di Lorenzo Baldo - Video
Una via crucis. È quella che si snoda in ogni immagine del film di Alessio Cremonini “Sulla mia pelle”, presentato con successo alla 75a mostra del cinema di Venezia. Un lungometraggio (uscito il 12 settembre nelle sale e in contemporanea su Netflix) che strazia mente e cuore e che impone di schierarsi da un’unica parte: quella della giustizia e della verità. Magnificamente interpretato da Alessandro Borghi. Che è riuscito a dare voce, corpo e anima al dolore e alla solitudine di un giovane geometra di 31 anni. Un ragazzo indubbiamente coinvolto nel mondo della droga, con tutte le colpe e le debolezze del caso. Ma che non doveva morire per mano di chi aveva il dovere di tutelarlo. In un crescendo di tensione emotiva Alessandro Borghi appare sullo schermo ammanettato dalle forze dell’Ordine. Sta uscendo dall’udienza di convalida del suo arresto. Né il giudice né il pm hanno battuto ciglio di fronte ai lividi ben visibili sul suo viso. Un senso di impotenza nello sguardo attonito e disperato del padre si fonde con una paura bruciante: pensare alla vera ragione di quei lividi. “Abbracciami papà”, dice Stefano Cucchi in un soffio con le manette ai polsi. In quell’ultimo disperato gesto d’amore è come se venisse reciso il filo invisibile che unisce ogni figlio ai propri genitori. Sul volto di questo giovane sono evidenti i segni di quella che non è stata “una caduta dalle scale”. I referti medici di cui si verrà a conoscenza successivamente non lasceranno spazio all’immaginazione: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Ecco come si può morire per mano di servi infedeli di uno Stato di diritto.
Quello stesso diritto che viene brutalmente sospeso nei sette giorni che si susseguono tra il suo arresto, il pestaggio e un via vai tra carcere e ospedale. Stefano Cucchi muore il 22 ottobre 2009 nella struttura protetta del Pertini di Roma: pesa 37 chili. “Quando ho visto Stefano la prima volta stava ‘acciaccato’, era gonfio come una zampogna, aveva ematomi sul viso e sugli zigomi, era viola, perdeva sangue da un orecchio, non parlava bene e non riusciva neanche a deglutire. Quando gli ho visto la schiena sembrava uno scheletro, un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz...”. Mentre le immagini sullo schermo non danno tregua, tornano in mente le parole di Luigi Lainà, detenuto anche lui, che nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 2009 aveva incontrato Cucchi nel Centro clinico del penitenziario. Quelle parole erano state ripetute alcuni mesi fa in un’aula di giustizia al processo bis sulla sua morte. Una volta entrati nel labirinto del tortuoso iter giudiziario di questo caso ci si rende conto del calvario vissuto dalla famiglia Cucchi, dopo sette anni di processi e 73 udienze. Delusioni, amarezze, sconfitte. Poi però arrivano le parole dell’appuntato scelto dei Carabinieri Riccardo Casamassima che, nel maggio del 2015, riaprono il caso. Ma quelle sue stesse dichiarazioni gli costeranno care, al punto di dover denunciare pubblicamente le minacce subite. L’11 gennaio 2018 davanti alla Prima Corte di Assise di Roma si apre il nuovo processo per la morte di Stefano Cucchi. Sul banco degli imputati si ritrovano i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale; il maresciallo Roberto Mandolini è accusato invece di calunnia e falso, mentre lo stesso Tedesco, insieme con Vincenzo Nicolardi, rispondono dell'accusa di calunnia nei confronti dei tre agenti della Penitenziaria che erano stati processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva. Il 17 luglio di quest’anno sono i familiari di Stefano ad essere ascoltati in aula.
“Quando vidi Stefano all'obitorio - testimonia la sorella Ilaria - aveva il volto tumefatto, un occhio fuori dall'orbita, la mascella rotta. Aveva sul volto i segni della solitudine”. “La morte di un figlio è terribile, non ti potrai mai rassegnare - racconta tra le lacrime la madre di Stefano, Rita Calore - in quell'obitorio non l'ho riconosciuto. Quello che vedevo non era più Stefano: era uno scheletro, tutto nero, un occhio di fuori, la mascella fratturata”. La signora Calore ricorda che la sera prima dell'arresto suo figlio le disse: "'Abbracciami mamma, dormi tranquilla, vedi che adesso sto bene'. Fu l'ultimo abbraccio con mio figlio...”. Dal canto suo il padre di Stefano, Giovanni Cucchi, non si dà pace: “Com'è possibile che un ragazzo nelle mani dello Stato sia stato ridotto nel modo in cui l'ho visto all'obitorio. Una cosa spaventosa; non lo auguro a nessuno”. Rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò, Giovanni Cucchi torna ad affrontare i problemi di tossicodipendenza del figlio, del periodo passato in comunità, delle ricadute e di tutti i tentativi per fargli superare quei problemi. “Sono stati dieci anni d'inferno - riferisce - Noi abbiamo fatto tutto il possibile”. Qualche giorno dopo la morte di Stefano i genitori trovano nella casa di Stefano 925 grammi di hashish e 133 grammi di cocaina. Immediatamente denunciano il tutto all’autorità giudiziaria. Sullo schermo, mentre si ascolta con emozione la voce autentica di Stefano Cucchi che depone davanti al giudice, scorrono diverse scritte, contengono dati e numeri che colpiscono come un pugno in pieno viso. “Quando Stefano Cucchi muore nelle prime ore del 22 ottobre 2009, è il decesso in carcere numero 148. Al 31 dicembre dello stesso anno, la cifra raggiungerà la quota di 176: in due mesi trenta morti in più. Nei sette giorni che vanno dall'arresto alla morte, Stefano Cucchi viene a contatto con 140 persone fra carabinieri, giudici, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri. E in pochi, pochissimi, intuiscono il dramma che sta vivendo”.
E se pochissimi lo intuiscono, in tanti si voltano dall’altra parte: per crudeltà, vigliaccheria, paura, omertà o chissà che altro. Ma pur sempre complicità. Sulle quali questo film ha il grande merito di porre inquietanti interrogativi, riuscendo a fornire anche delle possibili conclusioni. Non si può definire “civile” quel Paese nel quale si muore in questo modo. Le coinvolgenti performance degli attori Jasmine Trinca (che interpreta la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi), Max Tortora (il padre) e di Milvia Marigliano (la madre) ci ricordano un dato oggettivo. Al di là del processo in corso che accerterà le singole responsabilità penali degli imputati, non è ammissibile accettare simili ingiustizie. Che potrebbero capitare a chiunque. Quella che è stata definita da Amnesty International “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale”, perpetrata nella civilissima Italia durante il G8 di Genova, rischia di ripetersi - con i dovuti distinguo - ogni qualvolta vengono calpestati i diritti elementari di qualsiasi individuo. In questo caso non è certo l’Arma ad essere sotto processo. E non serve ricordare quanti uomini e donne delle Forze dell’Ordine sacrifichino ogni giorno la propria vita per il bene comune. Qui si tratta di “mele marce” all’interno delle Forze di Polizia, di cui c’è abbondante traccia nella storia giudiziaria del nostro disgraziato Paese, che devono rispondere delle loro azioni o omissioni. Basta pensare alle storie emblematiche di Federico Aldrovandi o Giuseppe Uva. E tante altre vicende che attendono ancora di avere giustizia come il caso di Attilio Manca sul quale la mannaia della giustizia italiana ha infierito con una recente archiviazione. Contribuire a tenere viva l’attenzione sul caso Cucchi è il risultato più importante ottenuto dal film di Alessio Cremonini. Un appassionato, lucido e spietato lungometraggio che si colloca a pieno titolo nell’alveo del cinema civile e di denuncia, mai così necessario come in questi tempi.
Info: Associazione Onlus Stefano Cucchi
VIDEO Alessandro Borghi nella pelle di Stefano Cucchi: "Cerchiamo la verità"
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