Al 40° anniversario dell’omicidio di Pippo Fava ospite il procuratore aggiunto di Catania
A 40 anni di distanza dall’omicidio mafioso di Giuseppe Fava, limitarsi alla memoria rischia di essere un esercizio sterile e di poco conto. Necessario, ma non sufficiente per cambiare l’andamento delle cose. “Serve guardare in profondità e alla radice delle questioni e non limitarsi alla superficie. Alla base di Catania c’è un grande problema sociale, dal quale scaturiscono profili criminali che sono l’aspetto sintomatico. Occorre andare guardare al nodo del problema e non alla sintomatologia”. Dunque, osservare il panorama nella sua complessità. Dalla questione giustizia alla qualità dell’informazione, dai diritti sociali dei cittadini alla percezione di appartenere ad una collettività, una polis, come si sarebbe detto un tempo. Ne è convinto il procuratore aggiunto a Catania Sebastiano Ardita, intervenuto ieri sera in occasione della consegna del Premio nazionale di giornalismo “Giuseppe Fava - Niente altro che la verità. Scritture e immagini contro le mafie” - della Fondazione Fava - al giornalista Francesco La Licata (assente per motivi di salute) per la sua carriera da cronista: 50 anni di servizio. Il tutto all’interno della giornata commemorativa del fondatore de I Siciliani, un’esperienza che ha lasciato un segno indelebile nel capoluogo etneo. Fra le iniziative organizzate a Catania in onore di Pippo Fava, anche un corteo tra via Roma e la strada che ne porta il nome e dove una lapide ne testimonia l'assassinio. Poi il dibattito “Fare (non solo) memoria”, moderato da Luisa Santangelo, dove, oltre al procuratore Ardita, sono intervenuti anche Pierangelo Buttafuoco, Claudio Fava e Michele Gambino.
Sebastiano Ardita
Quarant’anni dopo quel terribile 5 gennaio 1984, è necessario un “ragionamento complessivo - ha detto Ardita -. Rispetto a 40 anni fa ci troviamo in una condizione completamente diversa e non sempre per questioni che attengono al progresso messo in campo”. Per il magistrato, che oltre ad essersi occupato di criminalità organizzata ha avuto anche una lunga esperienza al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ci troviamo di fronte ad una retrocessione, per usare un termine calcistico, “molto grave e per certi versi inaccettabile”. “Mentre la criminalità ha tarato e studiato il proprio approccio con le questioni che riguardano i propri interessi, e quindi la città (non è un mistero il fatto che non si spari più perché comporta conseguenze problematiche per la criminalità stessa), dall’altra parte non vedo una risposta istituzionale complessiva che abbia memoria di quanto sia accaduto – ha detto alla platea del Centro Zo -. Noi siamo in una fase di reflusso assoluto sull’attività di contrasto. Premesso che in uno Stato liberale il punto di equilibrio fra sicurezza e garanzia è sempre da tenere in buona considerazione, temo però che siamo andati molto oltre”. Secondo il magistrato, candidato in lista come papabile Procuratore capo di Catania, “assistiamo alla destrutturazione del sistema penitenziario dalle sue fondamenta, non solo per la parte inerente alla sicurezza o alla civiltà della pena. Ciò è avvenuto perché ad un controllo intelligente dello Stato si è preferita l’autogestione delle carceri. E questo significa il controllo della mafia negli istituti penitenziari in cui queste realtà proliferano”.
Quarant’anni dopo il delitto Fava “ci troviamo nella fase della Riforma Cartabia che fa arretrare qualsiasi modello di efficienza e contrasto. Addirittura, dovrebbe alimentare il meccanismo dei processi facendo venire meno gli effetti se il processo non finisce in un determinato lasso di tempo. Senza, dunque, intaccare minimamente le lungaggini che caratterizzano il processo – ha continuato -. Siamo arrivati alla fase in cui scompaiono notizie dai giornali. Notizie che riguardano i fatti processuali (alludendo all’ultima furbata governativa che mette un bavaglio al giornalismo, ndr). Infine, sono scomparsi i magistrati. Sia dal punto di vista della loro presenza, ma anche della loro personalità e della loro capacità di incidere ma anche rispetto alla responsabilità di ciò che compiono”. Sebastiano Ardita è entrato in magistratura durante gli anni delle stragi che hanno insanguinato Palermo. Un’epoca nella quale “era noto chi facesse il magistrato e quindi svolgesse un’attività rilevante”. Oggi, invece, “i magistrati sono scomparsi nelle strettoie dei divieti dell’ordinamento giudiziario che fa comparire solo i procuratori titolari di un’azione penale, mentre i sostituti agiscono come se fossero dei dipendenti – ha aggiunto preoccupato -. Questo quadro è il presupposto di un modello con il quale si rischia di tornare agli anni ’80 sul piano della forza militare di Cosa nostra e dall’altra parte ritrovarci non solo impreparati ma anche depotenziati, scomparsi, senza notizie e senza conoscenza dei fatti”.
Foto © Angelo Vitale
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