L’avevano dipinto come l’antimafioso travestito che, zitto zitto, si era sbafato quasi mezza Sicilia. Il pubblico ministero moralista e rigoroso a parole; nei fatti, invece, truffaldino a mani basse, quando si era trovato al suo primo incarico alla Regione siciliana: in qualità di amministratore di “Sicilia digitale”, una società carrozzone che lui, alla sua prima esperienza pubblica dopo l’attività in magistratura, aveva contribuito a bonificare.
Povero Antonio Ingroia, quante gliene avevano dette.
Truffe per milioni di euro, bella vita in hotel a cinque stelle, business class in aereo, note spese taroccate o falsificate di sana pianta. Tanto fango e tanto veleno, contro di lui.
Lui, che già nasceva colpevole, per essere stato il pubblico ministero di punta del processo maledetto, quello contro la trattativa Stato-Mafia che tanto aveva disturbato, e, ancora oggi, disturba il Potere e i Potenti. E lui, a un certo punto, si era visto costretto persino ad abbandonare la toga.
La Corte d’Appello di Palermo - presidente Adriana Piras - ha definitivamente assolto Antonio Ingroia, scagionandolo con formula piena, perché il fatto non sussiste, perché il fatto non costituisce reato. Un processo durato cinque anni.
Non sappiamo se anche Ingroia vorrà iscriversi al club degli imputati accusati e che poi vengono assolti.
Quelli - per intenderci - che all’annuncio della sentenza di assoluzione che li riguarda, dichiarano che “stanno prendendo le pillole per tenersi in vita perché vogliono vedere morire i loro accusatori”. E che fanno anche “lunghe passeggiate” per tenersi in allenamento.
Conoscendolo da anni, siamo sicuri che Antonio Ingroia, a quel “club”, non farà domanda di iscrizione.
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La rubrica di Saverio Lodato
Foto © Paolo Bassani
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