Decine di cronisti hanno realizzato un flash-mob a piazza Verdi per denunciare le riforme Nordio e Cartabia: “E’ in pericolo il diritto dei cittadini di essere informati”
“Via i bavagli alla stampa”. E’ questo il messaggio lanciato ieri da Associazione Siciliana della Stampa che da alcuni mesi ha iniziato una campagna di sensibilizzazione per raccontare gli effetti e le distorsioni dell’emendamento Costa e gli effetti della legge bavaglio. Ieri, sul punto, l’Associazione ha organizzato, insieme a giornalisti di Palermo e di altre città della Sicilia, un flash-mob con una simbolica lettura dei giornali, sulle note musicali di Jovanotti, davanti al teatro Massimo di Palermo ed una serie di interventi a difesa della libertà di stampa per una informazione indipendente e garante di diritti e democrazia.
L’Associazione siciliana della stampa, insieme alla Federazione nazionale della stampa, hanno lanciato “l’allarme perché in Italia le opportunità di controllo democratico si stanno restringendo”. E non è qualcosa, affermano, “che riguarda solo l’attuale governo o un fronte politico. La legislazione negli anni, ad opera di centro, destra e sinistra, ha progressivamente ristretto la libertà d’informazione nascondendo l’insofferenza per la libertà d’espressione dietro al paravento ora della presunzione d’innocenza, ora della riservatezza. Dà sempre più fastidio il dibattito critico. Noi giornalisti ci opponiamo a questa deriva liberticida. Rivendichiamo il diritto-dovere di offrire all’opinione pubblica un’informazione curata da professionisti e tutelata da norme deontologiche”. Nel mirino, appunto, ci sono le misure firmate dall’ex Guardasigilli Marta Cartabia e dal parlamentare Enrico Costa (Azione). Misure che stanno avendo, o avranno, l’effetto di imbavagliare le redazioni giornalistiche con il pretesto del garantismo. Principio che questi interventi in realtà non tutelano.
Dal governo Draghi ad oggi la politica ha piazzato una serie di restrizioni alla libertà d’informazione. Sono state silenziate le fonti delle notizie con la scusa della presunzione d’innocenza.
Poi c’è stata una stretta alla pubblicazione delle intercettazioni, pure quelle che potrebbero provare l’innocenza dell’imputato. Quindi è arrivato il divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare.
“Arriviamo alla follia di comunicati delle forze dell’ordine che arrivano in redazione ma senza i nomi degli arrestati”, ha denunciato il caporedattore di ANSA Sicilia Franco Nuccio.
Diffondere l’identità dovrebbe invece essere a tutela di “chi è stato privato della propria libertà personale. Come facciamo a scriverlo se non sappiamo il nome e il cognome?”, si è chiesto.
“Si parla tanto di garantismo”, ha aggiunto. “Io sono sinceramente garantista ma credo che il garantismo vada applicato non solo alle persone indagate ma anche alle vittime di quei reati. Quando si parla di reati di criminalità organizzata o di corruzione le vittime siamo anche noi. E chi ci garantisce se noi non siamo informati correttamente?”. Quindi il caporedattore ha ricordato il giornalista Mario Francese, ucciso dalla mafia a Palermo il 26 gennaio 1979. “Francese fu il primo cronista a fare il nome di Totò Riina prima ancora che quel nome venisse scritto in provvedimenti giudiziari. Io mi chiedo oggi come potrebbe lavorare?”. Francese, ha aggiunto, “negli anni ’70 consumava la suola delle scarpe nei corridoi di palazzo di giustizia”. Quel modo di fare giornalismo, però, non è più realizzabile, come ha denunciato il cronista di giudiziaria di Repubblica Salvo Palazzolo. “Da qualche mese non c’è più la possibilità di intervistare un investigatore che ha fatto indagini. Non c’è più la possibilità di intervistare un magistrato. Lo Stato a Palermo non ha più un volto”, ha affermato denunciando gli effetti della riforma Cartabia che impedisce a magistrati e forze dell’ordine di dare informazioni, anche quelle che esulano le indagini in corso, sui fatti di cronaca. “Io credo che in questo momento mentre i giornalisti subiscono il bavaglio, le cosche a Palermo hanno lanciato una grande campagna di rapporti e sensibilizzazione e cercano di passare per la mafia buona”. “C’è una voglia di mafia terribile nei nostri quartieri”, ha aggiunto. “Imprenditori che si rivolgono ai boss per recuperare un credito e politica che chiedono voti”.
