Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Al “No Mafia Memorial”, il convegno con Piergiorgio Morosini, Luca Tescaroli, Alessandra Dino e Salvatore Cusimano

Stragi di mafia, ricerca della verità, depistaggi di Stato, delegittimazioni a giudici magistrati, misure antimafia in pericolo. Di questo e tanto altro si è parlato venerdì al “No Mafia Memorial” di Palermo in occasione di un evento riguardante il trentennale delle stragi del 1993. Ospiti, il presidente del Tribunale Piergiorgio Morosini, il giornalista Salvatore Cusimano, la docente Alessandra Dino e il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli (collegato via video). Gli ospiti - moderati da Umberto Santino, Presidente del centro siciliano di documentazione G. Impastato - hanno affrontato questi temi riportando aspetti e convinzioni frutto della loro esperienza professionale che hanno arricchito l’incontro. Ad aprire l’iniziativa è stato il giudice Morosini che ha elaborato un pensiero rispetto al diritto alla verità, e di come questa verità non debba essere assicurata o cercata solo nelle aule di giustizia. “L’enfasi della ricerca della verità non nasce solo dall’esigenza di restituire dignità alle vittime e ai familiari delle vittime ma è un tema che riguarda il nostro diritto di cittadinanza”, ha esordito Morosini. “Ogni cittadino ha questo diritto. Negli anni ’90 la discussione planetaria in ordine al diritto alla verità si è legata al passato di diversi Paesi venuti da regimi dittatoriali o da democrazie che hanno subito fatti traumatici che hanno messo a repentaglio la tenuta democratica di certe realtà statuali. Proprio come avvenuto in Italia. E’ qualcosa che a mio avviso ha molto a che vedere con tutti i nostri discorsi del 1992-1993 che hanno a che fare con un grande tema, la qualità della nostra democrazia. E direi con la messa in discussione della stessa”, ha aggiunto il presidente del Tribunale di Palermo. “Il tema di fondo, al di là delle responsabilità penali, riguarda tanti altri protagonisti del circuito istituzionale. Ecco perché ognuno di noi, non solo i familiari delle vittime, può vantare il diritto alla verità”, ha spiegato. Secondo Morosini “c’è una necessità di interrogarsi su eventi che hanno insanguinato il nostro paese per un biennio e l’attualità di quegli interrogativi è dettata dalla consapevolezza che la nostra è ancora una memoria dolente. E’ una memoria incompiuta per quanto possa ormai apparire chiara la traccia di scenari comuni in molti dei delitti che hanno insanguinato il cammino dell’Italia repubblicana. Brutali prove di forza guidate da strategie di destabilizzazione politica”.

La ricerca della verità sulle stragi come termometro di democrazia
L’Italia, ha sottolineato Morosini, “è il Paese delle stragi, a partire da Portella della Ginestra”. “La campagna di attentati del 1992 e del 1993 ha colpito al cuore della nostra democrazia”. In questo senso, secondo l’ex gup di Palermo, “non possiamo trascurare che l’intera campagna stragista si sviluppò senza che gli organismi preposti a garantire la sicurezza della Repubblica potessero dare prova della capacità di controllo di pericoli così grandi come quelli rilevati dagli attentati che si intrecciavano con vicende apparentemente lontane come le imprese e i segnali della falange Armata”, ha affermato.
Gesta attraverso le quali - ha continuato Morosini nella sua analisi - improvvisamente riemersero dall’ombra vecchi strumenti delle strategie di provocazione e di comunicazione. Emergono cose che avevamo già visto con la strage di Piazza Fontana, con la strage di Peteano, con la strage di Piazza della Loggia e la strage alla stazione di Bologna. E’ un fatto oggettivo”.


nomafia memorial stragi93 1


Sin dal primo momento fu drammaticamente chiaro che i disegni criminosi erano difficilmente riconducibili soltanto alle strategie tipiche di un’organizzazione mafiosa, sia pure raffinata a complessa come Cosa Nostra”. Sin dal primo momento, ha ricostruito Morosini, “fu drammaticamente chiaro che le stragi rivelavano disegni criminosi che andavano oltre le esigenze di Cosa Nostra”. Morosini ha quindi ricordato quando Carlo Azeglio Ciampi il 28 luglio 1993 parlò, a Camere riunite, dopo gli attentati in Continente, “di una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. “D’altronde - ha rammentato il giudice - Cosa Nostra ha una storia di agenzie di professionisti della violenza. Falcone affermava che ci furono numerosi elementi che intravedevano convergenza tra la galassia corleonese e altre organizzazioni criminali come la ‘Ndrangheta. Ci furono relazioni tra mondi criminali con servizi segreti, logge massoniche coperte, frange eversive e gruppi indipendentisti. Convergenze che paiono l’incubatrice di forme di violenza politica o strumento per condizionare le istituzioni”, ha concluso sul punto.

