di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
La mancata perquisizione del covo di Riina? “Non era il covo ma l’abitazione dove viveva la moglie. La decisione è stata presa dai magistrati con la polizia giudiziaria accettando il rischio che andavano perse alcune informazioni”. Il successo di Messina Denaro? “La mafia è morta”. La trattativa con Ciancimino? “Dovevamo trovare chi era già nel sistema degli appalti e quell’uomo era Vito Calogero Ciancimino. Subito dopo la morte di Falcone e prima dell’omicidio di Borsellino lo incontrammo con De Donno che lo aveva già arrestato per gli appalti. Lo feci senza avvertire i miei superiori perché mi avrebbero bloccato… io nelle indagini ho bisogno di lavorare per conto mio”. Il futuro? “Adesso attacco e comincio a divertirmi io. Mi sto curando, faccio ogni giorno 4-5 chilometri a piedi, cerco di non ingrassare perché li devo vedere morire tutti. Lo dico con trasporto, con odio. Io ero il nemico necessario a questo circo mediatico giudiziario e politico”.
Eccole alcune delle affermazioni del generale Mario Mori, ex capo dei Servizi Segreti ed ex vice Comandante del ROS dei carabinieri, intervistato da Il Quotidiano Nazionale.
Parole inquietanti che provengono da un uomo che sulla carta dovrebbe rappresentare le Istituzioni, che si fa forte dell'assoluzione in Cassazione nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
Non fa nomi, ma è chiaro che il riferimento è a magistrati, giornalisti e politici che hanno avuto l'ardire di indagare, porre domande o chiedere conto del suo operato.
Con arroganza il generale Mori, potendo contare anche su un clima di restaurazione generale come quello attuale, mira chiaramente a riscrivere la storia dei fatti.
Figurarsi, ad esempio, se il generale Mori poteva prendersi la briga di correggere l'intervistatrice quando erroneamente sostiene che la Cassazione lo ha assolto “perché il fatto non sussiste”. E' noto che Mori, così come gli altri ufficiali dell'Arma Giuseppe De Donno ed Antonio Subranni, lo scorso aprile è stato assolto “per non aver commesso il fatto” (ovvero la violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato).
Un pronunciamento accompagnato dalla definitiva assoluzione per l'ex senatore Marcello Dell'Utri, con la medesima formula, e con la prescrizione per i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà dopo la riqualificazione del reato in “tentata minaccia” a corpo politico dello Stato.
Aspettando di leggere le motivazioni della sentenza di Cassazione ci sono comunque delle puntualizzazioni da fare rispetto al dichiarato di Mori.
Basta osservare le più recenti inchieste della Procura di Palermo per dimostrare che la mafia è tutt'altro che morta. Anzi. La Dia, nella sua ultima relazione, pur ammettendo che l'organizzazione criminale si è “indebolita”, anche grazie all'arresto lo scorso gennaio di Matteo Messina Denaro, evidenzia che Cosa nostra non ha perso la sua contiguità con il tessuto vitale nel territorio palermitano, regionale ed anche nazionale. Non solo. Nel traffico degli stupefacenti viene confermata la capacità di Cosa nostra di "instaurare relazioni commerciali e di stringere alleanze o forme di cooperazione con altre matrici mafiose, quali ‘Ndrangheta e Camorra, per l’acquisto di ingenti quantitativi su larga scala”.
L'ufficiale dell'Arma Giuseppe De Donno © Imagoeconomica
Un'altra clamorosa menzogna è quella che Mori dice parlando di ciò che avvenne il 15 gennaio 1993, ovvero il giorno dell'arresto del Capo dei capi, quando clamorosamente non fu perquisito il covo (la mancata perquisizione finì al centro di un processo con imputati Mori e il capitano Ultimo, entrambi assolti).
Di fatto ripete le stesse parole di Giuseppe De Donno, l’ex colonnello del Ros dei carabinieri, che intervenendo all’università di Chieti, in occasione della presentazione di un libro dello stesso Mori, affermò testualmente: “Un'altra cosa che la stampa non racconta è che quello non era il luogo dove abitava Totò Riina. Quello era il luogo dove abitava la famiglia. Riina non viveva con la famiglia. Abitava in un altro posto che noi non abbiamo mai identificato”. E poi ancora: “Perché noi possiamo affermare che quello non era il luogo in cui viveva Riina? Perché noi quel domicilio di via Bernini lo abbiamo filmato per una serie di settimane precedenti". Il tutto è visibile grazie ad un video girato da Massimiliano Di Pillo, membro del movimento antimafia 'Agende Rosse', e trasmesso in febbraio da Massimo Giletti in una puntata di Non è l’arena. Peccato che quelle affermazioni contraddicono proprio la versione sempre data dai carabinieri, e cioè che la videosorveglianza del cancello dal quale il 15 gennaio 1993 uscì Riina iniziò all’alba del 14 e finì nel tardo pomeriggio del 15 gennaio.
