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La difesa di Ingroia contro i detrattori del processo Trattativa Stato-Mafia

Non è vero che l’indagine Trattativa Stato-Mafia “era fondata sul nulla, perfino la Cassazione lo dice”, e "se fossi ancora magistrato, com’ero all’epoca procuratore aggiunto, e coordinatore del gruppo di magistrati che poi ha seguito il processo a dibattimento, metterei ancora la firma in calce con la richiesta di rinvio a giudizio”.

Queste sono le parole usate dell’ex magistrato di Palermo e oggi avvocato Antonio Ingroia durante un incontro svoltosi ieri presso il Senato (Sala Zuccari, Palazzo Giustiniani) in occasione della presentazione dei libri degli ex ufficiali dell'Arma Mario Mori, Giuseppe De Donno e dell'avvocato Basilio Milio. A moderare il giornalista del Tg2 Maurizio Martinelli.

L'incontro, com'era prevedibile, è stata l'ennesima opportunità per rilanciare teorie smentite più volte da sentenze passate al vaglio della Cassazione.

In primis fra tutte quella sul processo Trattativa Stato-Mafia, di cui abbiamo già scritto ampiamente: come ha ricostruito Ingroia, citando le parole dei supremi giudici, la minaccia al corpo politico dello stato era stata recapitata dagli ufficiali dei carabinieri (Mori e De Donno) ma non venne trasmessa al governo.

Difatti gli ufficiali dell'Arma, allora imputati, furono assolti "per non aver commesso il fatto", mentre i soliti boss mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, venivano "salvati" dalla prescrizione, essendo decorsi oltre 22 anni dalla consumazione del reato tentato, riformulato in "tentata minaccia a corpo politico dello Stato".

Per l'avvocato Basilio Milio la ricostruzione di Ingroia è "pienamente corretta" ma non per il suo ex cliente, Mario Mori, che potendo contare su un clima di restaurazione generale come quello attuale è arrivato a dire che la minaccia non l'avrebbe mai ricevuta, contestando di fatto anche la sentenza con cui è stato assolto e ribadendo, ancora una volta, che "i suoi "nemici sono un certo numero di magistrati, tra cui a suo tempo c'era anche Antonio Ingroia, che a mio avviso mi accusavano ingiustamente”.

Ingroia ha ricordato che “è obbligo del pm esercitare l’azione penale, se ci sono i presupposti” ponendo in seguito una domanda che non ha ancora ricevuto una risposta esauriente da parte degli interessati: “Se è vero che la minaccia l’hanno subita (Mori e De Donno ndr) e questa minaccia era così seria che, come ha scritto la Cassazione, se fosse arrivata a destinazione sarebbe stata capace di influire sulle decisioni del governo, perché il generale Mori non ne parlò con la magistratura? Perché non ne parlò con la politica?”

Ricordiamo che i primi incontri tra i Carabinieri e Vito Ciancimino risalgono alla seconda settimana di giugno del 1992, quando Paolo Borsellino era ancora vivo. “Io ritengo che se questa minaccia pervenuta agli ufficiali dei Carabinieri fosse stata messa a conoscenza della magistratura probabilmente si sarebbero immediatamente proceduti nei confronti di Vito Ciancimino e Antonino Cinà e forse l’indagine sulla Trattativa non ci sarebbe stata” ha detto Ingroia sottolineando il fatto che “se il Presidente della Repubblica del tempo, Giorgio Napolitano, non avesse sollevato quel famoso conflitto di attribuzione, probabilmente oggi saremmo nel tempo della verità. Ma io credo che purtroppo il tempo della verità non è ancora giunto”.