Le delegittimazioni contro i pm
Quindi Morosini ha parlato del processo di ricerca della verità, purtroppo esclusivamente affidato alla magistratura che, ha spiegato il giudice, viene sistematicamente osteggiata quando questa viene a scoprire verità che si discostano da narrative rassicuranti sui fatti drammatici degli anni ’90, e non solo.
Credo che la fatica della ricerca della verità non deve essere affidata solo alla magistratura ma in cui devono cooperare tante istituzioni e cittadini”, ha affermato Morosini.
Sulle stragi del 1992-1993 c’è un filone di pensiero, parlo di intellettuali che hanno un forte peso sulla comunicazione di massa, che tende a delegare tutto ai magistrati e nello stesso tempo finisce per esercitare un accanimento critico, per usare un eufemismo, verso tutte quelle tracce di ricostruzione degli eventi che si discostano da un'attribuzione delle responsabilità interamente riconducibili a Cosa Nostra. Soprattutto se indicate oggi, quindi a distanza di oltre trent’anni”, ha aggiunto. Pertanto, ha riassunto il giudici, “solo il circuito giudiziario deve accertare verità, versione riduttiva sulla base delle carte internazionali, e comunque nel momento in cui magistrati fanno il loro dovere ma indicano tracce che vanno oltre la chiave di lettura dell’integrale responsabilità dei componenti di Cosa Nostra, comincia un accanimento non indifferente”. “I bulli più buoni parlando di ‘archeologia giudiziaria’, e quindi di energie sottratte alle emergenze del momento dimenticando che la stagione delle stragi reclama ancora verità e giustizia e che comunque certi reati sono comunque imprescrittibili. I bulli più ‘feroci’ parlano di ‘operazioni  losche’, di politicizzazione o di smania di protagonismo malato in cui si manifestano ‘azioni sfrenate’ e ‘follie ideologiche’, sono espressioni utilizzate testualmente da alcuni commentatori. Ma di fronte a certi sistematici attacchi - ha concluso Morosini - la magistratura non deve farsi intimidire e deve andare avanti per la sua strada”.


morosini nomafia memorial

Piergiorgio Morosini


Tescaroli lancia l’allarme sui pentiti
Restando nell’ambito del percorso di ricerca della verità, gran parte di quello che è stato accertato finora deriva dalle collaborazioni con la giustizia di capi mafia e gregari. Oggi, però, le collaborazioni sono diventate molto più difficili perché non sono convenienti, in quanto una serie di facilitazioni si hanno anche senza collaborare e in un rapporto costi-benefici, come ha spiegato il moderatore dell’incontro di venerdì, i mafiosi preferiscono non collaborare, “continuando a fare i mafiosi e praticare la religione dell’omertà perché tanto comunque ottengono facilitazioni che prima si ottenevano soltanto attraverso la collaborazione”. A spiegare questo concetto, lanciando un preciso allarme sul tema è il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, che fu titolare delle indagini sulla strage di Capaci e ha interrogato numerosissimi pentiti.
La collaborazione con la giustizia, corroborata da verifiche attuali, è lo strumento principe per condurre alla verità”, ha ricordato Tescaroli. “E’ un dato di fatto che i processi che hanno caratterizzato la parentesi stragista, soprattutto quella degli anni 90, hanno consentito di individuare porzioni estremamente significative della verità proprio sulla base dell’apporto fornito dai collaboratori di giustizia e cito due proiezioni di episodi stragisti altamente simbolici come la strage di Capaci per le cui condanne sono state sorrette da otto collaborazioni con la giustizia a partire dall’ottobre-novembre 1993 con Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi fino al giugno 2008 con Gaspare Spatuzza”. Quest’ultimo, però, è stato l’ultimo boss di “livello” ad aver parlato di quei fatti di sangue. Secondo Tescaroli, infatti “c’è stato un diradarsi delle collaborazioni qualitativamente rilevanti”. Questo, a dire del procuratore aggiunto, accade perché “oggi collaborare con la giustizia non è più pagante per gli uomini d’onore, soprattutto gli uomini d’onore di vertice. Il divario che rende appetibile la collaborazione si è ridotto. Si sono ridotti i vantaggi che derivano dalla collaborazione rispetto all’irriducibilità”, ha spiegato. “Credo che bisognerebbe riflettere se non sia il caso di creare le condizioni per riallineare una legislazione in termini più vantaggiosi per il collaboratore in modo che il mafioso non opti più per morire in carcere o per sperare nell’ottenimento di benefeci. Credo che si potrebbe ragionare nell’ottica di verificare se, alla luce del gap differenziale normativo tra i vantaggi per chi collabora e il trattamento riservato ai mafiosi irriducibili, non debba essere nuovamente dilatato. E in riferimento al necessario termine di espiazione di pena che è attualmente previsto nella misura di dieci anni e che con l’applicazione del beneficio della liberazione condizionata può essere accorciata di due anni e mezzo. Se ci fosse la possibilità di rendere più elastico questo termine e ridurre, innanzi a collaborazioni caratterizzate da novità e vantaggi significativi, questo periodo di permanenza in carcere, si potrebbero creare le condizioni per rendere più agevole e vantaggiosa la collaborazione e sempre questo nella prospettiva di cercare di colmare le lacune di conoscenza che ruotano attorno allo stragismo, che ha caratterizzato l’agire di Cosa Nostra, soprattutto negli anni ’80 e negli anni ’90”, ha concluso. Quindi Tescaroli ha manifestato la necessità di “potenziare l’assistenza, il servizio centrale di protezione dei collaboratori di giustizia e poi bisogna rendere concreto l’inserimento sociale di chi collabora con la giustizia con la possibilità del collaboratore di ottenere un lavoro e un assegno onesto. E in questa prospettiva si dovrebbe lavorare molto”.


