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Intervista de La Stampa al sostituto procuratore nazionale antimafia

C’è un disegno unico nelle riforme che attuano il programma fondativo di Forza Italia e affondano le radici nel disegno della loggia P2”. Non usa mezzi termini il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, già consigliere togato al Csm, intervistato questa mattina da La Stampa per commentare la riforma del Guardasigilli Carlo Nordio e del pericolo che questa rappresenta per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, proseguendo quanto già avviato dall’ex ministra Marta Cartabia sotto il Governo Draghi.

Di Matteo premette subito la necessità di mantenere una “visione di insieme” senza la quale si rischia di fare un dibattito sulle singole riforme che non porta a nulla. “Nel solco del programma dei governi Berlusconi, negli ultimi anni la politica è pervasa da una voglia di rivalsa nei confronti di una certa magistratura, che, in ossequio alla Costituzione, ha esercitato il controllo di legalità a 360°”, ha detto Di Matteo in risposta alla domanda di Giuseppe Salvaggiulo sullo scontro politica-magistratura.


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Carlo Nordio © Imagoeconomica


Dalla Cartabia a Nordio un unico fil rouge
Non è la prima volta che Di Matteo denuncia la pericolosa continuità tra la riforma Cartabia e quella più recente di Carlo Nordio. “Vanno nella stessa direzione - ha detto -. Che non è rendere più veloce la giustizia, ma sdoppiarla. Implacabile sui reati comuni; lenta e spuntata verso le manifestazioni criminali dei colletti bianchi. Cartabia ha aperto il varco che Nordio percorre. Le sue riforme darebbero la spallata finale”. Un sequel, dunque, che emerge dall’improcedibilità introdotta dalla Guardasigilli di Draghi, “che fa svanire i processi in appello e cassazione, inducendo le Procure ad atomizzare l’azione penale, tralasciando i sistemi criminali complessi”. Ma anche dalla “previsione di querela per perseguire reati come sequestri di persona e lesioni gravi - ha aggiunto il sostituto procuratore nazionale antimafia -. Criteri di priorità dell’azione penale indicati dal Parlamento. Limitazioni al diritto di cronaca anche per notizie non più coperte da segreto. Fin qui la riforma Cartabia. Poi arriva il nuovo governo. Ampia liberalizzazione delle procedure di appalto. Abrogazione dell’abuso di ufficio. Limitazione del traffico di influenze. Ulteriore stretta sulla pubblicazione di intercettazioni non più coperte da segreto. Modifiche costituzionali su separazione delle carriere e obbligatorietà dell’azione penale”. Una serie di manovre dietro le quali Di Matteo non intravede una “discontinuità”, ma piuttosto “un percorso unico, che tra l’altro affonda le radici in epoche lontane”.


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Silvio Berlusconi © Imagoeconomica


L’ombra di Berlusconi e della P2 dietro le riforme
A preoccupare ulteriormente è l’assonanza con quanto hanno voluto fare i vari governi Berlusconi e, ancor di più, “con il piano di rinascita democratica della loggia P2”.

Il tutto con l'obiettivo, appunto, di “ridimensionare l’indipendenza della magistratura, controllarla direttamente e indirettamente. Questa è la posta. Il sistema di potere intende blindarsi, inattaccabile dal controllo di legalità”.

Nordio, così come la maggioranza di governo, ha voluto dedicare la riforma della Giustizia a Silvio Berlusconi. Una sorta di elogio post mortem. “La rivendicazione è nei fatti - dice Di Matteo -. Si va nella direzione tracciata con la discesa in campo del 1994. Sembra che oggi si voglia finalmente fare ciò che ai governi di centrodestra non era riuscito”. Il tutto in un contesto in cui la magistratura, che non è più quella di 30 anni fa, “paga anche sue colpe, con una perdita di credibilità di cui il potere politico vuole approfittare”. Un quadro dovuto alla tendenza sempre più presente al carrierismo e alla burocrazia in cui sono cadute “procure gerarchizzate e interessate più alle statistiche che all’approfondimento delle indagini”. E per Di Matteo, questo clima potrebbe portare il Paese “a mettersi alle spalle la stagione dei maxiprocessi, delle indagini su rapporti mafia-politica o sulle stragi. Il momento è delicato. Ora si può ridisegnare la magistratura spuntando le armi del controllo di legalità e ingabbiandola nel concetto delle carte a posto”.


