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Indice articoli



BOX1

Affari di cosca

“Oggi alle cinque e mezza (ora di Caracas) è qua con gli importatori... dovrebbe portarne quattro”. Così il 20 settembre del 2007 Aldo Micciché, rivolto ad Antonio Piromalli, annuncia il suo imminente incontro con “Don Ugo”, alias Ugo Di Martino, importante esponente della comunità italiana in Venezuela, nato a Pachino (SR) e residente in Caracas. Nonché candidato nel collegio estero del Sud America per le elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008 nelle fila del partito del Popolo della Libertà. Don Ugo per Miccichè è sinonimo di affari. Uno dei tanti che caratterizzano il decreto di fermo di Reggio Calabria e soltanto accennati nei discorsi tra boss della cosca Piromalli captati dagli investigatori e riportati nel documento. “Un primo di questi affari”, nel quale sarebbe coinvolto lo stesso Di Martino,  scrivono i magistrati, riguarda “un vaccino, che il Micciché afferma di aver ‘collocato a livello governativo’ in Sudamerica sì da essere un buon ‘colpo per noi’”. E dalla conversazione che segue è facile comprendere “come sia il Piromalli (formalmente gestore di uno stand di prodotti ortofrutticoli a Milano ndr.) il dominus della situazione, avendo i contatti con una multinazionale americana”. In un altro passaggio i due interlocutori accennano invece a un milione di tonnellate di cemento americano da vendere ogni anno a Italcementi, (Antonio: “e se gli girano questa nota a Lima si prenderebbe tanto di parcella”) e in un’altra ancora a un affare che riguarda “il petrolio” per il quale l’avv. Lima si sarebbe incontrato con un prete che gli indagati chiamano “padre Bonifacio”. Di auto nuove, usate o a Km 0 parlano invece Aldo Micciché e Gioacchino Arcidiaco mentre Antonio Piromalli e Arcidiaco Lorenzo discutono degli interessi dello stesso Piromalli in un settore particolarmente delicato quale quello del mercato orto-frutticolo di Milano, “notoriamente oggetto delle mire di dominio delle cosche mafiose”. Ma il più grande affare delle ‘ndrine della Piana è sempre il Porto di Gioia Tauro, la cui gestione è una delle cause della guerra di mafia in corso con gli storici alleati Molè. Al centro dei contrasti la società cooperativa All Services, che dal 1999 svolge presso il Porto attività di movimentazione delle merci alla rinfusa operando anche nel settore del trasbordo dei container. Su tale società si era rivolta l’attenzione delle cosche, un tempo limitata alle attività puramente estorsive, poi rivolta ad affermare la propria presenza interna, come impresa, nella gestione degli affari. Per circa due anni, dal 2006 fino ai primi mesi del 2008, a contendersi l’acquisizione della All Services -  portata allo stato di liquidazione coatta amministrativa attraverso una ben preventivata strategia – proprio i Molè, da una parte, e i Piromalli dall’altra. I primi tramite il braccio operativo Giuseppe Arena e i secondi per mezzo di Pietro D’Ardes, titolare della Cooperativa Lavoro di Roma, ma con attività in Calabria, affiancato dall’avv. Giuseppe Mancini ed alleatosi con gli Alvaro di San Procopio, proprio con l’avallo dei Piromalli.
La lunga contesa era terminata con la vittoria del gruppo capeggiato dal D’Ardes, che il 31 gennaio del 2008 otteneva la cessione della All Services attraverso l’affitto d’azienda, grazie alla complicità dei liquidatori della cooperativa, le cui informazioni e le cui illecite attività di ausilio si erano rivelate determinanti. E grazie al vero e proprio “patto d’azione”, come lo definiscono gli inquirenti, con gli Alvaro di San Procopio, ma soprattutto “all’avallo ‘concesso’ dai Piromalli”.
Il giorno successivo, 1° febbraio, veniva ucciso Rocco Molè, fratello di Girolamo e reggente della ‘ndrina mentre il 26 aprile saltava in aria, dilaniato da un’autobomba, Antonino Princi, imprenditore legato agli stessi Molè.