stragi93 nomafia memorial 2


Dino racconta il silenzio della Chiesa sulle bombe alle basiliche
Dopo la parentesi di Luca Tescaroli sui collaboratori di giustizia, l’evento è tornato a incentrarsi sulle stragi del ’93, per cui anche Tescaroli ha fornito un proprio contributo nella ricostruzione. Quindi è stato il turno di Alessandra Dino, docente dell’Università di Palermo che anzitutto ha fatto un’analisi molto scrupolosa su tutte le opere d’arte danneggiate dalle bombe e il loro significato storico ed esoterico.
Alessandra Dino è una ricercatrice e negli anni ha intervistato familiari delle vittime, magistrati e testimoni degli attentati della mafia in Continente. E nelle sue ricerche, Alessandra Dino ha intervistato anche prelati della chiesa, viste le basiliche strategicamente colpite dal tritolo mafioso. “Il dato più interessante è il silenzio della Chiesa sugli attentati a San Giovanni in Laterano, che è la Basilica del Papa e la chiesa di San Giorgio al Velabro”, ha affermato sul punto Dino.
Mi è capitato di fare due interviste a Roma. Una a un anziano prelato il quale ha messo in evidenza le bombe che però non chiamava mai come tali”, ha ricordato Dino. “Questo prelato non le chiamava mai bombe, né stragi, ma ‘scoppi’. E mette in evidenza tutto questo con il Concilio Vaticano II dicendo essenzialmente che da quel momento in poi, cioè da quando il Concilio spezzò la Chiesa in due, l’attuazione del Concilio ebbe dei pro e dei contro più fermi con molti minori soggetti che si opponevano al Concilio ma con maggiore vigore”. ‘Questo - mi disse - è uno dei motivi, per cui è scoppiato quello che lei dice. Una delle cose per cui ci fu un tale urto politico e massonico per cui praticamente a tuttora il problema non è del tutto risolto’, aggiunse”. “Non è facile decodificare tutto questo - ha affermato la Dino in sala -. Il prelato aggiunge: ‘La mafia aveva degli interessi e questi interessi venivano da varia natura, anche opposti fra di loro: quelli che non volevano cambiare la liturgia, quelli che non volevano l’unità, quelli che non volevano dogmi, quelli che non volevano fare finire il Concilio, la mafia che voleva approfittarne’”. “Lui poi - ha continuato la docente rifacendosi ai suoi appunti del tempo - parlò in maniera esplicita del fatto che Riina fece da padrino di battesimo, lo ricevettero in varie chiese, fece da testimone ai testimoni, nessuno lo toccava e allora spuntò anche qualche vescovo. Quindi aprì uno scenario molto molto inquietante. Quando chiesi di avere maggiori spiegazioni lui mi rispose: ‘Sta alla sua intelligenza capirlo’”.
La professoressa ha raccontato di aver fatto poi un'altra intervista, questa volta a un prelato molto vicino al Cardinale Ruiniche doveva essere nella sede di San Giovanni in Laterano”. Anche questo prelato, che addirittura, “non mi voleva ricevere e poi lui non parla mai di bombe. L’unico danno dello ‘scoppio’, secondo lui, è quello che è stato fatto al Palazzo del Vicariato e alla sua macchina che è saltata in aria. Quando gli chiedo maggiori spiegazioni e gli parlo delle dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia che ci fu una reazione della mafia nei confronti della chiesa lui ebbe una reazione violentissima e mi fece finire l’intervista. Mi raccontò solo dei lavori di ricostruzione. Disse di non conoscere San Giorgio al Velabro, che non ci furono targhe commemorative perché non ci furono feriti, quando in realtà ce ne furono ventidue. Mi sembrava di sentire le stesse cose che dicono i mafiosi quando sono interrogati. ‘Tutto quello che so l’ho letto dai giornali’”.