Lo stesso De Donno, raggiunto dall'Adnkronos, fu costretto ad ammettere l'errore dicendo di aver sicuramente fatto “confusione tra le attività di osservazione su imprenditori come i Ganci, durate molto tempo, e quelle svolte su via Bernini dove erano coinvolti gli imprenditori Sansone, e durate un paio di giorni. In quel comprensorio esistevano una serie di villette, in una delle quali abitava il boss e la sua famiglia e dove ribadisco, a mio giudizio, non credo ci fosse il 'covo' di Salvatore Riina”. “Nella foga e nella necessaria sintesi del racconto - aveva aggiunto l'ex colonnello dei Ros - ho evidentemente sovrapposto ricordi giungendo poi a parlare del gruppo di lavoro che era stato costituito con i carabinieri di Palermo e che avrei dovuto dirigere per indagare sul circuito economico e politico di riferimento per Cosa nostra, iniziando le attività di indagine dalla documentazione che il boss, da poco catturato, aveva con sé, fornendo inconsapevolmente elementi ad interpretazioni erronee e fuorvianti”.
A distanza di mesi, Mori, torna sul punto, e nella sua rivisitazione dei fatti parte dal 1992.
Il contatto con Don Vito
Con rinnovata baldanza afferma che il contatto preso con il sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino era necessario per “trovare chi era già nel sistema degli appalti”.
Un'indicazione di quello che sarà il suo prossimo impegno, cioè dimostrare con libri ed indicazioni per la Commissione parlamentare antimafia che proprio l'informativa del Ros dell'epoca era al centro delle stragi del 1992 e della lotta alla mafia.
Vito Ciancimino © Archivio Letizia Battaglia
Nel suo parlare Mori ha più volte dimostrato di essere “insofferente alle regole, soprattutto ai doveri che connotano l’attività della polizia giudiziaria rispetto all’autorità giudiziaria che ne è referente”.
Non ne fa mistero neanche nell'ultima intervista (“Io nelle indagini ho bisogno di lavorare per conto mio”).
Quindi riscrive anche quella che fu l'interlocuzione con don Vito: “Al secondo mi disse che volete da me’? E io usai il termine ’Trattativa’. ‘Signor Ciancimino così è un muro contro muro’. Non potevamo permetterci di fare gli sbruffoni perché a quel tempo avevano vinto loro: era morto Falcone, era morto Borsellino, erano morti i migliori di noi. Stavamo sotto (...) Ero un professionista, sapevo quali erano i miei limiti in quel momento, l’ho trattato da pari. Ai primi di ottobre mi sorprende. Io da Ciancimino speravo qualche informazione per arricchire la mia capacità informativa e svilupparla. E invece mi disse ‘Ho parlato con chi di dovere’ e mi chiese cosa offrivamo in cambio. La mia risposta era molto facile. ‘Se loro si consegnano trattiamo bene loro e le loro famiglie. Ciancimino era sulla poltrona, sbatté le mani sulle ginocchia, si alzò. ‘Voi mi volete morto, anzi volete morire anche voi’. Ci cacciò di casa. Per De Donno avevamo fatto un buco nell’acqua, io no, mi resi conto che era terrorizzato e aveva realmente preso contatti. Sarebbe tornato”.
Parole diverse da quelle dette, sotto giuramento, all’udienza pubblica in Corte d’Assise a Firenze del 27 gennaio 1998.
Disse allora: “Andammo da Ciancimino e dicemmo: signor Ciancimino che cos’è questa storia qui? Ormai c’è un muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato, ma non si può parlare con questa gente? (...) La buttai lì, convinto che lui dicesse: ‘Cosa vuole da me, colonnello?’. Invece disse: ‘Si può, io sono in condizioni di farlo’… Ciancimino mi chiedeva se rappresentavo solo me stesso o anche altri. Certo, io non gli potevo dire: ‘Be’, signor Ciancimino, lei si penta, collabori che vedrà che l’aiutiamo’. Gli dissi: ‘Lei non si preoccupi, lei vada avanti’. Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa… Il 18 ottobre, quarto incontro. Mi disse: ‘Guardi, quelli (Riina&C., ndr) accettano la trattativa’...”.