Gli eventi recenti, come le audizioni in commissione antimafia dell’avvocato Fabio Trizzino o le parole di certi politici (come quelle dello stesso senatore forzista Maurizio Gasparri), manifestano la volontà di riscrivere la storia spiegando le stragi attraverso bislacce teorie. Un esempio è quella per cui l'omicidio di Paolo Borsellino sarebbe stato commesso a causa del suo interessamento per il dossier Mafia e appalti. Su questo teorema, riproposto ieri da Giuseppe De Donno, abbiamo già ampiamente scritto. L'ex magistrato ha voluto ricordare che Mafia e Appalti non si fermò con la morte di Borsellino: “Non è vero che quell’indagine è finita”, ha ribadito Ingroia, ricordando gli encomiabili risultati della procura di Palermo guidata da Gian Carlo Caselli e come più volte sottolineato su questo giornale dall'ex Procuratore generale di Palermo, oggi senatore, Roberto Scarpinato.

Eppure ciò, come molti altri dettagli, non viene mai ricordato dai detrattori.


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Antonio Ingroia e Basilio Milio


False insinuazioni e farsesche mistificazioni del Senatore Gasparri

Tra le tante ricostruzioni "false e tendenziose" emerse nell'incontro non poteva mancare il solito attacco nei confronti di quei magistrati che hanno avuto il coraggio di indagare sui Sistemi criminali.

Protagonista è il senatore Maurizio Gasparri, non nuovo a false insinuazioni e farsesche mistificazioni (basta ricordare il suo vergognoso show in Commissione Vigilanza Rai con cognac e carote in mano per attaccare Report ed il collega Sigfrido Ranucci).
E' lui che punta il dito contro il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo alludendo, neanche velatamente, ad un concorso di responsabilità nell’avallo delle condanne inflitte a coloro che vennero incarcerati in base alle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.

I “pm a Caltanissetta" che "hanno assistito alla condanna dei finti assassini di Borsellino" dovrebbero chiedere scusa, aveva detto in un primo momento senza fare nomi. Poi ha aggiunto: "Vorrei fare un dibattito con Di Matteo su questa cosa. Quando a Caltanissetta c'è stato questo devasto, questi pm che facevano? Perché poi se tu vai in televisione a dire la verità devi anche essere credibile rispetto al passato”.
A replicare è stato l'avvocato Antonio Ingroia il quale, senza entrare nel merito per motivi di tempo, ha sottolineato che "il dottore Nino Di Matteo lo ritengo un magistrato serio, onesto, coraggioso e capace”.

Casualmente, o forse causalmente, il senatore Gasparri ha messo in mostra tutta la propria ignoranza su ciò che è avvenuto dopo le stragi. Il Senatore Gasparri parla del depistaggio di via d'Amelio, che certamente ha avuto luogo, ma che nulla ha a che vedere con il magistrato Nino Di Matteo che subentrò alle indagini a partire dal novembre 1994.

Lo abbiamo scritto più volte in questo giornale.

La vestizione del "Pupo" Scarantino, e degli altri falsi pentiti, avviene abbondantemente prima e come protagonisti vi sono altri "servi infedeli" delle Istituzioni. Il depistaggio in via d'Amelio inizia con la sottrazione dell'agenda rossa di Paolo Borsellino da parte di uomini dello Stato.

Senza contare poi, come scritto nella sentenza del Borsellino quater, che alcune dichiarazioni del "picciotto della Guadagna" sono incredibilmente coincidenti con quelle di Spatuzza.

Basti ricordare, per fare un esempio, che sia Scarantino che Spatuzza "indicano le stesse persone come partecipi della fase cruciale della strage. Scarantino dice che quando la macchina viene portata nel garage per essere imbottita di esplosivo c'erano Graviano, Tagliavia e Tinnirello, così come poi dirà in perfetta coincidenza Spatuzza. Quest'ultimo dice anche che era presente un uomo che non apparteneva a Cosa nostra. Secondo le regole della mafia quando un uomo d’onore commette un reato con un altro uomo d’onore devono essere presentati a vicenda, in caso contrario si tratta di un soggetto esterno”.


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Maurizio Gasparri


Spesso si ricorda che due processi sulla strage (il Borsellino Uno ed il Bis) sono stati oggetto di revisione.

