Il consigliere togato: “C’è un eccesso di dettagli che andrebbe a vantaggio dei mafiosi”
Il testo unificato delle proposte di legge presentate per la modifica degli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975 "porterà certamente all'abbattimento dell'ergastolo ostativo. Statene certi. Cioè questo testo non tiene. Perché non garantisce quelle condizioni di sicurezza nell'applicazione normativa che consentono diciamo a questa normativa di rimanere in piedi".
Così ha detto ieri senza mezzi termini Sebastiano Ardita, attuale consigliere togato del Csm, pm antimafia ed ex capo dell’ufficio detenuti del Dap.
Durante la sua audizione in commissione antimafia Ardita ha ricordato che il 4 bis è una norma voluta “fortemente dal ministro della giustizia dell'epoca Martelli e la cui firma sostanzialmente era del direttore degli affari penali al ministero della giustizia Giovanni Falcone”, la quale aveva lo scopo di impedire sostanzialmente che determinati soggetti potessero ottenere “benefici penitenziari qualora non fossero stati in grado di dimostrare che avevano interrotto i rapporti con le associazioni mafiose”.
Com’è noto, la legge che verrà emanata dovrà adempiere all’invito rivolto al Parlamento dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 97 del 2021 che ha già accertato, ma non dichiarato, l’incostituzionalità del regime vigente che subordina alla sola collaborazione con la giustizia la concessione di tutti i benefici penitenziari e, fra essi, della liberazione condizionale, concedendo al legislatore un termine sino al 10 maggio per approvare la modifica. Ardita durante il suo intervento ha evidenziato le evidenti criticità del testo presentato: “Ci sono dei problemi che vanno affrontati” ha detto, riconoscendo che “l’intento di questo testo è lodevole nel voler rendere più difficile ottenere i benefici per chi non collabora, ma c’è un eccesso di dettagli che rischiano di andare a vantaggio dei mafiosi”.
L’unica prova richiesta al mafioso: non avere e né poter ripristinare i legami criminali
Il consigliere togato ha fatto un’analisi articolata che “detta molto in soldoni” si può così sintetizzare: il detenuto non basta che dia la prova che non ci sia più nessun legame con l’organizzazione di appartenenza, ma deve anche fornire la prova “del mancato pericolo di successivo e possibile ripristino dei collegamenti”. “Quindi elementi positivi che dimostrino che non c'è possibilità di ripristino, non soltanto che non c'è il collegamento, ma che non possono neanche essere" ripristinati “i collegamenti" con il gruppo mafioso di appartenenza, ha detto Ardita. Tuttavia questo punto se mischiato con le altre valutazioni previste dal testo rischia di perdere forza ed efficacia. Il consigliere togato ha spiegato infatti che il mafioso dovrà anche pensare al risarcimento del danno, alla “revisione critica del passato criminale” e deve aderire a “percorsi di giustizia riparativa”. “Tutte queste ulteriori descrizioni normative sono pericolose" ha detto il magistrato poiché se prima era richiesto al detenuto uno standard molto alto da dimostrare (cioè la prova che non ci siano/ o non ci possano essere collegamenti presenti e futuri), adesso il suo caso potrà essere vagliato anche “tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”. “Quindi qui si comincia a colorire un po', secondo le mie deduzioni, un criterio che dovrebbe essere oggettivo e rigoroso al massimo” ha aggiunto il magistrato. Infatti le richieste ‘aggiunte’ presentate al detenuto sono abbastanza facili per lui da soddisfare. Infatti “questi indici normativi affondano le loro radici in una rappresentazione che viene fatta dal detenuto della propria condizione personale, criminale, del proprio vissuto, della revisione del proprio vissuto. Cioè non tengono conto di una questione fondamentale: cioè che al di là del reato di mafia la condizione sub culturale della realtà mafiosa si fonda sulla falsità, sulla rappresentazione teatrale delle situazioni che si verificano, sulla assunzione di ruoli apparenti e di comune perbenismo”.