BOX2

Il rifiuto di Veltroni

Nel mese di marzo, mentre i Piromalli sono impegnati a procurare voti al senatore Dell’Utri, nelle intercettazioni captate dagli inquirenti non mancano i riferimenti a Walter Veltroni. Che proprio in quei giorni inizia a denunciare il voto di scambio politico-mafioso e ad annunciare una linea dura contro la criminalità organizzata. A Lorenzo Arcidiaco, commentando la volontà di Veltroni di non volere di voti della mafia, Miccichè esclama: “Hai capito il discorso? Hanno respinto ogni forma, ogni cosa!”. Insomma, scrivono sul punto i pm di Reggio Calabria, la mafia avrebbe percepito “come una sventura il rifiuto dei propri voti da parte di una formazione politica, a perfetta conferma, sia delle dinamiche comportamentali delle organizzazioni mafiose, che della particolare e spiccata mafiosità dei soggetti in questione, che delle ragioni per le quali hanno, invece, offerto il loro appoggio ad altra formazione politica i cui rappresentanti entrati in contatto con loro, non solo non hanno rifiutato, ma in qualche caso hanno accettato tale tipo di appoggio, e li hanno sollecitati ad attivarsi per la fornitura” dell’appoggio stesso.


BOX3

50mila schede da barrare

La notizia di presunti legami tra la cosca Piromalli e il senatore Marcello Dell’Utri era emersa, per la prima volta, lo scorso 11 aprile quando alcuni quotidiani avevano pubblicato indiscrezioni, provenienti da ambienti investigativi, secondo le quali boss della mafia calabrese avevano ricevuto da un uomo di partito – poi identificato nel senatore Marcello Dell’Utri - il mandato di mettere mano al voto degli italiani all’estero.
Le indiscrezioni – a seguito delle quali i magistrati della Dda di Reggio Calabria, allarmati, avevano informato l’allora ministro dell’Interno Amato che aveva preso immediate contromisure – erano legate all’inchiesta poi sfociata nel blitz dello scorso 22 luglio. E rivelavano il contenuto di alcune delle intercettazioni telefoniche intercorse tra Dell’Utri e il faccendiere Aldo Miccichè, non presenti nel documento di fermo. Riferite alla presunta disponibilità degli uomini della ‘ndrina di stanza in America latina di favorire il controllo del voto degli italiani all’estero e dirottare a favore del partito di Berlusconi le cosiddette schede di ritorno: quelle che non arrivano all’elettore e che dovrebbero essere rispedite in Italia non compilate. Un affare da 200mila euro che avrebbe visto il coinvolgimento anche di consoli onorari ed addetti ai seggi e che sarebbe riuscito a far guadagnare al Partito delle Libertà più di 50mila voti. Insomma un gioco da ragazzi per la cosca Piromalli che, per dirla con Miccichè, sarebbe stata in grado di raccogliere quegli stessi voti “in un paio d’ore”,  pagando “qualche addetto ai lavori”.
“I responsabili delle votazioni – avrebbe spiegato il faccendiere al suo interlocutore – si tapperanno entrambi gli occhi quando qualcuno dei nostri si preoccuperà di recuperare tutte le schede bianche e barrare la casella col simbolo Pdl”. Cosa che avrebbe spinto il senatore ad alzare il tiro per chiedere un aiuto anche per il voto in Calabria e sentirsi rispondere: “Nessun problema”.
La notizia, appena uscita, aveva infastidito non poco Marcello Dell’Utri, che alla stampa si era affrettato a dichiarare: “Stiamo scherzando? Stiamo dando i numeri! Se vogliono sollevare un polverone elettorale, io questo purtroppo non lo posso impedire. Ma stiamo dando i numeri”. Poi aveva assicurato: “Non conosco personalmente Aldo Micciché, ma l’ho sentito per telefono”, “ero da qualche mese in contatto con lui per ragioni di energia. Lui si occupa di petrolio. Io ero in contatto con una società russa che ha sede anche in Italia, per cui conoscendo questi russi ho fatto da tramite”. Un giorno Micciché “mi ha detto: “Posso occuparmi del voto degli italiani all’estero qui in Sudamerica? Io l’ho messo in contatto con la nostra rappresentante, Barbara Contini. Poi il discorso si è chiuso”. Le intercettazioni racchiuse nel decreto di fermo, che in questi pagine in sintesi riportiamo, raccontano però un’altra verità.

Tratto da: AntimafiaDuemila N°60

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