Ma mai si ricorda che nel Borsellino bis i pm di allora, Nino Di Matteo e Anna Maria Palma per alcuni degli ingiustamente condannati, chiesero ed ottennero le assoluzioni per il delitto di concorso in strage di Giuseppe Calascibetta, Gaetano Murana e Antonino Gambino. Soggetti poi condannati in successivi gradi di giudizio.

Ma ovviamente, nelle varie ricostruzioni di certi politici, certi avvocati e, purtroppo, anche di certi familiari vittime di mafia, questi fatti non vengono mai ricordati.

L'avversione nei confronti di quei magistrati che non hanno fatto altro che ricercare la verità sulla morte di Borsellino, concentrandosi in particolare nella ricerca di mandanti esterni delle stragi. Ma i fatti vanno raccontati per quello che sono, nella loro interezza.

Non utilizzando mistificazioni e deliri.

Nino Di Matteo, coadiuvato dalla dottoressa Palma, ha condotto sin dal principio il processo Borsellino Ter, che era scaturito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giovan Battista Ferrante, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Calogero Ganci, Antonino Galliano e Francesco Paolo Anzelmo.

Per via d’Amelio le condanne definitive all’ergastolo nei confronti di boss come Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano, Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Bernardo Provenzano, Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi e Benedetto Santapaola (per citarne alcuni) non sono mai state messe in discussione.

E in quei processi vennero anche condannati i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca, (accusati di essere i componenti delle "Commissioni" provinciale e regionale di Cosa Nostra e quindi di avere avallato la realizzazione della strage). Entrambi, vedremo successivamente, proprio nel Borsellino ter, diedero un contributo fondamentale per aprire nuove piste investigative.

E' ampiamente dimostrato non solo che Di Matteo è estraneo al depistaggio, ma al contrario è il magistrato che, assieme al collega Luca Tescaroli, riuscì ad avvicinarsi a quella stanza, occulta ed oscura, in cui si nascondono i nomi dei responsabili delle stragi di Capaci e via d'Amelio; i quali, fuori da Cosa nostra, hanno chiesto ed ottenuto le stragi.
Grazie al loro lavoro con le indagini sulla strage di Capaci, via d’Amelio, l’Addaura, è stato possibile individuare e condannare, non solo degli esecutori delle stragi, ma anche l’intera Cupola mafiosa. Inoltre, nei loro processi sono emerse le prove che dietro la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non vi fosse solo Cosa nostra, ma mandanti e concorrenti esterni.


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Da sinistra: Basilio Milio, Mario Mori e Maurizio Martinelli

La ricerca della verità dei mandanti esterni

Di Matteo avviò un'inchiesta a 360 gradi per svelare quelle verità che fino a quel momento indagini precedenti non avevano ancora raggiunto riaprendo l'inchiesta sulla possibile presenza di Bruno Contrada in via d'Amelio sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Elmo. Rivedendo le carte del vecchio fascicolo, che nel 1992 fu aperto sul numero tre del Sisde, Di Matteo si accorse di un atto in cui si parlava di un ufficiale del Ros, Umberto Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l'esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. Lo stesso raccontava di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura. Tutti elementi che mise a verbale davanti alla pm Ilda Boccassini, che avrebbe saputo da un suo amico carissimo, e non un confidente, di cui voleva tutelare l'identità.

Di Matteo interrogò Sinico, il quale rimase fermo sul punto. Poi, però, come raccontato dallo stesso magistrato nella sua testimonianza nel processo sul depistaggio, l'ufficiale del Ros tornò in Procura prima che si potesse chiedere un suo rinvio a giudizio e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome di quella che, a suo dire, era la sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami.

Venne disposto un confronto che fu anche drammatico con Di Legami che negò la vicenda e di aver mai fatto riferimento a Contrada.

