli uomini di Cosa nostra, ha continuato Ardita, ”la polizia penitenziaria divenne soggetto depositario dell’attività di contrasto perché doveva gestire questo mondo inferocito che non accettava di essere sottoposto alle regole del carcere e ai rigori del 41 bis”.
“Questo è stato uno dei motivi”, ha spiegato poi Di Matteo, per i quali nei primi anni di quel decennio ”ad un certo punto le organizzazioni mafiose, che non potevano sopportare questa svolta, hanno iniziato a ricattare lo Stato a suon di bombe, cercando, e in parte secondo me riuscendoci, di piegare le ginocchia allo Stato, per costringerlo ad una sorta di mediazione, per costringerlo nel tempo ad affievolire quei principi che erano stati introdotti con tale legislazione. Le stragi del 1992, del 1993 e il fallito attentato del 1994 sono state fatte anche per giungere all’affievolimento del carcere, all’abolizione dell’ergastolo inteso come fine pena mai, all’abolizione della regola introdotta con il 4 bis”. Fatti venuti alla luce dopo tantissimi anni, grazie allo sforzo investigativo e al sacrificio quotidiano di alcuni magistrati, tra cui il dottore Di Matteo, che per il lavoro che stavano svolgendo nell’espletamento della loro funzione di pubblici ministeri hanno dovuto subire persino minacce di morte ed isolamenti istituzionali e mediatici. La trattativa, come ha affermato anche Sebastiano Ardita, “è un tema di fondo che accompagna in modo nefasto pezzi di storia istituzionale. Parliamo di un fatto storico conclamato nelle sentenze, nella sua dimensione sostanziale. Fu un momento nel quale questo confronto tra Stato e mafia avvenne soprattutto sul tema scottante del 41 bis”.
L'ex magistrato, Leonardo Agueci
Oggi, dopo 30 anni dalle stragi, “sulla base della sentenza della Corte costituzionale potranno tornare liberi molti di quelli che quelle stragi le hanno fatte”, ha chiarito con amarezza Nino Di Matteo. Preoccupazioni che purtroppo diventano ogni giorno sempre più tangibili e concrete. Risale proprio allo scorso 16 giugno la decisione della Corte di cassazione, quando i giudici di legittimità hanno concesso al boss di Cosa nostra, Giuseppe Barranca, esecutore della strage di Capaci e coinvolto nelle stragi del 1993 (via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e via del Fauro a Roma), di accedere ai permessi premio. Una decisione presa sulla base di una valutazione “morale” della “enorme sproporzione tra le condotte delittuose e l’appartenenza mafiosa ad altissimo livello, da un lato, e la ripresa di una vita corretta e coerente in carcere, dall’altro". Oppure, ancora più recente, è la notizia della concessione dello status di semi-libertà al boss Giovanni Sutera, condannato per aver assassinato la giovane Graziella Campagna. Tali decisioni si basano sul mutamento del quadro normativo generato dalla sentenza numero 253 del 2019 della Corte Costituzionale, la quale ha stabilito, come ha spiegato Di Matteo, “che quell’automatismo per il quale se il mafioso non collabora con la giustizia non può accedere a benefici penitenziari, sarebbe incostituzionale. Questo in un contesto nel quale la storia, la conoscenza degli atti, delle sentenze e delle risultanze delle indagini ci ha fatto capire che dall’organizzazione mafiosa si esce soltanto in due modi: o con la morte oppure attraverso una rottura del vincolo, che però deve essere manifestata. Per primi devono cogliere la rottura del vincolo gli altri mafiosi. Non basta al detenuto mafioso essere magari sinceramente pentito o volersi distaccare dall’associazione, se non da un segnale per il quale anche gli altri mafiosi capiscono che non è più affidabile e quel segnale è la collaborazione con la giustizia. Solo in quel modo il detenuto mafioso diventa assolutamente inaffidabile e pericoloso per l’organizzazione mafiosa”.
Anche il nuovo libro, ha raccontato Ardita, “inizia con la storia di un detenuto che ottiene la libertà dopo aver fatto 6 omicidi qualche anno fa. Questo detenuto esce dal carcere immotivatamente, ingiustificatamente, senza merito e la prima cosa che fa è rimettere in moto la macchina criminale di estorsioni, minacce ed altre e si rivolge ad un imprenditore che non vuole pagare il pizzo, lo rapisce, lo denuda, lo tortura e lo uccide nella stessa sequenza”. Nel nostro Paese quindi, è in corso “un attacco al carcere della prevenzione. Si è cominciato con il contestare tutta l’istituzione penitenziaria, si sta finendo per contestare il 41 bis e l’ergastolo ostativo”.
Sono punti di un papello che dopo 30 anni si stanno realizzando o, forse, stanno finendo di realizzarsi. Perché già molte richieste erano state concretizzate. Parliamo della chiusura delle super carceri di Pianosa e dell’Asinara, avvenute alla fine del 1996, in circostanze, come sempre, ancora non del tutto chiare. “Un’altra pagina tutta da comprendere è quella dell’effettività della permanenza dei mafiosi delle isole”, ha spiegato il dottore Ardita.
“I mafiosi sono stati sulle isole per una frazione di tempo rispetto a quella che accompagnava la loro detenzione e il loro luogo di assegnazione ufficiale. Non ricordo i nomi precisi, ma Riina, Bagarella, Santapaola sono stati 100, 150 giorni anziché 4 anni. Furono aperte nel 1992 e vennero chiuse alla fine del 1996. Ma quando furono chiuse? Esattamente in coincidenza con l’entrata in vigore della norma che prevedeva le videoconferenze, cioè un modo di partecipare alle udienze che avrebbe murato vivi i mafiosi sulle isole”. Cioè, “nel 1996 mentre viene adottata questa norma, sincronicamente viene meno la normativa che consentiva di usare le isole per fini penitenziari. Se avessero mantenuto quella norma sarebbero rimasti nelle isole, dove non sono stati sostanzialmente, per poco tempo. Sono stati ovunque, ma sono stati molto poco tempo a Pianosa e all’Asinara. E quando avrebbero dovuto starci per sempre hanno chiuso le isole. Un’altra pagina da capire”. Ci sono anche altri pezzi di storia che hanno riguardato la vita dentro il carcere di boss stragisti, su cui ancora non è stata fatta piena luce né chiarezza. È il caso, per esempio, dei due fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, entrambi protagonisti delle stragi non solo di Capaci e Via D’Amelio, ma anche delle stragi del 1993, i quali “hanno concepito i loro figli mentre si trovavano detenuti all’Ucciardone, sottoposti al regime penitenziario dell’art. 41 bis, per partecipare alle udienze dei processi in cui erano imputati a Palermo e a Caltanissetta”. Questo purtroppo ci dimostra”, ha aggiunto il consigliere Di Matteo, “come anche dopo il 1992 si sono verificate delle falle clamorose. Non sono emerse ancora prove certe, non dovute alla negligenza o peggio ancora a possibili episodi corruttivi dei quali si sono resi protagonisti gli operatori del penitenziario, ma forse qualche volta ritengo legati all’adempimento di qualche patto nascosto”.
In tanti momenti della storia del nostro Paese ci sono state falle, lacune e responsabilità istituzionali “e proprio questo ci deve fare capire l’importanza del buon funzionamento del sistema penitenziario, con un ulteriore particolarità. Il buon funzionamento del sistema penitenziario non è soltanto necessario per evitare che mafiosi continuino a comandare, per evitare che si impadroniscono della vita e della gestione del carcere, ma è importante anche per un altro motivo, perché deve anche prevenire possibili controlli del carcere da parte di istituzioni non deputate a questo. Tante volte nella storia di questo Paese si sono verificati dei momenti in cui anche in maniera assolutamente indebita e non legata a nessuna norma di carattere primario e secondario, i servizi di sicurezza hanno avuto facile accesso al carcere, ai detenuti, che in alcuni casi sono diventati collaboratori di giustizia o che in altri casi non lo sono diventati. Il rispetto delle regole in carcere è garanzia per tutti, per i detenuti, per gli operatori penitenziari. È garanzia di efficacia nella lotta alla mafia, ma anche di libertà e di democrazia e del corretto funzionamento dello Stato istituzionale”.
Il carcere “è uno dei luoghi più misteriosi che esistano”, come ha scritto il dottore Ardita nel suo nuovo libro. È il luogo dove si valuta il grado di civiltà di una comunità. Perché non è civile né democratico uno Stato che abbandona al disagio sociale, alla povertà e quindi nelle mani della criminalità mafiosa migliaia di famiglie, spesso ghettizzandole nelle periferie delle città. Non è civile uno Stato che si manifesta solo nelle retate, nelle operazioni di polizia o nei blitz, incarcerando genitori e lasciando in una voragine di miserie, giri di droga e prostituzione figli e madri. Il carcere quindi, è un luogo centrale, di cui nessun rappresentante politico ed istituzionale né nessun cittadino può dimenticarsi. “Fino a quando considereremo il carcere come un luogo da evitare, di cui non vogliamo nemmeno sapere l’esistenza, noi non avremo la consapevolezza di quanto invece sia il luogo dove la nostra Costituzione deve essere rispettata e attuata, prima ancora che altro”, sono state le parole Nino Di Matteo, seguite in chiusura da quelle di Ardita, il quale ha ricordato gli innumerevoli sforzi, sacrifici e rinunce persino personali che spesso, nonostante tutto, scelgono di fare gli operatori penitenziari. “Il carcere è anche una realtà incredibilmente stimolante, dove c’è un’umanità che trabocca, dove c’è un grande eroismo, di persone che sacrificano i propri spazi, il proprio tempo, la propria vita privata, a volte la propria serenità per poter dare il massimo, anche nella prospettiva di un riscatto, nel rispetto delle persone che sono detenute. Non esiste una prospettiva che non passi da questo. Dobbiamo trovare un punto d’equilibrio che ci consenta, conoscendo questa realtà, di far vivere e sopravvivere i migliori sentimenti e il migliore impegno che può esistere della funzione pubblica, per poter riscattare il mondo del carcere oggi. Ma allo stesso tempo dobbiamo impedire che la disattenzione, la mancanza di controllo, di organizzazione pubblica, di volontà di esserci e di far prevalere le forze sane dello Stato, ci porti poi ad una debolezza che favorisce quel tipo di controllo dal carcere”.
Foto © Deb Photo/Pietro Calligaris
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