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L’ex magistrato risponde al Fatto sulla proposta di limitare la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare

Il compito della giustizia è quello di “garantire i diritti dei cittadini e il rispetto delle regole di convivenza civile”. In Italia, però, “le disfunzioni sono tante: un processo farraginoso e incomprensibile, costi e tempi elevatissimi, trattamenti diseguali tra ‘chi può’ e chi no (e una disciplina della prescrizione inesorabilmente vincolata alla perpetuazione di questo schema)”. Insomma, nel Bel Paese il sistema giustizia “non funziona” e con le recenti proposte di palazzo “arranca sempre più”. Così l’ex procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli, intervistato dal Fatto, commentando l’ultima bravata del Governo Meloni: la riforma che vieterà di rendere pubblico, sia in versione integrale sia per estratto, il testo delle ordinanze di custodia cautelare, fino alla conclusione delle indagini. Un vero e proprio bavaglio che, a differenza di quanto la propaganda mainstream continua ad affermare, colpisce innanzitutto il diritto dei cittadini ad essere informati.

Il non funzionamento della giustizia “viene addebitato all’incapacità o all’ignavia della ‘casta’ dei magistrati, i ‘manovratori’ del congegno con i quali è fisiologico prendersela, soprattutto se nella stessa direzione soffia impetuoso, da Berlusconi fino ad oggi, un vento ostile sostenuto da massicce campagne condotte senza risparmio da uomini e media - ha detto Caselli a Gianni Barbacetto -. Mi chiedo ancora una volta quanti siano nel nostro Paese a stracciarsi le vesti per l’inefficienza della giustizia, mentre in cuor loro tifano per una ‘inefficienza efficiente’, nel senso di funzionale al mantenimento dei loro privilegi al riparo da ogni controllo di legalità, parola questa che solo a pronunziarla gli viene l’orticaria”.

Per l’ex magistrato, oggi in pensione, la proposta di Palazzo Chigi “non è solo un grave vulnus sul piano tecnico-giuridico (da contrastare anche perché potrebbe essere l’avvio di una slavina). È ben di più”. Tra i compiti di una democrazia, infatti, vi è quello di “garantire spazi effettivi anche alle minoranze”. “Altrimenti - ha sottolineato -, se la maggioranza si prende tutto, l’alternanza, che è il dna della democrazia, viene ridotta a simulacro e la vita sociale e civile ne esce mutilata. Tali spazi dipendono tra l’altro dall’effettività del controllo sociale e del controllo di legalità. Controllo sociale significa informazione pluralista e indipendente (e sul punto il bavaglio opera come moltiplicatore di tendenze già in atto, ben descritte da Antonio Padellaro nell’articolo “Occupare potere, ragione sociale di questa destra”). Mentre controllo di legalità significa magistratura autonoma e indipendente, proprio quella che viene costantemente osteggiata quando vi siano in gioco interessi “sensibili” per chi può e conta”.

Da ex magistrato condivide la scelta dei suoi ex colleghi che hanno scelto di non rispettare il bavaglio. “Brutti tempi quelli in cui a un giudice – per far bene il suo mestiere – non bastano onestà e preparazione professionale, ma occorre anche dar prova di combattività e coraggio”, ha commentato concludendo poi con una frase di una omelia di don Tonino Bello intitolata “Buon Natale, recando disturbo”: “‘La pace annunziata dagli angeli porti guerra alla sonnolenta tranquillità, incapace di vedere che – poco lontano di una spanna – si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si condannano popoli allo stermino per fame’. Ecco, la sonnolenta tranquillità è l’antitesi di una buona informazione che voglia denunziare ogni ingiustizia e i bavagli sono fatti apposta per favorirla”.

Foto © Imagoeconomica

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