Sinico disse anche che assieme a lui era presente anche un altro militare, Raffaele Del Sole (al tempo in forza al Ros). Per questo motivo, fu anche rinviato a giudizio perché a quel punto c'erano più militari che indicavano il medesimo soggetto. Ne scaturì anche un processo che poi vide l'assoluzione di Di Legami. Ma su quella vicenda restano diversi dubbi. Perché se a mentire non è stato Di Legami ne consegue che a dire il falso sarebbero stati i due militari del Ros. A che scopo? Perché fu messo in piedi quel tentativo di porre l'attenzione su Bruno Contrada ed il Sisde? Forse per allontanare ogni attenzione da eventuali altre responsabilità?

Solo anni fa è emersa (grazie alla segnalazione di ANTIMAFIADuemila) la foto in cui si vede l’allora capitano dei Carabinieri Arcangioli con in mano la borsa di Borsellino. Possibile che già allora si temesse che potevano emergere prove in quella direzione?

Elementi che meriterebbero di essere approfonditi. Anche perché proprio la sparizione dell'Agenda Rossa del giudice Borsellino è senza dubbio il primo atto di depistaggio attuato in via d'Amelio.

Sempre nel processo Borsellino ter si parla delle piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d'Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei Carabinieri.

Ed è sempre nel Borsellino Ter che venne fatto riferimento (così come raccontato dall'ex boss della Commissione provinciale Totò Cancemi) al dato per cui Riina citava Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro di più”, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga “un bene per tutta Cosa Nostra”.

Ed era sempre stato Cancemi, parlando delle “entità esterne” dietro Cosa nostra nelle stragi ad affermare che “Riina è stato ‘preso per la manina’ in questa strategia”.

Sulla scorta di quelle dichiarazioni Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi proseguì la ricerca della verità sui mandanti esterni nelle stragi con le indagini su “Alfa e Beta” (ovvero Berlusconi e Dell’Utri).

In pochi ricordano che nell'inchiesta nei confronti dell'ex senatore e l'ex premier Di Matteo e Tescaroli furono lasciati soli con uno scollamento di fatto con il resto della procura di Caltanissetta.

Un'inchiesta che si concluse con l'archiviazione da parte del Gip Tona, ma in cui venne messo nero su bianco come “gli atti del fascicolo hanno ampiamente dimostrato la sussistenza di varie possibilità di contatto tra uomini appartenenti a Cosa Nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in vario modo dagli odierni indagati (Berlusconi e Dell’Utri)”.

Ma ovviamente il Senatore Gasparri, che guarda caso è membro di quel partito (Forza Italia) fondato da un uomo della mafia (Dell'Utri), omette volutamente questi dettagli.

Ed ugualmente si tace su un altro fatto.


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Al centro, Nino Di Matteo



La condanna a morte di Di Matteo

E' sempre la Cupola mafiosa a dare le indicazioni su chi sono i veri nemici da abbattere.

E Nino Di Matteo è stato condannato a morte da Totò Riina e Matteo Messina Denaro.

Noi non dimentichiamo che tra il 2012 ed il 2013 Di Matteo è stato condannato a morte dal capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina e da Matteo Messina Denaro (al tempo ancora era latitante, ndr).

Altro che depistatore.

Il capo dei capi corleonese, intercettato in carcere nel 2013, chiedeva di far fare a Di Matteo “la fine del tonno”.

Nel 2014 il boss dell'Acquasanta Vito Galatolo, figlio di Vincenzo Galatolo, spiegò che a fine 2012 fu Matteo Messina Denaro a chiedere di organizzare un attentato per conto di altri soggetti (“Gli stessi di Borsellino”), perché si era "spinto troppo oltre". E sempre Galatolo aveva raccontato dell'acquisto di duecento chili di tritolo che le famiglie palermitane avevano fatto provenire dalla Calabria. Con quel coinvolgimento della 'Ndrangheta, è il segno che a voler morto Di Matteo è tutta la criminalità organizzata.

Non solo. Aggiunse anche un importante dettaglio: Messina Denaro, nella lettera inviata ai boss palermitani, garantiva che "per l'attentato a Di Matteo non era come negli anni '90, si era coperti".