Inoltre “se guardiamo l’aspetto risarcitorio – prosegue Ardita – chi ha interrotto i rapporti con la mafia è sul lastrico mentre chi ha i soldi per risarcire le vittime, i rapporti con Cosa Nostra non li ha interrotti”.
Quindi in sostanza si rischia che essendo la ‘prova positiva’ sui legami criminali pressoché impossibile da dimostrare, a fronte di tutti gli altri indici sopraccitati, qualcuno dei giudici possa giudicare il detenuto meritevole di ottenere i benefici penitenziari.
“Per salvare l’ergastolo ostativo serve un unico tribunale di sorveglianza a Roma”
La seconda questione sollevata da Ardita riguarda la mancata istituzione di un unico tribunale di sorveglianza a Roma. La riforma infatti prevede che la garanzia della “tenuta dell'ergastolo ostativo là dove è giusto garantirla” verrà decisa a livello dei 26 tribunali di sorveglianza. “Il giudizio di prevenzione non può essere fatto 26 volte tanti quanti sono i tribunali di sorveglianza del territorio" ha detto Ardita. Per esempio "ammettiamo che ci sia una pericolosa organizzazione mafiosa, la Ercolano - Santapaola, la famiglia di Cosa Nostra catanese che ad un certo punto (com'è capitato spesso) abbia 100 - 150 detenuti e poi condannati per associazione mafiosa. Questi 150 detenuti vengono sparpagliati nelle carceri di tutta Italia, dopo un po' di tempo chiedono di avere un beneficio o addirittura la liberazione condizionale se i tempi e i termini di legge sono rispettati”. Quindi cosa accadrà? Accadrà che sarà “pressoché impossibile che 26 tribunali dicano la stessa cosa con riferimento allo stesso indice di pericolosità” ha spiegato il magistrato e che se uno di questi tribunali di sorveglianza "invece argomentasse che non" esiste per un determinato detenuto la pericolosità sociale "sarebbe molto semplice, molto facile, molto probabile che tutti gli altri dovrebbero adeguarsi a quello che è stato detto e deciso" da quest'ultimo tribunale di sorveglianza. Da questo ne deriverebbe la caduta dell'ergastolo ostatitvo. “Se vogliamo salvare l'ergastolo ostativo non c'è un'altra strada se non quella di unificare la competenza del tribunale di sorveglianza di Roma” ha aggiunto il magistrato.
La sentenza Cannizzaro
Durante il suo intervento Sebastiano Ardita ha citato la sentenza Cannizzaro della Corte Costituzionale la quale si “occupava del problema della concessione dei benefici”. In sostanza la sentenza della consulta dice che non ci si può limitare a considerare il comportamento del detenuto come indice unico per valutare la presenza di collegamenti tra “la realtà mafiosa territoriale e il carcere”. Poiché il detenuto capomafia "in carcere si comporta benissimo, non sembra uno che è collegato con l'esterno" e inoltre "mantiene una perfetta condotta carceraria e intramuraria". " E allora questa sentenza dice che gli indici da guardare sono altri: in particolar modo la capacità di collegarsi del detenuto non è del detenuto in sé ma la capacità è dell'organizzazione mafiosa che sta all'esterno perché la sua potenza economica, di infiltrazione istituzionale, militare, la sua capacità corruttiva, le sue risorse come organizzazione sono il parametro al quale noi dobbiamo fare riferimento, in primo luogo proprio capire se c'è un pericolo di collegamento. Non è il detenuto che si collega all'esterno ma è l'esterno che si collega al detenuto”.
"Questa idea - ha concluso il magistrato - che non è il singolo ma il gruppo il soggetto pericoloso ha due conseguenze fondamentali: il giudizio si fonda sulla entità estranea ed è un giudizio di prevenzione, quindi la sorveglianza, a cui aspetta di occuparsi di queste questioni, deve fare una valutazione che è tipica del giudice della prevenzione penale, deve capire se questa organizzazione criminale è un'organizzazione mafiosa a tal punto che se esce uno dal carcere senza aver collaborato lo può assorbire con le sue energie e ripristinare il collegamento con la realtà criminale".
