di Karim El Sadi
L’ex reggente di Altofonte ha spiegato la “trattativa”: “Lo scambio era tra opere d’arte e favori su alcune detenzioni"
E' iniziata parlando dei colloqui tra l'ex terrorista nero Paolo Bellini (in foto), nuovamente indagato per la strage di Bologna, e il capomafia Antonino Gioè, la deposizione di ieri mattina del collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera. L’ex reggente della famiglia mafiosa dell’Altofonte, intervenuto durante il processo che si celebra a Caltanissetta davanti al pm Gabriele Paci e alla Presidente Roberta Serio contro il super latitante Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e via d'Amelio, è ritornato a parlare della strategia suggerita a Gioè da Bellini per ricattare lo Stato e costringerlo a scendere a patti con Cosa nostra. Una strategia di sangue che doveva colpire il patrimonio artistico nazionale. “Ma che state facendo in Sicilia? Chi è che sta facendo queste cose? - disse l'ex terrorista al boss durante un incontro avvenuto verso la fine dell’estate del ’92 riportato da La Barbera - Magistrati Carabinieri? Queste cose non portano da nessuna parte… Provate con monumenti e vedi come si alzano la mattina”. Aveva poi aggiunto con una battuta, “pensa se l’Italia una mattina si sveglia senza Torre di Pisa... pensa come lo Stato viene subito a trattare”. I due, che erano in buoni rapporti da qualche anno, ovvero da quando si erano visti insieme al carcere di Sciacca, si sentivano spesso al telefono e “Paolo Bellini venne a Palermo più di una volta addirittura ad Altofonte a casa di Gioè” nel 1992. Il motivo di quelle riunioni segrete aveva a che fare con la richiesta di Bellini ai capi mafia di avere alcune rare opere d’arte in cambio dell’adeguamento della detenzione di alcuni boss di alto livello di Cosa nostra, nonchè, se fosse stato possibile, addirittura della loro scarcerazione. “Bellini era in contatto con carabinieri che si interessavano al recupero di opere d’arte (probabilmente il maresciallo Roberto Tempesta, ndr). - ha spiegato il teste - Ci mostrò alcune foto di dipinti, in cambio ci promise di essere in grado di far uscire qualcuno dal carcere e portarlo in sede ospedaliere”. Secondo quanto riferito dal pentito una volta consegnata la busta con le fotografie dei quadri l’ex boss di Altofonte andò da Matteo Messina Denaro, “esperto nel settore delle opere d’arte”, il quale “si prese un pò di tempo” e solo in un secondo momento gli fece capire che “c’era la possibilità di reperire alcuni quadri che erano stati rubati in passato”, in particolare uno “raffigurante un cane con la testa mozzata”. Dopodichè, in un altro incontro tra Bellini e Gioè questi consegnò all’ex primula nera “una lista con alcuni uomini d’onore detenuti tra cui Bernardo Brusca, Pippo Calò, Giuseppe Giacomo Gambino e altri due”. Ed è proprio durante uno degli ultimi incontri tra Gioè e Bellini, dove i due discutevano dello scambio dipinti-detenuti, che quest’ultimo gli suggerì di accantonare la strategia di Cosa nostra di compiere attentati agli uomini dello Stato e di spostare il mirino, piuttosto, sui monumenti storici nazionali. Un piano che, come lo scambio, “non andò in porto”. Uno dei motivi del fallimento della strategia di Bellini è dovuta ai sospetti e ai dubbi che Leoluca Bagarella aveva iniziato a muovere nei suoi confronti. “Bagarella sospettava che Bellini fosse un infilitrato, tant’è che ordinò di diminuire i colloqui. Su volontà di Bagarella, Brusca mi ordinò di ascoltare insieme a lui, all’insaputa di Bellini, i discorsi dei due e in caso fossero ancora continuati avevamo l’ordine di far fuori Bellini”.
Quella strategia stragista indicata dall’ex di Avanguardia Nazionale sembrerebbe a tutti gli effetti la stessa che descrisse il pm del processo trattativa Stato-mafia Roberto Tartaglia, il quale durante la requisitoria del 12 gennaio 2018 ha parlato di una “Seconda trattativa” di Cosa Nostra, quella delle “opere d’arte” che si interruppe quando proseguì quella intavolata dal Ros con Vito Ciancimino. “C’è stato un secondo piano di trattativa, che è passato alla storia, per semplificazione, come 'Seconda trattativa' o 'trattativa delle opere d'arte'. E' un canale di trattativa assolutamente sincronico, perfettamente coincidente con le tappe temporali, con gli eventi della trattativa principale”.
I falliti attentati agli uomini dello Stato
Durante la sua deposizione il teste Gioacchino La Barbera ha parlato anche di alcuni progetti di attentati organizzati da Cosa Nostra contro uomini delle istituzioni finiti senza successo. Il primo citato dal collaboratore è stato quello che avrebbe dovuto colpire l’on. Pietro Grasso, all’epoca magistrato. In quell’occasione “ero stato incaricato di prendere i telecomandi a Catania da Eugenio Galea ed Enzo Aiello subito dopo la strage di Capaci”. Il periodo in questione è i primi d’autunno del 1992, “per portare a termine l’attentato a Grasso avevamo localizzato un tombino dell’Enel”. La bomba però non è stata fatta esplodere “in quanto la ricevente doveva stare per più giorni in attesa dell’arrivo del magistrato e il tombino si trovava vicino a una banca e mi era stato detto che avrebbe potuto esplodere da solo”.
Il secondo nome illustre che era finito nella lista nera dei boss dopo l’esito del maxi processo, “dove ci era stato promesso che sarebbe caduto il teorema Buscetta”, era quello dell’ex ministro della giustizia Claudio Martelli. Nel suo caso “si erano avviati i preparativi nella fine dell’estate del 92 durante la preparazione dell’omicidio Salvo (avvenuta a settembre di quell’anno, ndr) perchè il nipote Tani San Giorgi si era recato a Roma e aveva fatto un sopralluogo dove Martelli spesso usciva da solo a passeggiare e quindi era facile da colpire”. In conclusione La Barbera ha parlato del famoso agguato al questore Rino Germanà. “Ero stato invitato a prendere Leoluca Bagarella al ritorno dell’attentato per portarlo a casa di Gioacchino Calabrò. - ha rammentato il collaboratore - Lì ho capito che era fallito l’attentato al dottor Germanà. Giorni prima Bagarella si era allenato a sparare con un fucile Ak 47 che non conosceva molto bene. Siccome non lo aveva mai usato gli si è inceppato nello scontro a fuoco con Germanà”. E alla domanda del pm Paci sulle ragioni della volontà di Cosa Nostra di eliminare il questore di Mazara del Vallo, La Barbera ha risposto “Germanà lavorava su Matteo Messina Denaro, faceva indagini su di lui e sulla famiglia trapanese”. L'udienza è stata rinviata al prossimo 4 luglio.
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