Quella doppia condanna a morte da parte di Riina dal carcere e di Messina Denaro dall'esterno era avallata dal silenzio-assenso degli altri storici capimafia della Cupola. Dal carcere non giunsero reclami da parte dei vari Biondino, Madonia, Graviano, Aglieri, Santapaola e così via.

Sono quelli gli anni in cui venivano portate avanti le indagini che poi confluirono nel processo trattativa Stato-mafia.

Nel corso del tempo anche altri collaboratori di giustizia hanno portato elementi a riscontro delle dichiarazioni di Galatolo confermando il summit avvenuto a Ballarò tra pochi intimi (oltre al boss dell'Acquasanta parteciparono il suo vice, Vincenzo Graziano, ed i capi mandamento di San Lorenzo e Porta Nuova, Girolamo Biondino e Alessandro D’Ambrogio) in cui furono lette le parole di Messina Denaro.
Vale la pena di ricordare le dichiarazioni di Francesco Chiarello, ex boss del Borgo Vecchio, che disse di aver saputo che l'esplosivo era stato “trasferito in un altro nascondiglio sicuro”, a cui si aggiunsero le testimonianze dell'ex boss Carmelo D'Amico, e gli elementi acquisiti con l’arresto dell’avvocato Marcello Marcatajo, oggi deceduto.

Cosa nostra era pronta a colpire e aveva studiato anche alcuni luoghi in cui compiere l'attentato. Un luogo era stato individuato nei pressi del Palazzo di Giustizia di Palermo, con l'utilizzo di un'autobomba (che avrebbe potuto uccidere anche decine e decine di persone), o nei pressi dell'abitazione del magistrato, e aveva pensato anche di utilizzare armi convenzionali, a Roma.

Sul punto proprio Galatolo aveva svelato un altro progetto di morte alternativo che avrebbe coinvolto Salvatore Cucuzza, ex capomandamento di Porta Nuova arrestato nel 1996.

L’ex boss, deceduto a giugno 2014, avrebbe dovuto attirare Di Matteo a Roma, in una trappola, chiedendo di essere sentito dal pm palermitano riguardo ad alcune rivelazioni sulla trattativa Stato-mafia. E nella capitale il magistrato sarebbe stato ucciso a colpi di kalashnikov o con un bazooka. Un’eventualità che, però, è stata successivamente scartata.

Nel 2015 dei ragazzini avevano segnalato la presenza di uomini armati davanti all'ingresso secondario del circolo tennis di San Lorenzo, Tc2.

Ad un anno di distanza, a conferma del pericolo che rimaneva imminente, nell'ambito di un'indagine sulle famiglie palermitane venne intercettato un mafioso che, litigando con la moglie, si lamentava dell'imprudenza della suocera che aveva accompagnato la figlia proprio in quel circolo tennis.

Ed in questo dialogo l'uomo avrebbe spiegato a chiare note che la bambina non doveva andare lì perché frequentato da Di Matteo e “a quello lo devono ammazzare”.

Tutt'oggi Di Matteo è tra i magistrati più scortati d'Italia anche perché la Procura di Caltanissetta, che indagò su quel progetto di morte, nella richiesta di archiviazione mise nero su bianco che è “ancora esecutivo”.

Tutti questi fatti vengono scientemente ignorati dal Senatore Maurizio Gasparri. Anziché puntare il dito su quei magistrati che continuano nella ricerca della verità deve volgere il suo sguardo verso i suoi "amici", alla sua destra e alla sua sinistra. Personaggi delle istituzioni traditori della patria.

Funzionari di polizia, militari, uomini dei servizi di sicurezza, ministri, parlamentari, imprenditori e uomini potenti dell'alta finanza. E' tra  loro che vi sono quei servi infedeli dello Stato che hanno posto in essere depistaggi e trattative. Figure che hanno permesso, se non addirittura voluto, le stragi stesse.

Caro Gasparri, non questioni di mafia, ma di Stato-mafia. Che da cittadini onesti non possiamo accettare.

Foto © Imagoeconomica

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