dino alessandra nomafia memorial

Alessandra Dino


Salvatore Cusimano e le stragi dimenticate
A concludere l’evento è stato Salvatore Cusimano, giornalista siciliano con quarant’anni di carriera alle spalle, volto storico Rai degli anni del dominio di Cosa Nostra e della guerra condotta dai pochi magistrati del tempo. Anche Cusimano, come gli altri ospiti ha parlato della ricerca della verità, e in particolare del fatto che le stragi di mafia del tempo stanno venendo dimenticate.
La narrazione del ’92 ha prevalso su una ricognizione unitaria di questi fenomeni. Questa mia sensazione si è accentuata quando ho visto che anche nel campo dell’antimafia, quella autentica, si è sempre più separato l’attentato di Capaci da quello di via d’Amelio e c’è la tentazione di trovare matrici dei due eccidi”, ha affermato Cusimano. “Si sta avviando sostanzialmente un processo di polverizzazione della ricostruzione storico-politica perché è fin troppo evidente che la quantità di elementi a disposizione di una lettura attenta di questi oltre 40 anni, a cominciare dall’attentato al rapido 904, è così univoca che non consente di poter scantonare da una valutazione certa”. Cusimano ha ricordato che “è esistita una saldatura tra pezzi della politica, pezzi dei servizi segreti deviati, ammessi che siano deviati dato che un mandato l’hanno avuto, e le organizzazioni mafiose”. Per un periodo, ha ricordato il giornalista, “ho ipotizzato che questa saldatura fosse avvenuta tra neofascisti e i servizi segreti soprattutto nel centro-nord Italia e che nel sud del nostro Paese fosse stata delegata la mafia del mantenimento dello Status quo. In realtà io credo che anche al sud dell’Italia come al Nord la partecipazione dei servizi segreti è stata rilevante. Non possiamo aspettare che sia la magistratura a togliere le castagne dal fuoco nella ricerca della verità”.
Secondo Cusimano le stragi del 1992 “sono stragi dimenticate” perché, tra le altre cose, “è mancata anche la procura nazionale antimafia, oltre alla commissione antimafia, perché secondo me sarebbe stato opportuno che ci fosse un coordinamento di inchieste che si muovevano su territori diversi”. E poi a contribuire a questa amnesia totale sulle bombe di mafia, ricordate solo una volta l’anno con passerelle politiche “c’è la nuova ventata politica e la nuova ventata giudiziaria che obbediscono al fatto che un’emergenza mafiosa non si registra più, non c’è più la sensazione che ci sia ancora una sfida in atto”, ha spiegato il giornalista. “E quindi si può tornare a una condizione normale, tra criminalità da una parte e contiguità dall’altra”. “Io penso - ha concluso Cusimano - che sia solo rimasta questa voglia di celebrazioni, in cui si sgomita sul palco e poi il commento alle retate che non finiscono mai di abbondare nei giornali, che danno il senso di una capacità straordinaria di aver eliminato il fenomeno mafioso che in realtà ha una straordinaria capacità di riemergere e soprattutto di adattarsi ai tempi nuovi”.

Guarda l'evento integrale: Clicca qui!

Foto © ACFB

ARTICOLI CORRELATI

Riforma Nordio, Morosini: ''Indebolisce la lotta all'illegalità nelle pubbliche amministrazioni''

Sentenza processo Trattativa, il gup Morosini: ''Non rinnego ciò che ho fatto''

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos