Sventato omicidio di un architetto. I carabinieri, con sofisticate apparecchiature, hanno ascoltato i boss parlare di “statuto” di Cosa Nostra
Alle prime luci dell'alba i carabinieri del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale dei carabinieri di Palermo hanno eseguito 7 misure cautelari (5 in carcere e 2 ai domiciliari) a carico di altrettanti indagati del clan Pagliarelli. Gli arrestati sono: Pietro, Gioacchino e Angelo Badagliacca, Marco Zappulla e Pasquale Saitta. Domiciliari per Michele Saitta e Antonino Anello, in quanto ultrasettantenni. L'accusa per tutti è di associazione di tipo mafioso ed estorsioni, consumate e tentate, con l'aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare l'attività mafiosa e di essersi avvalsi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. I provvedimenti, emessi dal gip di Palermo su richiesta della locale Direzione distrettuale antimafia, sono stati eseguiti oltre che nel capoluogo siciliano, anche a Riesi (Caltanissetta) e Rimini. L'operazione, spiegano dal Comando provinciale dei carabinieri di Palermo, si incardina in "una più ampia manovra investigativa, condotta all'unisono dalle articolazioni territoriali e speciali dell'Arma sotto l'egida della Procura di Palermo, tesa a disarticolare Cosa nostra nel suo complesso - colpendone tanto l'assetto militare quanto i cospicui patrimoni illeciti - nell'intento di neutralizzarne l'impatto sul tessuto socio-economico nonché di scardinare quella rete di omertà e connivenza grazie alla quale, ancora oggi, l'associazione mafiosa fornisce supporto alla latitanza di suoi esponenti di spicco". Le indagini hanno colpito, in particolare, la famiglia mafiosa di Rocca Mezzomonreale, già condannati in passato in via definitiva per il reato associativo, ma anche uomini d'onore riservati, rimasti a oggi immuni da attenzioni investigative a causa delle cautele adottate nei loro confronti dal clan.
L'operazione antimafia ha inoltre permesso di confermare ancora una volta le storiche figure di vertice, già in passato protagoniste di episodi rilevantissimi per la vita dell'associazione mafiosa, quali, ad esempio, la gestione operativa della trasferta in Francia del boss corleonese deceduto Bernardo Provenzano per sottoporsi a cure mediche o la tenuta dei contatti con l'allora latitante Matteo Messina Denaro. Ma le indagini che si sono avvalse di pedinamenti e intercettazioni hanno svelato anche l'esistenza dentro la famiglia di uomini d'onore riservati rimasti ad oggi del tutto estranei alle cronache giudiziarie, che, spiegano gli investigatori dell'Arma, "pur dimostrando una piena adesione al codice mafioso universalmente riconosciuto da Cosa nostra, godrebbero di una speciale tutela e verrebbero chiamati in causa soltanto in momenti di particolare criticità dell'associazione".
Lo "statuto" di Cosa Nostra
Grazie a complessi servizi di pedinamento e intercettazioni gli investigatori dell'Arma hanno anche "ascoltato" una riunione della famiglia tenutasi nelle campagne di Caltanissetta - durante le quali gli indagati hanno fatto più volte riferimento allo "statuto" delle regole di Cosa Nostra, un vero e proprio "codice" scritto da "padri costituenti".
Ritenuto molto interessante, dunque, quanto emerso dalla riunione della famiglia mafiosa di Palermo - Rocca Mezzomonreale al completo, tenutasi per estrema prudenza in una casa nelle campagne della provincia di Caltanissetta; in quel contesto si è registrato il costante richiamo degli indagati al rispetto di regole e dei principi mafiosi più arcaici che - compendiati in un vero e proprio "statuto" scritto dai "padri costituenti" - sono considerati, ancora oggi, il baluardo dell'esistenza stessa di Cosa Nostra. Nell'ambito della conversazione captata, definita dallo stesso gip. "di estrema rarità nell'esperienza giudiziaria", si è più volte fatto esplicito richiamo all'esistenza del "codice mafioso scritto", custodito gelosamente da decenni e che regola, ancora oggi, la vita di Cosa nostra palermitana.
Sventato omicidio
Uno dei retroscena del blitz antimafia eseguito dai carabinieri del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale di Palermo riguarda il progetto di omicidio ai danni di un architetto. Le indagini hanno consentito di sventarlo. L’eliminazione era stata voluta perché ritenuto responsabile di una serie di mancanze nello svolgimento della propria opera professionale. "Io gli scippo la testa! anzi, una volta l'ho salutato pure, perche' io lo devo ammazzare vero non per scherzo! Ci vorrebbe non salutarlo pure perché io lo devo ammazzare vero, non per scherzo non gliel'ho detto mai", si esprimeva Gioacchino Badagliacca. Il progetto di omicidio, era stato rivelato nel corso di una riunione mafiosa svoltasi a settembre scorso a Butera, in provincia di Caltanissetta, dove i partecipanti parlavano liberamente ma - grazie agli investigatori del Nucleo investigativo del reparto operativo dei carabinieri di Palermo guidato dal tenente colonnello Salvatore Di Gesare - le conversazioni sono state captate in tempo reale. La potenziale vittima era un architetto e le ragioni "alla base - si legge nel provvedimento del gip Lirio Conti - nutrito da Gioacchino Badagliacca nei confronti dell'architetto emergevano già all'anno 2020". Il rancore sarebbe legato alcuni errori nella gestione della pratica amministrativa relativa alla regolarizzazione di un fabbricato di sua proprietà e nella disponibilità del figlio, tanto che era stato notificato l'ordine di demolizione. Al termine della riunione è lo stesso capofamiglia Pietro Badagliacca, che suggella la ritrovata pace con il nipote (Gioacchino) con un vero e proprio patto di sangue: "Ti prometto una cosa davanti a mio figlio, anche se c'è il pro e il contro - afferma il boss - l'ammazzo io a (e qui c'è un omissis, ndr) all'architetto, prima di morire te l'ammazzo io".
Il risentimento su Riina
Durante le indagini, gli inquirenti hanno ascoltato gli indagati commentare la gestione di Cosa Nostra del Capo dei capi Totò Riina, morto in carcere nel 2017, per il quale sembra che nutrissero risentimenti.
"Io mi faccio il conto che eravamo i padroni del mondo perché tu andavi da una parte e trovavi il portone aperto". "No, tutte cose sono finite. Quando una persona ha il delirio di onnipotenza... Nella vita per far funzionare qualsiasi cosa ci vuole equilibrio. Tiri la corda e la rompi... perché si è mangiato tutto e ha portato alla distruzione. Ti dico una cosa, sarebbero cambiati lo stesso i tempi, ma però non saremmo combinati in questa maniera... non con tutti questi pentiti". "Perché tu pensi che se lui non si fosse comportato così, ci sarebbero stati tutti questi pentiti?". Questo era il ragionamento tra Antonino Anello e Gioacchino Badagliacca. Non sapendo di essere intercettati discutevano sui motivi che - a loro dire - avevano portato al progressivo indebolimento di Cosa nostra. Il dito è puntato, spiega il gip Lirio Conti nell'ordinanza di custodia cautelare, contro "la feroce gestione" dell'associazione da parte dell'allora capo indiscusso Totò Riina, che aveva portato all'esecuzione di omicidi eccellenti di appartenenti alle forze dell'ordine e di persone estranee a Cosa nostra nell'ambito del suo progetto stragista. "Quando tu metti mano con gli sbirri ma che senti fare (che vuoi fare, ndr)? - diceva Gioacchino Badagliacca - Ma poi non è nel dna di questa cosa. Le bombe là fuori, fare morire gente innocente... Queste cose oneste sono? Cose di un cristiano che ha onore? Ma perché se muori tu, muore tua figlia a te ti piacerebbe? Che è innocente".
Una strategia che, secondo il ragionamento di Badagliacca condiviso da Anello, aveva portato in tanti a non credere nei 'principi' dell'organizzazione mafiosa, indirizzandoli verso la scelta di collaborare con la giustizia. Un dialogo, in cui scrive il gip, "si percepiva il rammarico dell'uomo d'onore che aveva visto indebolirsi l'organizzazione a cui ancora si fregiava di appartenere secondo una scelta oltranzista e ortodossa". "Non è che uno vuole giustificare - ragionava ancora il boss -, perché uno nella vita fa una scelta e da deve portare sempre avanti fino alla morte, però ha portato al punto le persone a non credere più in quello che fa". Una critica che investiva non solo la 'gestione' Riina ma anche quei mafiosi che si erano alleati con lui, tra i quali lo storico capomandamento Antonino Rotolo, per il quale secondo Badagliacca e Anello, era già stata decretata la condanna a morte, scongiurata solo grazie alla carcerazione. "Nino Rotolo è vivo perché è stato arrestato...". I due interlocutori, annota il gip nell'ordinanza, interloquivano anche della 'statura' mafiosa di Tommaso Buscetta. "Tuo nonno mi dice che era un cristiano con sette paia di cog...", diceva Anello.
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