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La storia di un omicidio tra pestaggio, depistaggio e occultamenti di verità
E' la sera del 15 ottobre 2009, Stefano Cucchi, un giovane geometra romano di 31 anni, si trova nel Parco degli Acquedotti di Roma. Viene fermato dai carabinieri perché è visto mentre cede alcune confezioni trasparenti, in cambio di una banconota, a Mancini Emanuele. Lo portano subito in caserma e, a seguito di una perquisizione, gli trovano addosso dodici confezioni di hashish e tre di cocaina, una pasticca di sostanza inerte e una di un medicinale per curare la sua epilessia. Stefano Cucchi viene subito messo in arresto. Il giorno dopo, 16 ottobre, si tiene l'udienza del processo in direttissima, in quanto Stefano è stato colto in flagrante (i carabinieri sono stati testimoni del reato, ndr) per la conferma del fermo in carcere. In seduta, viene attribuita a Cucchi una nazionalità straniera e una condizione di, come si dice in gergo, "senza fissa dimora", nonostante fosse regolarmente residente a Roma. Durante il processo, si intravedono le prime "strane" condizioni di salute di Stefano. Ha difficoltà a camminare e a parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi (chiaro segno di un pestaggio, ndr). Il giudice, nonostante ciò, fissa l'udienza per il processo (che si sarebbe dovuta tenere un mese dopo, ndr) e stabilisce che Stefano Cucchi deve rimanere in custodia cautelare presso il carcere di Regina Coeli. Dopo quell'udienza, le condizioni del giovane geometra "inspiegabilmente" peggiorano ulteriormente, tanto da essere visitato all'ospedale Fatebenefratelli. Qui, i medici mettono a referto le sue nuove condizioni di salute evidenziando lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all'addome e al torace, incluse una frattura alla mascella, un'emorragia alla vescica e due fratture alla colonna vertebrale. Viene subito richiesto il ricovero, ma il paziente, senza una ragione, non dà il consenso.
Sono passate meno di 48 ore e Stefano Cucchi si sta avvicinando sempre più al suo destino. Inizia così la sua fine, gli ultimi sei giorni di vita. Il suo calvario lo vede protagonista nelle caserme, in tribunale, in ospedale e in carcere; proprio all’interno di quest'ultimo, le sue condizioni di salute peggiorano ulteriormente. La famiglia non ha notizie del proprio figlio dalla notte del 15 ottobre, fino a quando un ufficiale giudiziario si reca presso l’abitazione dei genitori per notificare l'autorizzazione all'autopsia. E’ il 22 ottobre 2009, Stefano Cucchi è morto nel reparto detentivo dell'ospedale Sandro Pertini di Roma, in circostanze poco chiare. La famiglia è stata lasciata all'oscuro di tutto ciò che è accaduto al figlio, in seguito al suo arresto.

Le sentenze
Il 5 giugno 2013, la III Corte d'Assise di Roma ha condannato, in primo grado, quattro medici dell'ospedale Sandro Pertini di Roma a un anno e quattro mesi di detenzione; il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa) e infine è stato dichiarato colpevole un medico per falso ideologico, con una pena di otto mesi. La Corte d’Assise, inoltre, ha assolto sei persone tra infermieri e guardie penitenziarie, i quali non avrebbero in alcun modo contribuito alla morte di Cucchi.
Il pubblico ministero ha chiesto, per i medici stessi, pene detentive tra cinque anni e mezzo e sei anni e otto mesi. E’ stata sollecitata anche una condanna fino a quattro anni di reclusione per gli infermieri e a due anni per gli agenti penitenziari (accusati di lesioni personali e abuso di autorità, ndr).
Il 31 ottobre 2014, è stata emessa la sentenza della Corte d’Appello di Roma: assolti tutti gli imputati, fra cui i medici. Preso atto dell'assoluzione, il legale della famiglia Cucchi preannunciava un ricorso alla Corte di Cassazione. Il 3 novembre, la sorella, Ilaria Cucchi, ha avuto un incontro con il procuratore della repubblica, Giuseppe Pignatone, per richiedere ulteriori indagini. Questi, stando alle parole della donna rilasciate ai microfoni de "Le Iene", si è impegnato a “rivedere tutti gli atti dell'indagine sin dall'inizio”. Il 15 dicembre 2015, la Cassazione, durante l'udienza pubblica, ha disposto il parziale annullamento della sentenza di appello, ordinando un nuovo processo per cinque dei sei medici dell'Ospedale Pertini, precedentemente assolti. Secondo la sentenza, gli stati patologici di Cucchi avrebbero dovuto imporre maggiore attenzione e approfondimento da parte dei sanitari. Il 18 luglio 2016, invece, al termine del secondo processo d'Appello disposto dalla Cassazione, la Corte d'appello di Roma ha assolto i cinque medici perché "il fatto non sussiste". L’anno successivo, nel gennaio 2017, al termine delle indagini riaperte nel settembre 2015 dalla Procura della Repubblica di Roma, ha avuto inizio il processo-bis della Corte d'Assise (tuttora in corso, ndr) ai carabinieri.
Gli imputati sono stati accusati, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale (oltre che di falso e di calunnia, ndr). Secondo l'accusa, Stefano Cucchi sarebbe morto a causa del pestaggio avvenuto dopo l'arresto. Inoltre, si è dimostrato che le relazioni sul suo stato di salute "sono state modificate" per ordini arrivati dai vertici dell'Arma. Ma non finisce qui. Anche il resoconto della perquisizione, avvenuta a casa dei genitori e fatta dai carabinieri alla ricerca della droga, sarebbe stato manomesso. A evidenziarlo, sarebbero le contraddizioni presenti nella deposizione del carabiniere Aristodemo, all'interno del processo attualmente in corso.