Anche il capitano De Donno, in quella stessa data d'udienza, descrisse gli incontri con Ciancimino: “Gli proponemmo di farsi tramite per nostro conto di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa Nostra al fine di trovare un punto d’incontro, un punto di dialogo finalizzato’ (De Donno è ancora più esplicito) alla immediata cessazione di queste attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato’. Troviamo un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, e Ciancimino accettò”.
E ancora: “Facemmo capire a Ciancimino che non era una nostra iniziativa personale… Successivamente ci disse che… la persona che faceva da mediatore tra lui e Riina (il medico Antonino Cinà, ndr), voleva una… prova della nostra capacità di intervento: la sistemazione delle vicende giuridiche pendenti del Ciancimino, con conseguente concessione di passaporto… Al quarto incontro, si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Ci disse: ‘Sono d’accordo, va bene, accettano, vogliono sapere che cosa volete’”.
Il medico Antonino Cinà
Parole che si commentano da sole.
Ma Mori fa anche di più nella sua intervista.
Afferma che se non fosse stato arrestato Ciancimino li avrebbe portati all'arresto di Riina.
Parola alle sentenze
Tornando a quel processo sulla mancata perquisizione del covo di via Bernini, Mori ed il “Capitano Ultimo” (alias del Colonnello dei Carabinieri Sergio De Caprio) furono assolti dall'accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, perché “il fatto non costituisce reato”.
Noi non dimentichiamo, però, che sempre quella sentenza mise in luce le pecche operative compiute nella scelta di non effettuare immediatamente la perquisizione ed individua condotte “certamente idonee all'insorgere di una responsabilità disciplinare”.
E' noto che la magistratura fu convinta a non effettuare la perquisizione con la garanzia che sarebbe stata fatta un'osservazione del covo, ma che le telecamere furono staccate dopo appena poche ore e non informarono le autorità competenti, sottraendosi al controllo di legalità della magistratura.
Così, quando il 2 febbraio venne fatta la perquisizione, gli inquirenti trovarono il rifugio del boss completamente ripulito, con mobili ammassati in una stanza, la cassaforte smurata, le pareti imbiancate e perfino le tappezzerie ed i rivestimenti staccati, per eliminare eventuali tracce di Dna.
Noi non dimentichiamo anche un'altra sentenza di assoluzione che ha riguardato Mori: quella per il mancato blitz a Mezzojuso dove si nascondeva Bernardo Provenzano.
In quel processo l'ex generale era imputato con il colonnello Obinu ed anche in quella occasione vi furono assoluzioni perché "il fatto non costituisce reato".
Tuttavia nelle motivazioni della sentenza d'appello il collegio presieduto da Salvatore Di Vitale aveva scritto che "la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo".
Sempre in quella sentenza, proprio per il mancato arresto di Provenzano, si legge che: “Le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati (soprattutto quelle di non curare adeguatamente gli spunti investigativi emersi dall'incontro di Mezzojuso), a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell'operato dei due e lasciano diverse zone d'ombra che il dibattimento, nonostante lo sforzo profuso dalla Pubblica Accusa, non è riuscito a dipanare".
Bernardo Provenzano
Perché Mori non ricorda mai queste pesanti considerazioni dei giudici? Parliamo di sentenze passate in giudicato.
Al di là dell'assoluzione di aprile il processo Stato-mafia ha fatto emergere anche altri fatti su cui Mori non si misura, come le numerose ombre del proprio passato quando si trovava in servizio al Sid (Servizio Informazioni difesa, ex Sismi, attuale Aise, ndr).
Un altro fatto che merita di essere ricordato è quel che fu detto durante la conferenza stampa dell'arresto di Riina, proprio il 15 gennaio 1993. In quell'occasione infatti, l'allora Comandante della Regione Sicilia, Giorgio Cancellieri usò per la prima volta pubblicamente la parola "trattativa" commentando proprio la cattura del Capo dei capi: "La personalità di Totò Riina è nota. Fa parte... direi della letteratura della mafia, a lui sono riconducibili tutta una serie di gravissimi e reiterati episodi di criminalità nell'isola, nell'intera Nazione e anche fuori dal territorio dello Stato. Fenomeni che hanno aggredito, nei gangli vitali, la popolazione, il cittadino comune, qualsivoglia attività produttiva, con attacchi ripetuti contro le Istituzioni statali. E questo in un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico, addirittura potrebbe avere dell'inaudito e dell'assurdo, di mettere in discussione l'Autorità istituzionale. Quasi a barattare, a istituire una trattativa per la liquidazione di una intera epoca di assassini, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita nazionale".