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Antonio D'Alì © Imagoeconomica


Dall’abuso d’ufficio al concorso esterno il passo è breve
Salvaggiuolo ha poi riportato l’intervista ai temi caldi del dibattito pubblico: abolizione dell’abuso d’ufficio, revisione del concorso esterno in associazione mafiosa e altri reati.

Molti procedimenti nati da esposti di cittadini che ipotizzano abusi di ufficio finiscono per accertare turbative d’asta, corruzioni, interessi mafiosi nella pubblica amministrazione - ha detto Di Matteo -. Abolirlo significa bloccare le indagini mentre piovono centinaia di miliardi del Pnrr e indebolire la tutela del cittadino da condotte prevaricatrici del pubblico ufficiale”. Quanto al concorso esterno, per il magistrato si tratta di un reato “frutto dell’applicazione giurisprudenziale delle stesse regole del codice che valgono per ogni altro reato”. “Chi lo contesta ignora, o finge, che per primo fu Falcone a utilizzarlo per indagare Ciancimino; e che grazie a questo reato sono stati condannati politici importanti (Dell’Utri, D’Alì e Cosentino), funzionari di polizia, imprenditori, sindaci, magistrati - ha aggiunto -. La mafia diventa più fluida, prescinde da vecchi riti di affiliazione formale. Eliminare il concorso esterno costituirebbe un grave danno”. Insomma, la direzione intrapresa dal governo è “pericolosa”. “Oggi - ha aggiunto Di Matteo - su oltre 57mila detenuti, meno di 10mila scontano una pena definitiva per corruzione. In Italia la corruzione è stata debellata oppure, a me pare, è un fenomeno sostanzialmente impunito. Le riforme tendono ad allargare questa impunità”.


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Paolo Borsellino © Shobha


L’esempio di Paolo Borsellino
Il magistrato Paolo Borsellino è stato spesso inserito nel pantheon dei punti di riferimento di Giorgia Meloni e del suo partito (oltre che del governo). Ma c’è una differenza sostanziale tra la giustizia legalitaria - incarnata da Borsellino - e quella di questo Governo. “Mi fa specie che esponenti del governo, a cominciare dal primo ministro, rivendicano l’adesione al modello ideale di Borsellino - ha detto Di Matteo -. Quando gli chiesero dei rapporti mafia-politica, Borsellino disse pubblicamente che il dramma dell’Italia è che se non c’è reato non si fa valere la responsabilità politica anche per comportamenti gravi e accertati”.

Mentre oggi, invece, si dice a più riprese che si devono aspettare le sentenze. “Ogni volta che si accerta un fatto, per esempio di contiguità mafiosa, la politica reagisce così, confondendo piani diversi - ha continuato il magistrato -. La responsabilità giuridica risponde al principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva; quella politica dovrebbe scattare a prescindere e prima, sulla base di fatti già conosciuti. Un approccio contraddittorio che di fatto abolisce la responsabilità politica”. Ed è proprio l’assenza di un “termometro” politico ad aver relegato alla magistratura “il compito di risolvere casi di condotte incompatibili con il ruolo pubblico. Salvo poi lamentare che la magistratura fa campagna elettorale”. Una condotta che contraddice l’esempio di Borsellino. Una retorica di poco gusto. “Le riforme non mi pare che vadano nella direzione auspicata da Borsellino per rafforzare la lotta alla mafia. Piuttosto, la indeboliscono sul fronte più delicato. Così non si onora l’eredità morale di Falcone e Borsellino. La si tradisce”, ha concluso Nino Di Matteo.
(Prima pubblicazione: 14 Luglio 2023)

Foto di copertina © Deb Photo

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