L’inchiesta-bis
Su espressa richiesta dei familiari, nel settembre 2015, la Procura della Repubblica di Roma ha riaperto un fascicolo d'indagine sul caso, affidandolo al sostituto procuratore, Giovanni Musarò. Le indagini si rivolgono, in particolare, ai carabinieri presenti nelle due caserme dove sono avvenute l'identificazione e la custodia in "camera di sicurezza" di Stefano Cucchi, tra la sera del 15 e la mattina del 16 ottobre 2009. Il 17 gennaio 2017, alla conclusione delle indagini preliminari, viene chiesto il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità, nei confronti dei militari dell'Arma dei Carabinieri (Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, ndr). Accusati, questi ultimi, di aver colpito il detenuto con schiaffi, pugni e calci, facendolo cadere e procurandogli lesioni (divenute mortali per una successiva condotta omissiva da parte dei medici curanti, ndr), oltre ad averlo sottoposto a misure restrittive non consentite dalla legge. Tedesco, Nicolardi e il maresciallo Mandolini devono rispondere anche dell'accusa di falso e calunnia, per aver omesso i nomi di Di Bernardo e D'Alessandro nel verbale d'arresto. Gli imputati, inoltre, sono accusati di aver testimoniato il falso al processo di primo grado, per via delle loro dichiarazioni che hanno portato all'accusa di tre agenti della polizia penitenziaria per i reati di lesioni personali e abuso di autorità nei confronti di Cucchi, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. I cinque carabinieri, dunque, sono stati rinviati a giudizio il 10 luglio 2017.
Nell'udienza svoltasi poche settimane fa, il carabiniere Francesco Tedesco, ha ammesso l'avvenuto pestaggio di Cucchi, chiamando in causa i suoi colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Un colpo di scena che nessuno si sarebbe mai aspettato.
Tedesco ha dichiarato di essere stato presente al pestaggio, ma di non avervi materialmente partecipato e di aver, anzi, esortato i suoi colleghi a cessare tale comportamento. Secondo la ricostruzione presentata dal pm Giovanni Musarò: "Tedesco - dopo l'accaduto - aveva già segnalato il tutto in una notazione di servizio che risulta sparita; ragion per cui il 20 giugno 2018 il carabiniere ha presentato una denuncia in cui riferiva di quella avvenuta notazione, determinando così l'iscrizione di un procedimento contro ignoti, nell'ambito del quale ha reso le suddette dichiarazioni circa il reale svolgimento dei fatti".
“In sintesi - ha aggiunto il Pm - Tedesco ha ricostruito i fatti di quella notte e chiamato in causa gli altri imputati: Mandolini, da lui informato, Nicolardi, già al corrente di tutto quando si è recato in Corte d’Assise, Di Bernardo e D’Alessandro, quali autori del pestaggio. (A conferma di ciò, ci sono le dichiarazioni dell'ex-moglie del carabiniere D'Alessandro che ha riferito una conversazione avuta con lui, mentre pronunciava le seguenti parole: "A Cucchi, quante botte gli abbiamo dato!", ndr)".

“Sta venendo fuori la verità, chi sa parli”
Questa è la storia di Stefano Cucchi, un ragazzo di 31 anni morto in circostanze oscure, mentre era nelle mani dello Stato. Il suo non è un caso isolato. Lo accompagnano, infatti, le morti di Riccardo Marielini, Riccardo Basman, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva e tanti altri.
Questi sono solo alcuni dei decessi "oscuri" in cui l'autore porta la stessa firma: Repubblica Democratica dello Stato italiano. Morti avvenute in luoghi in cui il cittadino, qualunque sia la sua colpa, dovrebbe essere controllato, curato e tutelato. Purtroppo, come dimostrano i decessi sopra citati, questi luoghi si sono trasformati in culle di morte, nelle quali il soggetto viene privato dei propri diritti. Il caso Cucchi è caratterizzato da omertà, abusi di potere, privatizzazione dei diritti da parte dello Stato, pestaggio, calunnie e depistaggi di indagine che nuovi documenti e circostanze indicano che probabilmente “fu l’intera catena di comando dell’Arma dei carabinieri di Roma a coprire la verità e le responsabilità del pestaggio mortale di Stefano Cucchi nella caserma Casilina nella notte tra il 15 e il 16 Ottobre 2009”.
Come pochi giorni fa ha scritto il giornalista Carlo Bonini, potrebbero essere coinvolti “l’allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d’armata e comandante interregionale dei Carabinieri "Ogaden" di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise, ndr); l’allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale, ndr) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro, ndr) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina, ndr). Infine - segue Bonini - i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia, ndr) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza, ndr).
E non sono mancati, di certo, i tentativi di mettere ogni cosa a tacere e di denigrare chi ha parlato, onorando così il giuramento fatto in nome della Repubblica Italiana, da parte dei grandi vertici dell’Arma. In questi decessi, a causa dell'omertà e del silenzio che li avvolge, il primo colpevole della morte sembra essere il morto stesso. Sì, un’ipocrisia. Ma viene spesso mostrata come verità indiscutibile dei fatti. Il caso Cucchi non finisce qui. Sta seguendo il suo corso con nuove rivelazioni e analisi.
Magari un giorno si avrà anche una nuova sentenza, questa volta definitiva, che attesti le responsabilità dei colpevoli della morte di questa “vittima dello Stato”.
"Veritas filia temporis", "La verità è figlia del tempo". Non ci resta che continuare ad accompagnare il corso del tempo con continue richieste di verità e giustizia alle più alte cariche dello Stato. E, come ha detto Rita Calore, madre di Stefano Cucchi: "Sta venendo fuori la verità, chi sa parli".

Tratto da: ourvoice.it

Foto © Ansa

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