In quella occasione nessuno dei magistrati presenti (il procuratore Gian Carlo Caselli, appena arrivato a Palermo, e gli aggiunti Vittorio Aliquò ed Elio Spallitta) o dei cronisti chiese al Generale in base a cosa ipotizzasse simili scenari, né tanto meno vi fu qualcuno che abbia approfondito queste inquietanti osservazioni. Men che meno agenzie di stampa o articoli di giornale riportarono una tale affermazione.
Eppure rilette oggi quelle parole fanno ancora effetto. In base a quali elementi il gen. Cancellieri utilizzava termini come “barattare” e “trattativa” riferendosi agli attacchi sanguinari di Cosa Nostra nei confronti di esponenti delle istituzioni?
Ascoltato in dibattimento il 9 febbraio 2017, Cancellieri testimoniò che in quell'occasione ebbe a farsi portavoce, quale Ufficiale più alto in grado della Regione Sicilia, di un comunicato predisposto dal Ros nelle persone di Subranni e Mori o comunque di indicazioni da questi ultimi fornitegli poco prima dell'inizio della conferenza stampa.
Tutti questi fatti vengono spesso evitati o sminuiti dai Mori di turno o dai “giornaloni” di regime. Eppure sono lì.
Hanno un peso tanto quanto le sentenze. Come quella definitiva sulle stragi del 1993, scritta dai giudici di Firenze: “L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto tra il Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino (…) iniziativa del Ros - perché di questo organismo si parla posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante, lo stesso comandante del reparto - aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Questa iniziativa al di là delle intenzioni con cui fu avviata (…) ebbe sicuramente un effetto deleterio per le istituzioni confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato”.
Da sinistra: il generale Mario Mori con i suoi avvocati, Basilio Milio (a sinistra) e Vittorio Manes © Imagoeconomica
Mori non si misura mai con le parole di questa sentenza. Anzi. A pochi giorni dalla sentenza dello scorso aprile affermava in un'intervista a La Stampa che avrebbe rifatto la trattativa con Ciancimino.
Peccato che sull'altare di quel dialogo avviato tra le stragi di Capaci e via d'Amelio morirono altre persone. Dopo la morte del giudice Borsellino e degli agenti di scorta vi furono anche altri attentati.
Nel maggio 1993 quelli di via Fauro a Roma e via dei Georgofili a Firenze, quindi in luglio via Palestro a Milano e le basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma. E solo un puro caso non ha permesso l'esecuzione della strage progettata e poi annullata allo stadio Olimpico di Roma nel gennaio 1994.
Per tutti questi delitti morirono 15 persone, tra cui due bambine, una di 50 giorni e l'altra di nove anni, Caterina e Nadia. Vi furono decine di feriti a cui vanno aggiunti i danni al patrimonio artistico e alla sicurezza nazionale. I politici iscritti alla lista di morte di Cosa nostra, invece, ebbero salva la vita. Altro che dialogo avviato “per fermare le stragi” (come dissero gli stessi carabinieri).
Mori oggi ha lanciato una “nuova sfida” con propositi di vendetta. I nomi di quelli che considera suoi “nemici” non sono lasciati all'immaginario. Li ha indicati in passato in altre interviste o in altri contesti. Anche la nostra testata fa parte di quei media che hanno avuto l'ardire di raccontare i fatti e fare domande. Siamo stati anche citati durante il processo Stato-mafia nel corso dell'arringa di primo grado, dal suo legale, Basilio Milio.
Al “valoroso” generale Mori, oggi in pensione, diciamo che con noi ci sono migliaia di lettori che sanno distinguere la menzogna dalla realtà.
Abbiamo già ricordato le sue condotte nefaste per cui, come dice la sentenza sul covo di Riina, per le omissioni all'autorità giudiziaria avrebbe potuto essere soggetto a provvedimento disciplinare (che per i militari può prevedere anche la degradazione). Invece oggi questo governo fascista in carica lo considera alla strenua di un Eroe della Nazione. Povera patria, diceva Battiato. Ormai sull'orlo dell'abisso.
Un'ultima considerazione. La vita è una cosa seria. Non si scherza su di essa e la morte non si augura a nessuno, neanche al peggior nemico.
Foto di copertina © Imagoeconomia
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