La realtà dimenticata delle carceri
"In queste condizioni - ha continuato Ardita - vi assicuro che i margini per una applicazione che diciamo faccia diventare la maglia un buco enorme ci sono tutte. E ve lo dico perché purtroppo" noi parliamo del mondo penitenziario solo quando c'è un’emergenza. "Il carcere è totalmente dimenticato" ha detto Ardita "e il 41 bis non è affrontato con le categorie doverose perché considerata come una realtà del mondo penitenziario, come una sorta di élite. Noi non possiamo giocare i campionati di calcio e allora giochiamo solo la coppa dei campioni, non è così. Il 41 bis è una realtà che sta dentro un edificio che sta dentro il mondo penitenziario, l'ultimo piano di quest'edificio. Un edificio che ha delle crepe su cui si deve intervenire ma è più importante spegnere l'incendio che avvolge tutta la realtà penitenziaria dalle fondamenta. Il carcere è un luogo abbandonato a sè stesso. Abbandonato sul piano dei rapporti che esistono all'interno della realtà penitenziaria e un luogo nel quale non si è misurato il tasso di legalità e il rispetto delle regole che vi è all'interno. Non sono state scritte le regole in maniera adeguata per la realtà penitenziaria perché ci sono agenti che all'interno vengono feriti perché le regole interne non sono coerenti: prevengono un'apertura delle celle, un circolare indiscriminato in lungo e in largo per le sezioni. Come se fosse un beneficio. Invece è una situazione che fa soffrire i detenuti e gli agenti. Perché se tu lasci uno spazio nel carcere senza controllo, viene coperto da chi all'interno del carcere ha un potere, ossia le gerarchie criminali che si sostituiscono allo Stato”. "Non possiamo prestare il fianco alla impreparazione" ha detto il magistrato "perché se no succedono i casi come quelli di Santa Maria Capua Vetere che sono la prova provata di quello che è accaduto, cioè l'abbandono totale della realtà penitenziaria”.
"Io ancora oggi non ho visto in questo momento storico un solo accertamento di responsabilità su quanto è accaduto a Santa Maria Capua Vetere perché è passato nell'immaginario collettivo come la colpa della polizia penitenziaria, fatta da torturatori. Ora fermo restando che chi ha commesso quei reati deve pagare, anche in maniera rigorosa, ma quella è la realtà chiara di una situazione di abbandono da parte dello Stato degli operatori che stanno sul territorio che per anni hanno reclamato attraverso i sindacati che c'erano situazioni difficili e ingovernabili e ad un certo punto come nel far west, come in sud America si sono fatti giustizia da sé”. E poi ancora: "La mafia purtroppo comanda in carcere. E per far sì che non comandi non ci sono le norme del codice” ma le torture e il far west. "Noi non lo reggeremo democraticamente un altro marzo 2020 perché le carceri sono il bastone su cui si fonda lo Stato di diritto, se lo Stato di diritto viene meno perché nelle carceri ognuno fa quello che gli pare la democrazia viene meno. Qualcuno proporrà qualcosa di forte, di molto forte e si vorrà riappropriare di quello che simbolicamente è il punto di riferimento della democrazia”.
In conclusione il consigliere togato ha detto che “leggendo queste carte mi sono reso conto che siamo tornati indietro come nel gioco dell'oca. Ma questo non è possibile, non è possibile che lo Stato non sia nelle condizioni di poter fare memoria di quello che è accaduto e ripetere gli stessi errori identici, qui c'è di mezzo la sicurezza nazionale. Che passa attraverso la prevenzione alle organizzazioni criminali mafiose. Questo è il punto".
Foto © Imagoeconomica
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