Salvo Palazzolo
In questo senso, secondo Palazzolo, Palermo sta perdendo la lotta al racket. “Non ci sono più imprenditori e commercianti che denunciano perché il messaggio che ha lanciato la mafia è più convincente”. Secondo Palazzolo “in questi anni la lotta al racket ha avuto risultati importanti e tanti commercianti si sono rivolti allo Stato perché gli uomini dello Stato ci hanno messo la faccia. Magistrati, carabinieri, poliziotti e finanzieri hanno messo la faccia in interviste e in conferenze che abbiamo fatto noi”. E in questo clima di silenzio “c’è un fiume di droga che sta invadendo Palermo, come negli anni ’70”. Questa non è una battaglia dei giornalisti, ha affermato Palazzolo in corso con altri dei colleghi presenti in piazza Verdi. “Questa manifestazione deve arrivare nelle scuole, nei sindacati, nelle istituzioni, nella chiesa. Rischiamo di perdere tutto quello che è stato fatto e di dimenticare, così, i nostri martiri”, ha aggiunto ricordando gli otto giornalisti uccisi in Sicilia. “La mafia ha già messo il bavaglio e queste leggi rischiano di essere un grande favore alla mafia”, ha concluso.
Altro tema molto dibattuto ieri mattina tra i vari interventi dei giornalisti siciliani anche quello del precariato nelle redazioni e delle querele temerarie.
“Oggi i giornali sono fatti soprattutto grazie a colleghi collaboratori che sono pagati 5 euro a pezzo e non hanno, a differenza nostra, una tutela in caso di querele temerarie”, ha affermato Nuccio. “Io penso alla difficoltà di fare informazione se una persona non ha una garanzia contrattuale o una tutela economica. La figura che spesso viene indicata del giornalista è quello del cane da guardia della democrazia, oggi mi sembra che la politica non voglia un cane da guardia ma un cane accucciato e da riporto. Cioè che riportino soltanto le notizie che convengono ai politici”. Di querele temerarie ha parlato anche Alessia Candito, calabrese, giornalista di Repubblica, che in passato ricevette una richiesta di risarcimento di un milione di euro per “danno d’immagine”. “Attendiamo ancora una legge contro le querele temerarie”, ha affermato. E riguardo alle leggi bavaglio. “Per capire bene la portata di questa legge bisogna inserirla in un contesto generale di svolta repressiva che stiamo vivendo. Un contesto in cui viene limitato il diritto di sciopero, in cui c’è una giustizia che viene tarata a tutela dei potenti. Tant’è che aboliamo l’abuso d’ufficio che i magistrati ci spiegano essere un reato spia dell’inserimento delle mafie nelle pubbliche amministrazioni. Mentre con un decreto Caivano ipotizziamo di poter fare un ammonimento dal questore a un bambino di 12 anni”. E sulle ragioni che hanno mosso questi interventi dell’esecutivo.
Alessia Candito
“Non credo che non sapere qualcosa possa essere garanzia per qualcuno, né per i colpevoli, né per gli innocenti. Anche perché i giornali non si occupano semplicemente del penalmente rilevante perché non siamo il gazzettino di questo o quel tribunale, raccontiamo la società. E dalle intercettazioni si capisce tanta società”, ha spiegato. “Capita che dalle intercettazioni si apprenda qualcosa di penalmente non rilevante ma è socialmente o politicamente inaccettabile e noi dobbiamo essere liberi di spiarlo a chi non ha accesso a quei contenuti o a chi non capisce quei contenuti. Così come dobbiamo essere in grado di raccontare quando un’indagine è pretestuosa o ha buchi”. Inoltre, ha osservato la giornalista, “gli strumenti per difendersi da qualcosa di scorretto che viene scritto ci sono. Abbiamo le querele, e, ci sono i risarcimenti in sede civile”.
“Io non credo che i giornalisti siano questo mostro pericoloso per la Repubblica e la democrazia da cui ci si deve tutelare tanto da pensare una legge per imbavagliarli. Né penso che, arrivati a questo punto, una lotta solo dei giornalisti possa essere efficace. In questo momento sono sotto attacco tutte le categorie e di tutte le categorie si cerca di limitare la libertà. A partire dai sindacati. Credo quindi - ha concluso - che dobbiamo cominciare a ragionare su una solidarietà che vada oltre la nostra categoria che troppo spesso ha fatto di tutto per dar ragione a chi la definisce una casta”.
Foto © ACFB
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